lunedì 4 aprile 2016

Belgio. Il paese che non sa più darsi una ragione per esistere

                     



aprile 3, 2016 Rodolfo Casadei

Bruxelles potrebbe diventare la prima capitale musulmana di un paese dell’Europa occidentale
 
Pubblichiamo l’articolo contenuto nel numero di Tempi in edicola



Dopo gli attacchi di Parigi del 13 novembre, l’orientalista Gilles Kepel scrisse che l’Isis voleva scatenare una guerra civile di religione di bassa intensità sul suolo francese. Sperava di provocare una reazione xenofoba e imperialista, fatta di retate indiscriminate nei quartieri a maggioranza araba e di bombardamenti alla cieca in Medio Oriente con l’inevitabile strascico di vittime civili, e rappresaglie popolari islamofobe che sfociassero nell’incendio di moschee e madrasse. Queste ingiustizie avrebbero causato l’adesione di un numero crescente di immigrati e figli di immigrati alla linea jihadista, e la guerra di religione sarebbe divampata, mandando in crisi lo Stato francese.
 


















Niente di tutto questo è accaduto, i francesi hanno tenuto i nervi saldi. La Francia è sotto stress, ma è anche l’archetipo dello Stato nazione moderno europeo: non è così facile mandarla in crisi, anche in epoca di società liquida, multiculturalismo e relativismo etico. Se i jihadisti vogliono far cappottare uno stato europeo, il loro bersaglio ideale non è la Francia: è il Belgio.

Nel paese di Simenon e di Eddy Merckx sono riunite tutte le condizioni per il successo della loro operazione eversiva. C’è una minoranza musulmana (prevalentemente marocchina e turca) di recente immigrazione ormai prossima al 10 per cento del totale della popolazione, con un’età media decisamente bassa e una fascia giovanile penetrata dalla predicazione wahabita e afflitta dal disagio esistenziale che caratterizza la maggior parte delle seconde generazioni di immigrati in Europa. Ci sono istituzioni politiche assolutamente disfunzionali, escogitate per tenere insieme comunità linguistiche (francofoni e fiamminghi) che non si amano più e che preferirebbero separarsi: il Belgio detiene il record mondiale di assenza di governo eletto fra le democrazie di stampo occidentale, a cavallo fra il 2010 e il 2011 rimase 589 giorni senza esecutivo dopo le elezioni; l’organizzazione delle forze di polizia è talmente alambiccata che per funzionare anche a livello di un modesto municipio ha bisogno di una “concertazione pentagonale” fra il procuratore del re, il sindaco e i responsabili della polizia comunale, della gendarmeria e della polizia giudiziaria. A Bruxelles siedono quattro governi (il governo federale, quello della Regione Bruxelles Capitale, quello della Comunità francofona e quello della Comunità fiamminga) e diciannove consigli comunali con 19 sindaci.

Soprattutto il Belgio è un paese dove l’identità religiosa che era il collante della nazione è morta e niente ha preso il suo posto. Niente tranne la tecnocrazia e il vuoto esistenziale supportato da uno dei più generosi welfare d’Europa. Bruxelles non crolla sotto il peso delle diseguaglianze sociali fra indigeni e immigrati, che esistono ma non sono così lancinanti. Bruxelles muore perché, come la Bologna del cardinal Biffi, è «sazia e disperata». Il suo cattolicesimo è defunto, anche se le sue istituzioni restano al loro posto, l’islam ha lanciato la sua Opa, ma per adesso si nota solo il disfacimento della civiltà precedente, e i jihadisti giustamente (nella loro logica) concentrano gli sforzi qui.

Il Belgio è nato nel 1830 come stato cattolico. Questa è stata l’identità culturale del paese fino a cinquant’anni fa. Oggi questo è talmente dimenticato che persino un intellettuale rinomato come Ian Buruma, sulle prestigiose pagine della New York Review of Books, monta un incredibile falso storico scrivendo che i francofoni e i fiamminghi che diedero vita al Belgio staccandolo dal regno dei Paesi Bassi «avevano molto poco in comune, tranne l’odio per gli olandesi». Certamente odiavano il loro sovrano Guglielmo I di Orange-Nassau, ma non perché era olandese: era un despota protestante che discriminava i cattolici. Il Belgio nacque così, da una ribellione cattolica binazionale contro un re protestante.

L’ascesa dell’islam

Il regno del Belgio garantì pieni diritti linguistici a tutti, finanziò a pieno regime l’istruzione e la sanità cattoliche, donò alla Chiesa migliaia di missionari a cavallo fra il XIX e il XX secolo e le prestigiose università cattoliche di Lovanio e Malines. Poi negli anni Sessanta del secolo scorso le università cattoliche belghe, come quelle olandesi, divennero progressiste, il cardinale Suenens e il teologo domenicano Edward Schillebeeckx tradussero nella pratica pastorale e nell’insegnamento accademico le posizioni ultraliberali che non avevano potuto imporre al Concilio Vaticano II, e cominciò il rapido declino del cattolicesimo belga. Oggi appena metà della popolazione si definisce cattolica: nel 1967 era più del 90 per cento.

Nel 2009, quando lo scandalo della pedofilia nella Chiesa era cominciato ma non era ancora esploso in pieno (sarebbe accaduto l’anno dopo), meno del 10 per cento dei battezzati frequentava la Messa domenicale, meno del 30 per cento dei matrimoni si celebrava in chiesa, solo il 54 per cento dei neonati veniva battezzato e solo il 58 per cento dei belgi aveva funerali religiosi. Nel 1967 i battesimi erano quasi il 95 per cento, i matrimoni in chiesa l’85 per cento, i funerali religiosi l’80 per cento e il precetto domenicale era assolto dal 35 per cento della popolazione. Nello stesso 2009 il 46 per cento dei bambini che hanno visto la luce sono nati fuori da un matrimonio, contro il 2,7 per cento del 1969.

Al tramonto del cattolicesimo corrisponde l’ascesa dell’ancora molto minoritario islam. La sua minorità però è solo apparente, e non soltanto per motivi aneddotici come il fatto che Mohamed sarebbe il nome di persona più comune a Bruxelles. L’Economist ha recentemente commentato uno studio sull’attitudine dei belgi francofoni nei confronti della religione condotto dall’Osservatorio europeo sulla religione e la laicità. Da esso si desume che il 20 per cento dei franconi della Vallonia e della regione di Bruxelles si definiscono cattolici praticanti, il 43 per cento cattolici non praticanti, il 6 per cento musulmani praticanti e l’1 per cento musulmani non praticanti. Se però si prendono in considerazione i dati della sola regione di Bruxelles, le statistiche dicono che i cattolici praticanti sono il 12 per cento, i non praticanti il 28, i musulmani praticanti il 19 e quelli non praticanti il 4 per cento, mentre atei e agnostici ammontano al 30. Il sorpasso dei musulmani sui cattolici, per quanto riguarda i più religiosamente impegnati, è già cosa fatta. Fra le generazioni più giovani la pratica religiosa è meno forte, ma anche lì i musulmani sopravanzano i cattolici: il 14 per cento dei belgi fra i 18 e i 34 anni è un musulmano impegnato, contro il 12 per cento soltanto che si dichiara cattolico impegnato. Molti ragazzi belgi frequentano scuole confessionali (cattoliche, islamiche, ebraiche) finanziate dallo Stato, ma anche nella scuola statale l’insegnamento religioso è fornito su richiesta degli interessati. Ebbene, la metà degli iscritti alle statali richiede l’insegnamento religioso islamico. Conclude l’Economist: «Se questo trend continua, i praticanti musulmani potranno presto superare quelli cattolici non solo nella cosmopolita Bruxelles, come accade già ora, ma anche in tutta la metà meridionale del Belgio. Una cosa è certa: se qualcosa terrà insieme il Belgio in un terzo secolo di esistenza, quella cosa non sarà il cattolicesimo».

Laicità, eutanasia, astrazione

Sono senz’altro d’accordo col settimanale britannico i socialisti, che insieme a ecologisti e laici delle varie formazioni politiche stanno cercando di realizzare una maggioranza parlamentare alternativa (attualmente governa una coalizione di centrodestra) per introdurre nella costituzione belga il principio della laicità. Sarebbe il primo passo per arrivare, col tempo, alla soppressione dei finanziamenti pubblici alle scuole e alle cliniche cattoliche e delle altre religioni organizzate. Ma prima di tutto bisogna emarginare l’insana idea che il cristianesimo abbia qualcosa a che fare col Belgio di oggi. È del gennaio scorso un tweet di Rudi Vervoort, il socialista ministro-presidente della regione di Bruxelles Capitale: «Sarkozy viene ad Anversa e fa riferimento alla nostra storia giudaico-cristiana, è una cosa scioccante».

Per i socialisti il collante del Belgio post-cristiano sembra essere “più morte per tutti”: il paese è stato uno dei primi a legalizzare l’eutanasia su richiesta nel 2002, e il primo al mondo a estenderla ai minorenni senza limiti di età nel 2014. Adesso si vorrebbe estenderla anche alle persone «in stato di incoscienza progressiva». Il senatore Philippe Mahoux auspica la sua estensione alle persone colpite da patologie cerebrali degenerative: «Grazie alle scoperte della neuroscienza, potremo determinare dove si colloca la frontiera fra coscienza e incoscienza».

Insomma, il Belgio non sa più chi è, a parte essere il paese dove si trova la città dove sono insediate le istituzioni dell’Unione Europea. Le quali sembrano insediate lì proprio per dare una parvenza di identità a un paese che non l’ha più. Ma un’identità a sua volta vuota, puramente tecnocratica. Le sedi principali degli organismi europei, «monumentali e astratte», come sottolinea Ian Buruma nel suo articolo, sono orrori di architettura modernista senza forma: «Il gigantesco Berlaymont, sede della Commissione, è grandioso ma privo di qualunque carattere, un’espressione di vetro e acciaio di grande potere, ma senza nessun fascino culturale, storico o estetico. Ancora più odioso è l’edificio Justus Lipsius: questo pezzo di brutalità modernista ospita il Consiglio dell’Unione Europea».

Verso un nuovo primato

La grandiosità architettonica vanesia ed esorbitante è stata il marchio di fabbrica di Bruxelles, città dove esteticamente si salvano solo la rinascimentale e barocca Grand Place e qualche esempio di art déco, ma dove fanno incresciosa mostra di sé il palazzo di giustizia più grande d’Europa (26 mila metri quadrati di superficie e uno stile più confuso che indefinibile), un Palais Royal neoclassico più grande di Buckingham Palace e un arco di trionfo al parco del Cinquantenario che fa il verso alla Porta di Brandeburgo. In passato il Belgio si dava un tono a suon di eccessi architettonici. Oggi che non sa più quale sia la sua identità cerca la sua ragion d’essere in qualche record civile: è stato il primo paese a introdurre l’eutanasia sui bambini, magari sarà il primo a introdurla per i malati privi di coscienza.

Ma c’è un altro record che permetterebbe al Belgio di vantare una eccezionalità. Si parla tanto e male di Molenbeek e dei suoi abitanti e adesso pure di Schaerbeek. Ma a Molenbeek l’area degradata non è superiore a un terzo di tutto il comune, e anche lì l’edilizia abitativa è migliore di quella dei quartieri popolari di Milano; Schaerbeek è un gioiello di art déco e di art nouveau e un mosaico di piccoli quartieri non solo arabi. Quattro anni fa, una coppia mista residente nel quartiere, lui belga e lei marocchina, fu aggredita e insultata da una gang di arabofoni fin dentro casa. Ma insomma, sono cose che succedono. Un altro primato belga è possibile: Bruxelles potrebbe diventare la prima capitale musulmana di un paese dell’Europa occidentale.

Foto Ansa/Ap


 Tempi.it





Nessun commento:

Posta un commento