giovedì 6 novembre 2025

La Beata Vergine Maria: "Corredentrice" no?




5 novembre 2025

Daniele Trabucco

La recente Nota del Dicastero per la Dottrina della Fede, "Mater Populi Fidelis", datata 4 novembre 2025, affronta la questione dei titoli mariani connessi alla cooperazione della Vergine all’opera della salvezza, dichiarando improprio l’uso del titolo di "Corredentrice". Il documento argomenta che tale appellativo, sebbene nato da un’intenzione devota, genera confusione e squilibrio nell’armonia delle verità cristologiche, poiché rischierebbe di attribuire a Maria un ruolo redentivo autonomo o parallelo a quello del Figlio.

Si richiama la centralità assoluta della mediazione di Cristo, l’unico Redentore del genere umano, richiamando l’autorità di Atti 4,12: "In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati". A ciò si aggiunge la considerazione storico-patristica, secondo la quale il titolo "Corredentrice" non appartiene al linguaggio dei Padri e si è affermato tardivamente nella teologia post-tridentina, risultando pertanto, a giudizio della Nota, teologicamente immaturo e pastoralmente inopportuno, oltre che problematico sul piano ecumenico.

Tuttavia, se si accoglie la preoccupazione del Dicastero di evitare fraintendimenti cristologici, occorre domandarsi se la soluzione proposta non ecceda nella direzione opposta, impoverendo il linguaggio della fede e della teologia mariana. La questione, in realtà, non è terminologica, bensì ontologica e soteriologica. L’obiezione al titolo di "Corredentrice" presuppone una comprensione quasi competitiva della causalità tra Cristo e Maria, come se l’attribuire alla Madre una cooperazione reale alla Redenzione implicasse una diminuzione della causalità assoluta del Figlio. Tale presupposto, tuttavia, è estraneo al pensiero classico e alla dottrina cattolica della cooperazione delle cause seconde all’azione della causa prima. La metafisica tomista insegna che la causa seconda non diminuisce la causalità della prima, bensì ne è segno e manifestazione: partecipa all’efficacia della causa prima in modo dipendente e subordinato, senza introdurre dualità o concorrenza.

Applicato alla soteriologia, ciò significa che la cooperazione mariana all’opera redentrice non aggiunge un secondo principio di salvezza, ma manifesta nella sfera creaturale la pienezza dell’azione salvifica di Cristo, alla quale Maria aderisce in modo singolare, libero e perfettamente subordinato. In tale luce, il termine "Corredentrice", lungi dall’essere un’alterazione semantica del dogma cristologico, si colloca nell’orizzonte della partecipazione analogica. Esso esprime, in linguaggio umano, la verità per cui Maria è associata intimamente all’opera del Figlio non per esserne causa concorrente, bensì per parteciparvi in modo unico, cooperando alla Redenzione "de congruo" per carità, come il Figlio l’ha compiuta "de condigno" per giustizia.

La distinzione tra merito "de condigno" e "de congruo" costituisce una delle chiavi più raffinate della teologia della grazia e illumina il rapporto tra la Redenzione di Cristo e la cooperazione mariana. Il merito de condigno (dal latino "condignus", adeguato, proporzionato) si fonda sulla giustizia commutativa, cioè sulla proporzione tra atto e ricompensa. Cristo, in quanto Dio-Uomo, ha meritato la salvezza per noi "de condigno", poiché le sue opere redentrici possiedono un valore intrinseco infinito, proporzionato al fine della Redenzione. Solo il Redentore può, con diritto di giustizia, ottenere la grazia per l’umanità. Si tratta di un merito perfettamente adeguato, che "obbliga", in senso teologico, Dio stesso, per la coerenza della Sua volontà, a riconoscere il valore del sacrificio del Figlio. Il merito de congruo ("da congruus", conveniente, appropriato) si fonda, invece, non sulla giustizia, quanto sulla convenienza dell’amore. È il merito che nasce non da una proporzione ontologica tra opera e premio, ma dalla benevolenza divina che, per la carità e la disposizione interiore di chi coopera, decide liberamente di accogliere e premiare tale cooperazione.

L’esempio classico è quello del discepolo fedele che, mosso da puro amore, partecipa all’opera del maestro: egli non ha diritto alla ricompensa per giustizia, ma il maestro, nella gratuità del suo amore, riconosce la congruenza affettiva e morale di tale partecipazione e la onora. Così Maria, perfettamente unita al Figlio nell’amore e nella sofferenza, non merita la Redenzione "de condigno", perché solo Cristo, Dio fatto uomo, può operare tale merito in giustizia, ma coopera "de congruo", per amore e per conformità perfetta alla volontà del Redentore, alla diffusione dei frutti della Redenzione. Ella non aggiunge nulla alla sufficienza dell’opera del Figlio, tuttavia, in virtù della grazia ricevuta, coopera alla sua applicazione nella storia.

Questo schema teologico rende evidente che la cooperazione mariana non toglie nulla alla centralità di Cristo, semmai la illumina e la esplicita. Il "sì" dell’Annunciazione, la partecipazione ai dolori del Figlio non sono meri gesti simbolici: sono atti reali di partecipazione, radicati nell’amore e nella libertà, che manifestano nella creatura il dinamismo della grazia redentrice. È Cristo che redime, ma è in Maria che la Redenzione mostra la sua prima piena accoglienza. In tal senso, la Vergine è "corredentrice" non perché aggiunga qualcosa alla Croce, ma perché, con la sua adesione, ne rivela la fecondità.

Dal punto di vista teologico-dogmatico, il Concilio Ecumenico Vaticano II, nella Costituzione dogmatica "Lumen Gentium" (nn. 61–62), insegna che Maria è associata al divino Redentore e Madre dei credenti, specificando che la mediazione di Cristo non esclude, bensì suppone la cooperazione delle creature. Il Concilio, pur evitando il termine "Corredentrice", non lo sconfessa, né lo interdice: ne presuppone il contenuto, pur preferendo un linguaggio prudente.

Giovanni Paolo II, nella Lettera Enciclica "Redemptoris Mater" del 25 marzo 1987, riconosce la partecipazione di Maria all’universalità della mediazione redentrice e, in più occasioni pubbliche, ha parlato della Vergine come "Corredentrice dell’umanità", intendendo con ciò la sua cooperazione amorosa e subordinata. È significativo, inoltre, che la posizione teologica che oggi si invoca per giustificare l’abbandono del titolo non nasca da una negazione della corredenzione, bensì da una prudenza linguistica.

Quando l’allora cardinale Joseph Ratzinger, negli anni Novanta, si espresse sulla questione, non negò affatto la cooperazione mariana all’opera del Redentore; ritenne piuttosto che il termine, nel contesto contemporaneo, potesse risultare teologicamente ambiguo e richiedesse ulteriori chiarificazioni. La sua posizione non era di esclusione dottrinale, quanto di sospensione definitoria, fondata sul principio che la verità della fede precede e supera la precisione delle parole con cui la si esprime. Ridurre oggi quella prudenza a un rigetto sostanziale del concetto stesso di corredenzione è un impoverimento interpretativo e teologico. La verità ultima, dunque, è che la Redenzione di Cristo è unica, assoluta, irripetibile. Tuttavia, nella sua economia, essa si dispiega nella storia attraverso la cooperazione delle creature. Maria, nuova Eva, non è "accanto" al Redentore ma "in Lui" e "per Lui": nel suo consenso e nella sua compassione redentrice, ella manifesta la possibilità creaturale di partecipare all’opera divina senza usurparne la fonte.

Negare questa possibilità in nome della purezza cristologica significa, in ultima analisi, negare la logica stessa dell’Incarnazione, in cui la causalità divina assume quella umana per elevarla. La corredenzione mariana, intesa in senso pienamente analogico e subordinato, non moltiplica i redentori: mostra l’efficacia traboccante dell’unico Redentore che, nell’ordine della grazia, rende partecipi del suo atto salvifico coloro che sono più intimamente uniti a Lui. La scelta, pertanto, della Nota di respingere il titolo di "Corredentrice" risulta insufficiente sotto il profilo teoretico.

L’unicità della Redenzione, infatti, non è minacciata dal riconoscere una partecipazione reale e unica della Vergine, così come l’unicità dell’atto creativo non è minacciata dal concorso delle cause seconde nell’ordine naturale. Una teologia che, per timore di ambiguità, rinuncia a nominare le profondità della cooperazione mariana, rischia di smarrire la capacità analogica del linguaggio teologico e di appiattire il mistero su schemi razionali estranei al dinamismo della grazia.

Maria non è principio autonomo della salvezza, ma ne è la trasparenza perfetta; non aggiunge nulla all’efficacia della Croce, ma ne prolunga la fecondità nel suo consenso e nella sua compassione; non è corredentrice per divisione, ma per partecipazione. Occorre restituire alla riflessione ecclesiale il coraggio di una mariologia alta, capace di pensare il mistero di Maria nella luce di Cristo senza timore di riconoscere la grandezza della cooperazione creaturale alla salvezza. La corredenzione, se intesa secondo la logica dell’analogia e della subordinazione, non diminuisce ma magnifica l’unicità del Redentore: in Lei si manifesta, in modo perfettamente umano e perfettamente libero, la potenza della grazia che salva e trasfigura.





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