martedì 16 febbraio 2016

Cirinnà, omosessualisti e vegetariani






Il Foglio

Luciano Capone 10-2-16

Il ddl Cirinnà affronta alcuni problemi reali di persone che chiedono una risposta, ma lo fa in maniera confusa: garantisce alcuni i diritti che potrebbero essere riconosciuti anche senza un’unione formale e introduce un nuovo istituto, l’unione civile, molto simile al matrimonio ma di rango inferiore. Sarebbe stato preferibile, anche per evitare di ritornare prossimamente con gli stessi dibattiti sul tema, fare una battaglia aperta per il 'matrimonio gay' o per l’estensione dell’istituto matrimoniale alle coppie omosessuali e sottoporlo a referendum (visto che tra l’altro le forze politiche, lasciando libertà di coscienza ai parlamentari, non sono in grado di svolgere pienamente la funzione rappresentativa).

 Ma, per stare all’attualità, il disegno di legge che il Senato si appresta a votare presenta nella sua impostazione altre due criticità: quella di voler trasformare i desideri in diritti e quella di trasformare alcuni diritti in obblighi a carico di altri. Nel primo caso, attraverso la stepchild adoption si legittima, surrettiziamente e in maniera molto ipocrita, una cosa che allo stesso tempo si condanna come la surrogazione di maternità (detta più volgarmente “utero in affitto”), un altro tema su cui sarebbero più utili dibattiti sinceri e discussioni franche.

Nell’altro caso, il ddl Cirinnà, invece di dare semplicemente diritti a chi li vuole riconosciuti, impone obblighi e doveri a chi non ha mai pensato di volersene fare carico. Dall’art.11 in poi infatti vengono definiti i rapporti nelle convivenze di fatto, ovvero tra persone che vivono insieme ma non hanno voluto vincolarsi con un matrimonio o un’unione civile: anche queste coppie, senza saperlo e senza volerlo, vengono costrette dallo stato a cedere al partner diritti patrimoniali (art.13: in caso di morte il convivente superstite ha diritto di continuare a vivere nella casa di proprietà del partner deceduto, anche se questo non ha mai manifestato questa volontà) e obbligati a prestare alimenti e mantenimento all’ex convivente anche dopo la rottura di un rapporto mai formalizzato (art. 15).
 
Una gabbia statalista che non lascia possibilità né agli omosessuali né agli eterosessuali di vivere liberamente le proprie relazioni affettive. Lo stato individua la data d’inizio della 'convivenza di fatto' e impone diritti e doveri come se la coppia avesse deciso di sposarsi o di unirsi civilmente. In realtà, più che di una norma che introduce la libertà per le coppie omosessuali di unirsi civilmente e contrarre diritti e doveri, è una legge che impone a tutti il divieto di convivere liberamente e l’obbligo di prendere impegni patrimoniali.

Ma a ben guardare si tratta della stessa impostazione statalista e livellatrice dei diritti individuali che Monica Cirinnà ha posto alla base di un suo altro disegno di legge che riguarda le “Norme per la tutela delle scelte alimentari vegetariana e vegana”. Anche in questo caso dietro l’enunciazione di un principio sacrosanto, quello di lasciare ognuno libero di scegliere la propria dieta (come è giusto che ognuno sia libero di esprimere le proprie preferenze sessuali), la Cirinnà più che riconoscere un diritto individuale lo trasforma in un obbligo a carico di altre persone: “In tutte le mense pubbliche, convenzionate e private, o che svolgono in qualsiasi modo servizio pubblico … devono essere sempre offerti e pubblicizzati almeno un menù vegetariano e uno vegano in alternativa alle pietanze contenenti prodotti o ingredienti animali”.
 
E la norma è severissima, perché non permette a bar e ristoranti di cavarsela con una semplice insalata: devono offrire menù con “un apporto bilanciato così come indicato dalla scienza ufficiale in materia di nutrizione e considerando i progressi scientifici”, inoltre le pietanze non devono contenere una serie di ingredienti di origine animale inseriti in un elenco dettagliato e anche “le uova presenti nelle preparazioni vegetariane devono provenire da galline allevate con metodo biologico o allevate all’aperto”. In caso di violazione delle disposizioni le sanzioni sono pesantissime: da 3.000 a 18.000 euro fino alla revoca della licenza.

Si tratta di due provvedimenti diversi, apparentemente lontanissimi, che però hanno la stessa impostazione e lo stesso difetto: estendono diritti ad alcune minoranze ma sopprimono la libertà di tutti, facendo infilare lo stato nelle cucine e nelle camere da letto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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