giovedì 27 novembre 2025

“Una caro”. Dietro le belle parole ecco il cavallo di Troia della nuova morale sessuale




by Aldo Maria Valli, 27 nov 2025


di Chris Jackson

Dopo il commento che “Duc in altum” vi ha proposto ieri, torniamo su “Una caro. Elogio della monogamia”, la “Nota dottrinale sul valore del matrimonio come unione esclusiva e appartenenza reciproca” diffusa dal Dicastero per la dottrina della fede con l’approvazione di papa Prevost.

Il documento si presenta come una meditazione sulla carità coniugale e in superficie suona abbastanza bene: linguaggio biblico su “una sola carne”, riverenti cenni a Giovanni Paolo II, qualche inchino d’obbligo all’”Humanae vitae” e all'”apertura alla vita” degli sposi cristiani.

Sotto la patina pia, il documento compie però un’operazione che va sottolineata. Sposta silenziosamente il centro del matrimonio dal legame divinamente istituito tra sesso e procreazione a una visione essenzialmente psicologica della “carità coniugale”, vissuta secondo un’antropologia fluida e terapeutica mutuata dalle più recenti sperimentazioni della Pontificia accademia per la vita.

Una volta osservato il modo in cui il testo cita Karol Wojtyła e riformula l'”apertura alla vita”, diventa chiaro cosa sta succedendo. “Una caro” non è un attacco frontale alla dottrina cattolica. È il cavallo di Troia parcheggiato appena dentro i cancelli: ancora avvolto nel vocabolario di Wojtyła, ma intriso della logica di cui gli ingegneri morali dell’Accademia avranno bisogno per giustificare la contraccezione artificiale e, in ultima analisi, le sterili “unioni” sessuali di ogni tipo.

Il documento arriva nella stessa stagione in cui Leone XIV ha incoronato Renzo Pegoraro presidente della Pontificia accademia per la vita: proprio l’uomo che ha contribuito a trasformare quell’organismo da baluardo per i nascituri a un think tank di bioetica post-cristiana. Non serve molta immaginazione per capire dove si vuole arrivare. Invece di un muro a protezione del matrimonio, questa lettera è una porta sapientemente progettata.

Carità coniugale senza croce

Il magistero più antico trattava il matrimonio in termini soprannaturali. Trento parlava del sacramento istituito da Cristo come rimedio alla concupiscenza e come ufficio ordinato alla procreazione e all’educazione dei figli. Leone XIII, in “Arcanum divinae” e in altri documenti, sottolineava il vincolo indissolubile e la famiglia come una “società numericamente piccola, ma non meno vera società dello Stato stesso”. La “Casti connubii” di Pio XI parlava chiaramente: Dio ha attribuito all’atto coniugale un fine primario, la procreazione e l’educazione della prole, e un fine secondario, l’aiuto reciproco e il rimedio alla concupiscenza.

In questa tradizione, l’amore non è un sentimento libero di fluttuare e che crea il proprio significato. L’amore è ordinato dalla natura e dalla grazia. La carità coniugale abbraccia i figli perché è radicata nel disegno del Creatore.

“Una caro” eredita il lessico, ma non la struttura portante. Parla con calore di carità coniugale e di “fecondità responsabile”, ma tratta costantemente la procreazione come un aspetto tra i tanti, un simbolo inserito in una narrazione più ampia di autorealizzazione, sostegno emotivo e “accompagnamento”.

Il cambiamento decisivo si manifesta nel paragrafo 145, la sezione in cui i ghostwriter di Leone si affidano a Karol Wojtyła per superare i limiti senza dare l’impressione di farlo.

La citazione di Wojtyła che verrà usata per far saltare l’”Humanae vitae”

Ecco il nocciolo della questione. La lettera afferma: “L’unione sessuale, come espressione della carità coniugale, deve naturalmente rimanere aperta alla comunicazione della vita, anche se ciò non significa che questa debba essere una finalità esplicita di ogni atto sessuale. Possono infatti verificarsi tre situazioni legittime:

a) Che una coppia non possa avere figli. Karol Wojtyła lo spiega magnificamente quando ricorda che il matrimonio ha «una struttura interpersonale, è un’unione e una comunità di due persone […]. Per molte ragioni, il matrimonio può non diventare una famiglia, ma la mancanza di questa non lo priva del suo carattere essenziale. Infatti, la ragione interiore ed essenziale dell’esistenza del matrimonio non è solo quella di trasformarsi in una famiglia, ma soprattutto di costituire un’unione di due persone, un’unione duratura fondata sull’amore […]. Un matrimonio in cui non ci sono figli, senza colpa degli sposi, conserva il valore integrale dell’istituzione […] non perde nulla della sua importanza».

b) Che una coppia non ricerchi consapevolmente un certo atto sessuale come mezzo di procreazione. Lo afferma anche Wojtyła, sostenendo che un atto coniugale, che «essendo in sé un atto d’amore che unisce due persone, non può necessariamente essere considerato da loro come un mezzo di procreazione consapevole e desiderato».

Letto velocemente, il paragrafo può sembrare ortodosso. La Chiesa ha sempre riconosciuto i matrimoni sterili come veri matrimoni, e non ha mai preteso che gli sposi elaborassero nella loro immaginazione un’intenzione esplicita di avere un bambino prima di ogni abbraccio. Ma “Una Caro” non si limita a ricordarcelo. Il periodo “l’unione sessuale… deve naturalmente rimanere aperta alla comunicazione della vita, anche se ciò non significa che questo debba essere un obiettivo esplicito di ogni atto sessuale”, sposta già il baricentro. Dice in effetti: la storia generale dell'”apertura alla vita” della coppia è sufficiente, anche se atti particolari non vengono vissuti, qui e ora, in quell’orizzonte procreativo.

Il problema non è solo la cornice che circonda quella frase. La frase stessa viene utilizzata per introdurre un nuovo standard. Invece di chiedersi se questo atto concreto rispetti la struttura procreativa voluta da Dio, “Una caro” ci invita a chiederci se la relazione di coppia, considerata nel suo complesso, possa ancora essere descritta come “aperta alla vita”, anche quando i singoli atti sono chiusi nella pratica. Poi canonizza questo cambiamento elencandolo come una delle tre “situazioni legittime”.

Anche la clausola sul non “cercare consapevolmente” la procreazione in ogni atto diventa tossica in questo contesto. Nel contesto originale di Wojtyła potrebbe essere letta come un semplice promemoria del fatto che gli sposi non sono obbligati a formulare un’intenzione procreativa esplicita prima di ogni abbraccio. In “Una caro” la stessa frase viene strappata dal suo contesto e riproposta. Viene inserita come una delle “situazioni legittime” proprio per suggerire che il significato procreativo dell’atto può recedere in secondo piano, purché la narrazione interiore della coppia sulla “carità coniugale” rimanga intatta.

Notate lo schema.

Primo: «L’unione sessuale, in quanto espressione della carità coniugale, deve naturalmente rimanere aperta alla comunicazione della vita…»

L’atto è definito principalmente come espressione di carità, non come un tipo di atto con una struttura fissa, data da Dio, ordinata alla generazione. L’apertura alla vita è abbassata di un livello, trattata come una condizione di fondo generale.

Poi: “…anche se questo non significa che questo debba essere uno scopo esplicito di ogni atto sessuale. Infatti, possono verificarsi tre situazioni legittime…”

La categoria delle “situazioni legittime” è ora costruita attorno a una descrizione psicologica dell’intenzione, non attorno alla specie morale oggettiva degli atti. Quando il testo cita Wojtyła – “un atto coniugale, essendo di per sé un atto d’amore che unisce due persone, non può necessariamente essere considerato da loro come un mezzo di procreazione consapevole e desiderato” – il quadro è pronto.

Ecco la mossa in parole povere.

La vecchia questione era se questo atto, di per sé, rispettasse la struttura procreativa dell’atto coniugale o se gli sposi la sterilizzassero deliberatamente. La nuova questione diventa se l’atto sia espressione di amore coniugale all’interno di un matrimonio che è, in un certo senso, “aperto alla vita”, anche se la procreazione non è coscientemente desiderata in questo momento.

Una volta trasferito il baricentro dalla natura divina dell’atto alla narrazione interiore della coppia, l’”Humanae vitae” diventa lettera morta. La condanna della contraccezione in quell’enciclica si basa sul fatto che l’atto coniugale ha una struttura data che l’uomo non può deliberatamente frustrare. Il testo di Leone XIII conserva il vecchio vocabolario dell'”apertura” mentre si prepara a svuotarne il contenuto.

Questo è esattamente ciò che i moralisti che ruotano attorno alla Pontificia accademia per la vita hanno chiesto. E ora il brano su Wojtyła è pronto per essere citato come il ponte “magisteriale” che permetterà loro di attraversare il fiume.

Lefebvre lo aveva previsto

Se tutto questo vi sembra stranamente familiare, è perché contro la manovra di base qualcuno mise in guardia già nello stesso Concilio Vaticano II.

Monsignor Lefebvre ha ricordato come il Concilio abbia cercato di ridefinire il matrimonio ponendo sullo stesso piano procreazione e amore coniugale. Il cardinale Suenens ha insistito affinché si abbandonasse il linguaggio tradizionale di un fine primario e uno secondario. Il cardinale Brown, maestro generale dei domenicani, si è alzato e ha gridato: “Caveatis! Caveatis! Attenzione! Attenzione!”, avvertendo i padri conciliari che equiparare i fini “perverte il significato del matrimonio” e sovverte la dottrina costante della Chiesa.

Lefebvre osserva che, nonostante l’intervento di Brown e le pressioni del Santo Padre, la “Gaudium et spes” si è conclusa con una formulazione ambigua. Il testo latino consente una lettura in cui la procreazione “non è messa in secondo piano”, il che in pratica significa che tutti gli scopi del matrimonio sono trattati allo stesso modo. Da lì, afferma, la teologia moderna pone semplicemente la “sessualità” al primo posto tra gli scopi del matrimonio, e il resto segue: contraccezione, “pianificazione familiare”, aborto.

“Una caro” è la versione raffinata e postconciliare di questo stesso cambiamento. Riconosce formalmente la fecondità, poi spende le sue energie descrivendo il matrimonio come “unione e comunità di due persone”, con “carità coniugale” e “unione sessuale” intese principalmente come espressione interpersonale di sé. Il paragrafo di Wojtyła diventa la pietra dall’aspetto decoroso su cui si sta in piedi mentre si scavalcano “Casti connubii” e “Humanae vitae”.

La frase di Lefebvre sulle conseguenze potrebbe essere scritta come didascalia del documento di Leone: una volta che l’amore coniugale viene riformulato come “sessualità” al vertice della gerarchia, “tutto è permesso”.

Dall’Accademia di Francesco al Pegoraro di Leone: la rete dietro il testo

Tutto questo non avrebbe importanza se gli uomini che danno forma alla bioetica ufficiale della Chiesa fossero ancora il tipo di persone nominate da Giovanni Paolo II. Ma non lo sono.

Nel 2016 Francesco ha riscritto gli statuti della Pontificia accademia per la vita, ne ha sciolto i membri e l’ha ricostruita su nuove fondamenta. Il vecchio requisito del giuramento pro-vita è scomparso. Al suo posto è subentrato un mix di figure ecumeniche, interreligiose e apertamente eterodosse, a cui si sono uniti teologi cattolici che avevano già trascorso decenni a minare gli stessi insegnamenti che l’Accademia aveva un tempo difeso.

Ora Leone ha promosso Renzo Pegoraro, cancelliere di lunga data e braccio destro di Paglia, a presidente. Pegoraro ha supervisionato il passaggio dell’Accademia dalla difesa della vita alla fusione della moralità cattolica con la retorica della salute pubblica, ospitando voci pro-aborto e pro-contraccezione e con il suo volume di punta del 2022, “Etica teologica della vita”, che invoca apertamente un “cambio di paradigma” nella teologia morale.

Tra i protagonisti di questo progetto c’è don Maurizio Chiodi, moralista nominato membro dell’Accademia e a cui viene riservato un posto d’onore nei convegni e nelle pubblicazioni. Chiodi tratta l’”Humanae vitae” e persino parti della “Casti connubii” come “dottrina riformabile” e sostiene che la classica categoria degli “atti intrinsecamente cattivi” debba essere ripensata alla luce delle situazioni concrete, delle intenzioni e del “cammino” della coppia.

In altre parole: l’Accademia non è più composta da uomini che ritengono la contraccezione sempre e ovunque un grave peccato. È composta da uomini che considerano quell’insegnamento provvisorio, rivedibile e pronto per essere “sviluppato”.

Quando un’Accademia di questo tipo legge “Una caro” non vi vede una riaffermazione della tradizione. Vede materiale grezzo. Vede nel paragrafo 145 il testo ponte di cui ha bisogno: il nome di Wojtyła, la firma di Leone e un quadro interpretativo che sposta l'”apertura alla vita” dagli atti concreti a una vaga storia di vita.

Fernández e la pastoralizzazione del male intrinseco

A completare il lavoro dell’Accademia c’è la scelta di Leone di un esecutore dottrinale. L’uomo che egli ha mantenuto a capo del Dicastero per la dottrina della fede è Víctor Manuel Fernández, famoso per i suoi tentativi di sviluppare una sorta di spiritualità erotizzata e per il suo ruolo nell’elaborazione della soluzione del “foro interno” in “Amoris laetitia” e per la questione della Comunione ai divorziati “risposati”.

Fernández ha già segnalato di voler adottare un approccio più soft alla nozione di male intrinseco, che dia più spazio al soggetto concreto, alle sue intenzioni, ai suoi sentimenti, al suo discernimento.

Date a una mente così un documento come “Una caro” e non si fermerà lì.

Primo passo: considerare la condanna della contraccezione da parte dell’”Humanae vitae” come un ideale di alto livello, piuttosto che come un precetto negativo vincolante.

Secondo passo: sottolineare, come fa “Una caro”, che l’atto coniugale è prima di tutto un atto espressivo d’amore tra persone, e che l’“apertura alla vita” della coppia si misura a livello della loro vocazione, non di ogni singolo atto.

Terzo passo: proclamare, nello stile dell’Etica teologica della vita, che possono esserci situazioni in cui “con una scelta saggia” una coppia può ricorrere ai contraccettivi.

Quarto passo: insistere sul fatto che la dottrina non è cambiata; abbiamo semplicemente “approfondito” la nostra comprensione e fatto spazio al discernimento pastorale.

È così che funziona il cavallo di Troia. Non si scrive mai un’enciclica esplicita che dica “la contraccezione ora è buona”. Si diffonde invece una rete di documenti incrociati in cui la teoria rimane sulla carta, mentre ogni caso concreto viene silenziosamente esentato in nome dell’amore, del discernimento e della “carità coniugale”.

Il punto non è teorico: il “paradigma” contraccettivo

Il punto non è speculativo. La rete che utilizza questo passaggio esiste già, e ha già presentato la parte nascosta ad alta voce. In una conferenza pubblica alla Pav, don Maurizio Chiodi ha sostenuto che in alcune situazioni l’uso della contraccezione artificiale “potrebbe essere riconosciuto come un atto di responsabilità”. Questa è la frase chiave. Un atto contraccettivo, secondo lui, non è per sua natura sempre gravemente immorale. Nelle giuste circostanze, dopo discernimento, può essere proprio ciò che Dio vuole.

Sulla stessa linea, Chiodi insiste sul fatto che l’”Humanae vitae” non è una dottrina infallibile, ma riformabile, e che l’elenco degli “atti intrinsecamente malvagi” di “Veritatis splendor” debba essere rivisitato alla luce delle situazioni concrete, delle intenzioni e del percorso complessivo della coppia. La Pontificia accademia per la vita pubblica quindi “Etica Teologica della Vita”, un volume di cinquecento pagine prodotto sotto la direzione di Paglia, con collaboratori come Chiodi e Casalone, che flirta apertamente con l’idea che, in determinate “condizioni e circostanze pratiche”, i coniugi possano, “con una scelta saggia”, ricorrere ai contraccettivi.

Non si tratta di un post in un blog sparso. È un volume della casa editrice vaticana, pubblicizzato dalla stessa Accademia come un “cambio di paradigma” nella teologia morale.

Ora mettetelo accanto al passaggio chiave in “Una caro”: «L’unione sessuale, come modo di esprimere la carità coniugale, deve naturalmente rimanere aperta alla comunicazione della vita, anche se ciò non significa che questa debba essere una finalità esplicita di ogni atto sessuale… un atto coniugale, essendo in se stesso un atto di amore che unisce due persone, non può necessariamente essere considerato da esse come un mezzo consapevole e desiderato di procreazione».

Chiodi e i suoi colleghi hanno già fornito la teoria: la contraccezione è talvolta la scelta responsabile, e la norma negativa dell’”Humanae vitae” è riformabile. Il volume della Pav ha già fornito il linguaggio pastorale: il ricorso “sapiente” ai contraccettivi in ​​situazioni difficili. “Una caro” fornisce ora il tessuto connettivo magistrale: una citazione di Wojtyła che sposta l'”apertura alla vita” dalla struttura di ogni atto all’orizzonte vago della vocazione della coppia, e tratta l’atto principalmente come un gesto espressivo d’amore.

Una volta che questa sentenza sarà stata promulgata, i dissidenti non avranno più bisogno di una rivoluzione. Avranno solo bisogno di una nota a piè di pagina.

«Seguendo l’insegnamento di “Una caro” sulla carità coniugale», diranno, «riconosciamo che l’atto coniugale è prima di tutto un dono personale d’amore; l’apertura alla vita è richiesta al matrimonio in quanto tale, ma non necessariamente a ogni singolo atto, soprattutto in situazioni complesse. In questi casi, come ha mostrato “Etica teologica della vita”, un ricorso attentamente ponderato alla contraccezione può essere un’espressione responsabile di quell’amore».

Si possono già sentire i titoli degli atti del convegno: “Carità coniugale e genitorialità responsabile: leggere l’’Humanae vitae’ alla luce di ‘Una Caro’”. “Da atti intrinsecamente malvagi a percorsi responsabili: la gioia dell’amore e la gioia della vita”. Le note a piè di pagina serpeggiano dall’esortazione di Leon al libro di Paglia ai saggi di Chiodi e viceversa, fino alla conclusione pratica: il divieto di contraccezione esiste ancora sulla carta, ma nessun caso concreto può mai rientrarvi.

Ecco perché è importante che questi uomini siano stati deliberatamente collocati alla Pontificia accademia per la vita e lì lasciati. Il Ddiacstero per la dottrina della fede di Leone non sta citando ingenuamente Wojtyła a vuoto. Sta alimentando una macchina già costruita.

Dagli atti sterilizzati alle “unioni” sterili

La stessa logica che attenua la contraccezione finisce per minacciare l’insegnamento della Chiesa sull’omosessualità.

Se il peso morale degli atti sessuali risiede principalmente nella loro capacità di esprimere “amore”, e se “l’apertura alla vita” non è più legata alla struttura intrinseca dell’atto ma a un atteggiamento diffuso di generosità e cura, allora l’argomentazione contro le “unioni” omosessuali è già indebolita.

Cosa impedisce a un teologo formatosi in questa nuova scuola di affermare che due uomini o due donne possano vivere una “carità coniugale” di reciproco dono di sé, servizio e “fecondità” intesa come adozione, impegno sociale o sostegno psicologico? Se l’orientamento procreativo dell’atto è stato ampiamente assorbito in una metafora di “generatività”, e l’uso concreto dei poteri generativi può essere bloccato per gravi motivi, quale barriera di principio rimane?

Documenti come “Fiducia supplicans” hanno già giocato su questo terreno benedicendo le coppie omosessuali in astratto, pur insistendo sul fatto che non stanno benedicendo l’unione “in quanto tale”. La nuova teologia morale dell’Accademia fornisce una giustificazione più profonda: l’attenzione è rivolta alla storia interpersonale, alla “gioia di vivere”, al discernimento della coscienza, non alla specie morale oggettiva degli atti.

Una volta abbandonato l’antico insegnamento di “Casti connubii”, secondo cui ci sono atti che, per loro natura, costituiscono gravi violazioni della legge del Creatore, indipendentemente dalle circostanze, il resto si disfa rapidamente. Il cavallo di Troia che introduce clandestinamente la contraccezione in città non si fermerà qui.

Che cosa insegna realmente la tradizione

La Chiesa cattolica, prima del Concilio, si espresse in modo inequivocabile su questi argomenti. Non perché mancasse di sfumature o compassione, ma perché credeva che Dio avesse effettivamente rivelato qualcosa sulla natura del matrimonio e sull’ordine morale.

La “Casti connubii” afferma che qualsiasi uso del matrimonio che ne vanifichi deliberatamente il potere e lo scopo naturali è un’offesa alla natura e a Dio. Documenti successivi come “Donum vitae” e “Dignitas personae” non fanno altro che riapplicare questo principio a nuove tecniche e situazioni. Tutti presuppongono che certe azioni – sterilizzare direttamente un atto coniugale, generare direttamente un figlio tramite manipolazione tecnica, togliere direttamente una vita innocente – siano intrinsecamente disordinate in sé. Nessuna intenzione psicologica può renderle sante.

Ciò non significa che la Chiesa ignori le circostanze. Significa che le circostanze non possono transustanziare il male in bene.

“Una caro” avrebbe potuto ripeterlo con la schietta semplicità del magistero precedente. Invece cita Wojtyła selettivamente per sottolineare il matrimonio come “unione di due persone”, riconosce l’infertilità in un modo perfettamente cattolico, poi introduce di nascosto l’affermazione che un atto coniugale “non deve essere considerato” come mezzo di procreazione e che un simile atteggiamento rientra tra le “situazioni legittime”.

Se a tutto questo si aggiunge l’attuale leadership della Pontificia accademia per la vita, la promozione di Pegoraro, il “cambio di paradigma” di Paglia, il discorso di Chiodi sulla dottrina riformabile e l’allergia di Fernández ai precetti negativi espliciti, si ottiene l’abbozzo di un progetto.

L’avvertimento di Lefebvre da San Pietro, che riecheggia nei decenni – “Attenzione! Attenzione! Se accettiamo questa definizione, andiamo contro tutta la tradizione della Chiesa e pervertiamo il significato del matrimonio” – si sta semplicemente avverando sotto i nostri occhi. Il Concilio ha seminato l’ambiguità appiattendo la gerarchia dei fini. I moralisti postconciliari l’hanno raccolta, avvolta in un linguaggio denso di gioia e discernimento, e ora i manipolatori di Leone la servono in una salsa al sapore di Wojtyła.

Conclusione: vedere il cavallo per quello che è

Se fossimo nel 1950, un documento come “Una caro” verrebbe letto alla luce del Concilio di Trento e della “Casti connubii” e tacitamente corretto dal Sant’Uffizio prima ancora di vedere la luce. Oggi viene pubblicato, tra gli applausi, proprio dal Dicastero per la dottrina della fede, mentre gli uomini che pubblicamente mettono in discussione la contraccezione e difendono la vecchia teologia morale sono messi a tacere, cancellati o invitati a “riconsiderare la propria vocazione”.

Il cavallo di Troia ha già varcato la soglia. Sorride, cita Wojtyła, parla di “gioia” e “carità coniugale” e ci rassicura che tutto rimane “aperto alla vita”. Ma al suo interno porta con sé gli stessi principi di cui la nuova Accademia e il prefetto dottrinale di Leone XIII hanno bisogno per dichiarare, in pratica, che il vecchio insegnamento sulla contraccezione e la morale sessuale appartiene al passato.

Il primo nostro compito è semplicemente dare un nome a tutto questo con onestà. “Una caro” non è una meditazione innocua sull’amore coniugale. È un ponte attentamente costruito tra il linguaggio più antico della Chiesa e la rivoluzione morale postconciliare che Lefebvre vide germogliare proprio durante il Concilio.

Non si ferma una rivoluzione fingendo che i documenti siano migliori di quanto non siano. La si ferma vedendo con chiarezza, parlando con franchezza e rifiutando di lasciare che citazioni di Wojtyła, accuratamente selezionate, vengano usate per bruciare ciò che Pio XI e i suoi predecessori hanno costruito.

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