di Andreas Hofer
Esistono strategie precise per avvelenare il confronto di idee. Ha imparato a conoscerle bene chi, prendendo parte alla più recente veglia veronese delle Sentinelle in piedi, si è trovato a fronteggiare la marea montante di insulti, urla, frizzi e lazzi d’ogni genere elargiti con prodigalità da uno sparuto ma chiassoso drappello di militanti LGBT.
Dopo averli visti all’opera, viene quasi naturale pensare ai falsi ragionamenti che Aristotele vedeva legati all’uso delle parole. Sono le cosiddette «fallacie semantiche»: pseudo argomenti modulati sull’ambiguità e sull’equivoco, la materia prima dei sofisti d’ogni tempo.
La fallacia semantica mette in circolazione una falsa moneta simbolica: consiste nel celare una non-verità facendosi scudo dei differenti significati di una stessa parola. Gli esempi potrebbero essere innumerevoli: una sola parola, “calcio” ad esempio, può significare tanto l’elemento chimico quanto il gioco; “capo” può indicare sia la testa che il datore di lavoro.
«Zeitalter der Sophisten – unsre Zeit» («L’età dei sofisti: il nostro tempo»). La nostra è l’epoca della sofistica trionfante, scriveva nella primavera del 1870 l’insospettabile Friedrich Nietzsche. [1] E infatti è saturo, il nostro dibattito pubblico, di argomenti fondati sul sistematico avvelenamento della verità. [2] Non si sottraggono certo al campionario delle verità avvelenate anche le principali parole-talismano («riconoscimento», «diritto di cittadinanza») utilizzate dai partigiani del matrimonio omosessuale per sostanziare le proprie rivendicazioni.
Nel suo saggio Le mariage gay Thibaud Collin ha evidenziato l’abilità dialettica con cui il movimento gay ha saputo guadagnarsi il consenso dell’opinione pubblica volgendo a proprio favore l’ambivalenza semantica della moderna «politica del riconoscimento».
Charles Taylor, acuto indagatore del multiculturalismo, distingue infatti due accezioni contrastanti del termine «riconoscimento». Alla medesima espressione (recognition, nell’originale inglese) fanno riferimento tanto una accezione di stampo universalistico, che relega nella sfera privata le identità particolari a profitto dell’uguaglianza di diritti e doveri del cittadino, quanto una seconda accezione di matrice identitaria che, in contrasto con la prima, riflette la sollecitudine moderna per l’«autenticità» mettendo in rilievo le unicità delle singole identità. [3]
L’uso pubblico della fallacia dell’equivocazione propizia così surrettiziamente lo slittamento semantico – che al tempo stesso è un trasbordo ideologico – da «cittadino» a «gay», identificando formalmente queste due realtà. «È certamente lo stesso individuo che può essere gay e cittadino francese – osserva Collin –, ma volersi appoggiare sul fatto di essere cittadino (che in quanto tale ha diritti uguali a quelli di tutti gli altri cittadini) per reclamare dei diritti in quanto gay significa passare al secondo senso della parola riconoscimento, centrato su una identità (particolare e minoritaria) che si cerca di far accettare all’insieme del corpo sociale». [4]
Ma esistono anche altre tattiche per infestare il campo argomentativo.
1. Attivazione di «frames». Vi sono espressioni che evocano concetti, predispongono orientamenti politico-ideologici. Alcune espressioni sono tipicamente “progressiste”, altre sono tipicamente “conservatrici”, e via dicendo. Nell’atto di usare una espressione come «non siamo nel medioevo!» si attiva un quadro ideologico tipicamente progressista in cui ogni difesa dei valori tradizionali risulta debole, impacciata, già perdente in linea di principio perché rinserrata nel recinto semantico dell’oscurantismo (che, si sa, per definizione è cattolico).
I frames sono, pertanto, i quadri ideologici che plasmano un linguaggio politico. Sono strutture (frame, in inglese) di concetti legati tra loro da significati ben precisi. Danno luogo, scrive D’Agostini, a una sorta di «preorientamento del giudizio» in senso positivo o negativo.
Un modo tipico di attivare un frame negativo è l’uso di formule definitorie ad alto contenuto evocativo. Di eccezionale violenza – e pericolosità – è il ricorso a termini come «fascista», «nazista», «omofobo». L’uso di espressioni che evocano di per sé implicazioni negative (reductio ad Hitlerum) è pratica corrente in ogni forma di terrorismo intellettuale.
Il procedimento è sempre il medesimo. Occorre innanzitutto imprimere nell’immaginario collettivo un archetipo del male, suscitare una “figura funesta” dal senso indefinito, dai contorni alquanto vaghi, elastici. A questo punto è sufficiente assimilare il proprio avversario a questo archetipo maligno. [5]
Spogliare il nemico della sua umanità per farne un simbolo astratto del male. Non sfuggirà la violenza immanente all’uso di certi frames negativi. Sempre l’annientamento simbolico dell’umanità del “nemico ideologico” ha preceduto il suo annientamento fisico. È grondato di sangue, questo habitus mentale capace di trasformare gli uomini in fiere. [6] Ciò basta a capire perché dietro ogni violenza verbale si stagli, in agguato, il profilo della “parola che uccide”.
2. Provocazione. Fa parte della famiglia delle fallacie «esecutive». Qui parliamo della violazione più o meno palese delle norme di comportamento che regolano ogni dibattito. Si tratta di un’azione di disturbo che riguarda, più che i contenuti o i significati delle parole, il contegno di chi le usa e partecipa al confronto dialettico.
Con la provocazione si vuol far degenerare la controversia spingendo l’avversario a perdere le staffe. Suscitarne la reazione violenta in maniera tale da minarne la credibilità. I modi per produrre questo effetto sono potenzialmente infiniti. A questo scopo certo sono di particolare efficacia le continue interruzioni, l’insolenza diretta o indiretta (verso cose, persone, storie, tradizioni, idee e teorie stimate dall’avversario).
Il provocatore che si serve della parola occisiva è mosso dalla volontà maligna di procurare una scissione interiore. Vuole aprire una piaga nell’intimo di quell’organo del senso morale che è la coscienza. È fondamentale sapere, tuttavia, che la provocazione è l’arma della disperazione, l’espediente ultimo, estremo, di chi sente vacillare le proprie convinzioni.
Occorre, pertanto, vegliare fino a quando la ragione non si desterà dal sonno, finché non desisterà dai propri sogni di distruzione. Le Sentinelle vegliano non per distruggere il presente o per restaurare il passato, ma per riconciliare in forme nuove l’ordine della madre e quello del padre. Vegliano silenziosamente, perché il silenzio è la matrice dell’individuazione, ciò che rende compatta la persona, esatta antitesi dell’umanità indifferenziata promossa dalla società dei consumi. Saper reggere lo sguardo ostile e la violenza verbale senza cadere nel tranello della provocazione è incarnare la tranquillitatis ordinis, sintesi di pace e verità. Equivale a una dimostrazione di forza e maturità. È questa la terra sana, solida, su cui edificare un futuro migliore per tutti.
[1] http://gutenberg.spiegel.de/buch/3258/4
[2] È utile qui la rassegna di Franca D’Agostini, Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, Bollati Boringhieri, Torino 2010.
[3] Cfr. Charles Taylor, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, tr. it. Anabasi, Milano 1993.
[4] Thibaud Collin, Le mariage gay. Les enjeux d’une revendication, Eyrolles, Paris 2005, p. 35.
[5] «L’accusa – scrive Jean Sévillia – può essere esplicita o essere mossa con insinuazioni, spalancando la porta a un processo alle intenzioni: ogni oppositore può essere attaccato non sulla base di quel che pensa, ma sui pensieri che gli si attribuiscono. Il manicheismo ha delle conseguenze vincolanti, si fonda in ultima istanza su un’altra logica: la demonizzazione. Non è questione di discutere per convincere: si tratta di intimidire, di colpevolizzare, di squalificare». (Jean Sévillia, Le terrorisme intellectuel de 1945 à nos jours, Perrin, Paris 2000, p. 10)
[6] La connessione tra parola omicida e disumanizzazione è lumeggiata con particolare chiarezza nell’intervista rilasciata da Silveria Russo, ex militante di Prima Linea, a Sergio Zavoli. «Allora tutto era mediato dall’ideologia e quindi dal vedere le persone come simboli. Per me quel magistrato o un’altra persone che si decideva di sopprimere era un simbolo, non era una persona». (Sergio Zavoli, La notte della Repubblica, Mondadori, Milano 1995, p. 385)
Il pericolo consiste in questo: che l’intelletto umano è libero di distruggersi.
(G.K. Chesterton)
(G.K. Chesterton)
Dopo averli visti all’opera, viene quasi naturale pensare ai falsi ragionamenti che Aristotele vedeva legati all’uso delle parole. Sono le cosiddette «fallacie semantiche»: pseudo argomenti modulati sull’ambiguità e sull’equivoco, la materia prima dei sofisti d’ogni tempo.
La fallacia semantica mette in circolazione una falsa moneta simbolica: consiste nel celare una non-verità facendosi scudo dei differenti significati di una stessa parola. Gli esempi potrebbero essere innumerevoli: una sola parola, “calcio” ad esempio, può significare tanto l’elemento chimico quanto il gioco; “capo” può indicare sia la testa che il datore di lavoro.
«Zeitalter der Sophisten – unsre Zeit» («L’età dei sofisti: il nostro tempo»). La nostra è l’epoca della sofistica trionfante, scriveva nella primavera del 1870 l’insospettabile Friedrich Nietzsche. [1] E infatti è saturo, il nostro dibattito pubblico, di argomenti fondati sul sistematico avvelenamento della verità. [2] Non si sottraggono certo al campionario delle verità avvelenate anche le principali parole-talismano («riconoscimento», «diritto di cittadinanza») utilizzate dai partigiani del matrimonio omosessuale per sostanziare le proprie rivendicazioni.
Nel suo saggio Le mariage gay Thibaud Collin ha evidenziato l’abilità dialettica con cui il movimento gay ha saputo guadagnarsi il consenso dell’opinione pubblica volgendo a proprio favore l’ambivalenza semantica della moderna «politica del riconoscimento».
Charles Taylor, acuto indagatore del multiculturalismo, distingue infatti due accezioni contrastanti del termine «riconoscimento». Alla medesima espressione (recognition, nell’originale inglese) fanno riferimento tanto una accezione di stampo universalistico, che relega nella sfera privata le identità particolari a profitto dell’uguaglianza di diritti e doveri del cittadino, quanto una seconda accezione di matrice identitaria che, in contrasto con la prima, riflette la sollecitudine moderna per l’«autenticità» mettendo in rilievo le unicità delle singole identità. [3]
L’uso pubblico della fallacia dell’equivocazione propizia così surrettiziamente lo slittamento semantico – che al tempo stesso è un trasbordo ideologico – da «cittadino» a «gay», identificando formalmente queste due realtà. «È certamente lo stesso individuo che può essere gay e cittadino francese – osserva Collin –, ma volersi appoggiare sul fatto di essere cittadino (che in quanto tale ha diritti uguali a quelli di tutti gli altri cittadini) per reclamare dei diritti in quanto gay significa passare al secondo senso della parola riconoscimento, centrato su una identità (particolare e minoritaria) che si cerca di far accettare all’insieme del corpo sociale». [4]
Ma esistono anche altre tattiche per infestare il campo argomentativo.
1. Attivazione di «frames». Vi sono espressioni che evocano concetti, predispongono orientamenti politico-ideologici. Alcune espressioni sono tipicamente “progressiste”, altre sono tipicamente “conservatrici”, e via dicendo. Nell’atto di usare una espressione come «non siamo nel medioevo!» si attiva un quadro ideologico tipicamente progressista in cui ogni difesa dei valori tradizionali risulta debole, impacciata, già perdente in linea di principio perché rinserrata nel recinto semantico dell’oscurantismo (che, si sa, per definizione è cattolico).
I frames sono, pertanto, i quadri ideologici che plasmano un linguaggio politico. Sono strutture (frame, in inglese) di concetti legati tra loro da significati ben precisi. Danno luogo, scrive D’Agostini, a una sorta di «preorientamento del giudizio» in senso positivo o negativo.
Un modo tipico di attivare un frame negativo è l’uso di formule definitorie ad alto contenuto evocativo. Di eccezionale violenza – e pericolosità – è il ricorso a termini come «fascista», «nazista», «omofobo». L’uso di espressioni che evocano di per sé implicazioni negative (reductio ad Hitlerum) è pratica corrente in ogni forma di terrorismo intellettuale.
Il procedimento è sempre il medesimo. Occorre innanzitutto imprimere nell’immaginario collettivo un archetipo del male, suscitare una “figura funesta” dal senso indefinito, dai contorni alquanto vaghi, elastici. A questo punto è sufficiente assimilare il proprio avversario a questo archetipo maligno. [5]
Spogliare il nemico della sua umanità per farne un simbolo astratto del male. Non sfuggirà la violenza immanente all’uso di certi frames negativi. Sempre l’annientamento simbolico dell’umanità del “nemico ideologico” ha preceduto il suo annientamento fisico. È grondato di sangue, questo habitus mentale capace di trasformare gli uomini in fiere. [6] Ciò basta a capire perché dietro ogni violenza verbale si stagli, in agguato, il profilo della “parola che uccide”.
2. Provocazione. Fa parte della famiglia delle fallacie «esecutive». Qui parliamo della violazione più o meno palese delle norme di comportamento che regolano ogni dibattito. Si tratta di un’azione di disturbo che riguarda, più che i contenuti o i significati delle parole, il contegno di chi le usa e partecipa al confronto dialettico.
Con la provocazione si vuol far degenerare la controversia spingendo l’avversario a perdere le staffe. Suscitarne la reazione violenta in maniera tale da minarne la credibilità. I modi per produrre questo effetto sono potenzialmente infiniti. A questo scopo certo sono di particolare efficacia le continue interruzioni, l’insolenza diretta o indiretta (verso cose, persone, storie, tradizioni, idee e teorie stimate dall’avversario).
Il provocatore che si serve della parola occisiva è mosso dalla volontà maligna di procurare una scissione interiore. Vuole aprire una piaga nell’intimo di quell’organo del senso morale che è la coscienza. È fondamentale sapere, tuttavia, che la provocazione è l’arma della disperazione, l’espediente ultimo, estremo, di chi sente vacillare le proprie convinzioni.
Occorre, pertanto, vegliare fino a quando la ragione non si desterà dal sonno, finché non desisterà dai propri sogni di distruzione. Le Sentinelle vegliano non per distruggere il presente o per restaurare il passato, ma per riconciliare in forme nuove l’ordine della madre e quello del padre. Vegliano silenziosamente, perché il silenzio è la matrice dell’individuazione, ciò che rende compatta la persona, esatta antitesi dell’umanità indifferenziata promossa dalla società dei consumi. Saper reggere lo sguardo ostile e la violenza verbale senza cadere nel tranello della provocazione è incarnare la tranquillitatis ordinis, sintesi di pace e verità. Equivale a una dimostrazione di forza e maturità. È questa la terra sana, solida, su cui edificare un futuro migliore per tutti.
——————————————
[2] È utile qui la rassegna di Franca D’Agostini, Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, Bollati Boringhieri, Torino 2010.
[3] Cfr. Charles Taylor, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, tr. it. Anabasi, Milano 1993.
[4] Thibaud Collin, Le mariage gay. Les enjeux d’une revendication, Eyrolles, Paris 2005, p. 35.
[5] «L’accusa – scrive Jean Sévillia – può essere esplicita o essere mossa con insinuazioni, spalancando la porta a un processo alle intenzioni: ogni oppositore può essere attaccato non sulla base di quel che pensa, ma sui pensieri che gli si attribuiscono. Il manicheismo ha delle conseguenze vincolanti, si fonda in ultima istanza su un’altra logica: la demonizzazione. Non è questione di discutere per convincere: si tratta di intimidire, di colpevolizzare, di squalificare». (Jean Sévillia, Le terrorisme intellectuel de 1945 à nos jours, Perrin, Paris 2000, p. 10)
[6] La connessione tra parola omicida e disumanizzazione è lumeggiata con particolare chiarezza nell’intervista rilasciata da Silveria Russo, ex militante di Prima Linea, a Sergio Zavoli. «Allora tutto era mediato dall’ideologia e quindi dal vedere le persone come simboli. Per me quel magistrato o un’altra persone che si decideva di sopprimere era un simbolo, non era una persona». (Sergio Zavoli, La notte della Repubblica, Mondadori, Milano 1995, p. 385)