
Dalla Redazione. È appena stato pubblicato il 17mo Rapporto del nostro Osservatorio sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo (VEDI QUI) con il titolo “La guerra demografica. Ci vogliono estinti?”. Sullo stesso tema proponiamo qui l’ampio articolo di Andrea Mondinelli che dimostra, nello stesso spirito del Rapporto, che la “estinzione” è cosa non casuale ma programmata. Invitiamo ad approfondire queste problematiche ordinando qui una copia del Rapporto: acquisti.ossvanthuan@gmail.com
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Di Andrea Mondinelli, 3 nov 2025
Questo studio analizza documenti storici verificabili: articoli scientifici e dati statistici ufficiali relativi alla campagna per la legalizzazione dell’aborto in Italia (1968-1978). L’obiettivo è confrontare le affermazioni pubblicate con i dati demografici reali, applicando il semplice criterio della coerenza matematica.
La tesi che emerge è inquietante: tra il 1968 e il 1978, una rete internazionale di organizzazioni coordinate produsse e diffuse stime demografiche sull’aborto clandestino che non solo erano esagerate, ma in alcuni casi risultavano matematicamente impossibili. Questa campagna non fu frutto di errori in buona fede, ma di una strategia comunicativa deliberata che sfruttò il prestigio di riviste scientifiche autorevoli per legittimare numeri privi di fondamento empirico.
Marzo 1969: l’articolo che fece scuola
Nel marzo 1969, l’edizione italiana de Le Scienze pubblicò un articolo intitolato “L’aborto”, traduzione di un pezzo di Scientific American firmato da Christopher Tietze e Sarah Lewit. Ma l’edizione italiana non si limitò alla traduzione: aggiunse un inserto redazionale specifico sulla situazione italiana che avrebbe avuto un impatto profondo sul dibattito pubblico dei dieci anni successivi.
L’inserto italiano: anatomia di una manipolazione
Le cifre presentate erano impressionanti: “In Italia la cronaca registra ogni anno da dieci a venti casi di denunce per attentati alla maternità. Ma il numero di questi reati oscilla, secondo le stime, da 500.000 a 3 milioni ogni anno.”
La forbice era già sospetta: da mezzo milione a tre milioni, un fattore di incertezza di sei a uno. Ma l’inserto proseguiva confondendo l’uso di farmaci per ritardi mestruali con aborti effettivi, mescolando intenzione con atto, sospetto con certezza.
L’AIED (Associazione Italiana per l’Educazione Demografica) stimava “attorno al milione” le interruzioni annue, con la formulazione accuratamente scelta: “per ogni bambino che nasce c’è un bambino a cui è impedito di venire al mondo.”
Seguiva un ragionamento per esclusione che ignorava molteplici fattori demografici: “Il tasso di natalità in Italia si è dimezzato negli ultimi sessanta anni… È escluso che ciò sia merito di mezzi antifecondativi… La caduta del tasso di natalità deve essere perciò ritenuta come la conseguenza dell’incremento degli aborti.”
E poi il dato più devastante: “almeno 20.000 le donne che ogni anno muoiono per postumi di interruzioni dolose di gravidanza.”
Il primo controllo: i dati ISTAT
Chiunque avesse avuto accesso all’Annuario Statistico italiano avrebbe potuto verificare quelle stime. Il confronto rivela immediatamente l’assurdo.
In quegli anni in Italia nacquero circa 930.000 bambini[1]. La popolazione femminile in età fertile (15-49 anni) ammontava a circa 13 milioni[2]. Se gli aborti fossero stati davvero 3 milioni all’anno, le gravidanze totali sarebbero state 3,9 milioni. Con 13 milioni di donne fertili, questo implicherebbe che quasi una donna su tre ogni anno rimaneva incinta.
Peggio ancora: con 3 milioni di aborti e 930.000 nascite, il tasso di abortività sarebbe stato del 76% – tre gravidanze su quattro concluse con aborto volontario. Un dato privo di precedenti nella storia demografica mondiale. Anche nell’Unione Sovietica degli anni Sessanta, con aborto legale e quasi gratuito, i tassi non superavano mai il 50-60%.
Anche prendendo la stima dell’AIED di un milione, si arriverebbe a un tasso del 53%, straordinariamente alto per un paese cattolico dove l’aborto era non solo illegale ma socialmente stigmatizzato.
L’impossibilità matematica dei decessi
I dati ISTAT forniscono la prova definitiva dell’impossibilità della cifra di 20.000 morti. Per calcolare i decessi femminili in età fertile, sommiamo dalle tavole ISTAT[3] le fasce 15-24, 25-34 e 35-49 anni:
Anno 15-24 25-34 35-49 Totale 15-491961 2.176 3.617 11.224 17.017
1962 2.200 3.690 11.532 17.422
1963 2.382 3.515 11.688 17.585
1964 1.996 3.265 10.783 16.044
1965 1.949 3.122 10.811 15.882
1966 1.824 3.020 10.266 15.110
1967 1.876 2.993 10.624 15.493
1968 1.787 2.837 11.260 15.884
1969 1.838 2.802 11.814 16.454
1970 1.869 2.589 11.276 15.734
Affermare che 20.000 donne morivano per aborto clandestino significa sostenere che questa singola causa superava di circa 3.000-5.000 unità il totale di tutti i decessi possibili. Non è esagerazione statistica, è negazione dell’aritmetica elementare.
Anche ipotizzando lo scenario impossibile in cui ogni singola donna in età fertile morta in Italia fosse deceduta esclusivamente per aborto clandestino (zero tumori, zero incidenti, zero malattie cardiache, zero suicidi, zero omicidi, zero complicazioni del parto naturale), mancherebbero ancora oltre 4.000 morti per raggiungere la cifra di 20.000 dichiarata da Le Scienze.
Il progetto di legge del 1971
Su questi dati farlocchi fu presentato un Progetto di Legge: il 15 ottobre 1971, a firma dei deputati del PSI. La “Relazione Illustrativa”[4] conteneva:
Si calcola che ogni giorno in conseguenza di pratiche abortive… vengono effettuati circa 5.000 aborti al giorno. Dal milione e mezzo ai due milioni di aborti all’anno… Si calcola che 20-25 mila donne muoiano, ogni anno, in seguito ad infezioni od emorragie conseguenti dall’aborto.
L’articolo di Tietze: il modello americano
L’articolo principale di Christopher Tietze presentava una situazione simile per gli Stati Uniti. Per gli aborti illegali scriveva: “il numero degli aborti illegali potrebbe essere pari alla bassa cifra di 200.000 o toccare invece quella di 1.200.000 l’anno.”
La stessa forbice enorme (fattore sei), presentata come incerta ma poi usata come se il limite superiore fosse il più probabile.
Sui decessi, Tietze era più cauto: riconosceva che le vecchie stime di 5.000-10.000 non erano credibili dato il totale dei decessi femminili, e proponeva una stima “con tutta probabilità inferiore a 1.000”. Ma questa cautela sarebbe scomparsa nelle citazioni successive del suo lavoro.
Chi era Christopher Tietze
Tietze[5] (1908-1984) non era un ricercatore neutrale. Era direttore di ricerca della International Planned Parenthood Federation (IPPF) e membro del Population Council, fondazione creata dalla famiglia Rockefeller per promuovere politiche di controllo demografico globale.
Non era un demografo distaccato: era un attivista che usava gli strumenti della ricerca per sostenere una battaglia politica precisa. I suoi numeri per gli USA, anche se gonfiati, rimanevano almeno nell’ordine del demograficamente possibile. Per l’Italia, lo stesso modello produsse cifre matematicamente impossibili. Si partiva da una manciata di casi osservati, si ipotizzava un sommerso enorme senza prove, e si estrapolava al livello nazionale. Non è scienza demografica, è fantascienza statistica.
L’inserto italiano aggiungeva ulteriore confusione mescolando dati certi (vendita di farmaci), interpretazioni discutibili (chi li compra ha “intenzione abortiva”) e conclusioni indimostrabili (quindi gli aborti potrebbero essere ancora di più).
Ipocrisia semantica. Ridefinire la gravidanza per nascondere gli aborti
Emerge qui un’ipocrisia straordinaria che rivela la manipolazione deliberata del linguaggio scientifico per scopi ideologici. L’inserto del 1969 includeva nel conteggio degli “aborti clandestini” l’uso di farmaci che provocano il mancato annidamento dell’embrione nell’endometrio, definendolo esplicitamente come manifestazione di “intenzione abortiva” e usando questa logica per gonfiare i numeri e creare l’emergenza.
Ma poi, appena tre anni dopo, per aumentare realmente gli aborti senza che le donne lo sapessero o potessero obiettare moralmente, l’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1972 operò una ridefinizione radicale del concetto stesso di gravidanza.
Prima del 1972, secondo la definizione medica e biologica tradizionale, la gravidanza iniziava con il concepimento – cioè con la fecondazione dell’ovulo da parte dello spermatozoo. Questo era coerente con la realtà biologica: dal momento della fecondazione esiste un nuovo organismo con DNA unico, distinto da quello dei genitori, che inizia il suo sviluppo continuo.
Nel settembre 1972, l‘American College of Obstetricians and Gynecologists (ACOG) pubblicò il Technical Bulletin No. 20 intitolato “Terminology of Pregnancy”, che operò una ridefinizione radicale. Il bollettino stabilì formalmente:
“Pregnancy is the state of a female after conception and until termination of the gestation. Conception is the implantation of the blastocyst.”
(La gravidanza è lo stato di una femmina dopo il concepimento e fino alla cessazione della gestazione. Il concepimento è l’impianto della blastocisti.)
In una sola frase, l’ACOG ridefinì “concepimento” non più come fecondazione, ma come annidamento (impianto) dell’embrione nell’endometrio uterino, processo che avviene circa 6-7 giorni dopo la fecondazione. Questa nuova definizione fu poi adottata dall’OMS e divenne lo standard internazionale.
Questa ridefinizione non fu motivata da nuove scoperte scientifiche sulla biologia della riproduzione. La scienza della fecondazione e dello sviluppo embrionale era ben nota. Fu una scelta terminologica e amministrativa che permise di raggiungere obiettivi strategici precisi. Con questa nuova definizione, improvvisamente: La “pillola del giorno dopo” (levonorgestrel) e altri “contraccettivi d’emergenza”, che agiscono in parte impedendo l’annidamento di un embrione già concepito, poterono essere classificati e commercializzati come “anticoncezionali” anziché come abortivi. Il loro meccanismo d’azione non era cambiato, ma il loro nome sì.
Lo IUD (dispositivo intrauterino), il cui principale meccanismo d’azione è proprio impedire l’annidamento dell’embrione, poté essere promosso massivamente come “contraccettivo” senza dover affrontare le obiezioni morali di chi considera la vita umana sacra dal concepimento. Christopher Tietze stesso, nel suo articolo del 1969, aveva dovuto affrontare le perplessità su questo punto, citando un leader messicano del family planning che scriveva: “Uno dei principali obiettivi del nostro programma in Messico è prevenire gli aborti. Se potessimo essere sicuri che il modo d’azione [dello IUD] non fosse l’interferenza con l’annidamento, potremmo facilmente usare il metodo in Messico.”
Milioni di aborti precoci (stimati tra il 30-50% degli embrioni concepiti che non riescono ad annidarsi, una percentuale che aumenta significativamente con l’uso di certi “contraccettivi”) sparirono dalle statistiche ufficiali e dalla coscienza pubblica. Non erano più conteggiati come perdite di gravidanza perché, per definizione, “non c’era gravidanza”.
La ricerca sugli embrioni nei primi giorni dopo il concepimento poté essere condotta senza le restrizioni etiche applicate alla “ricerca su donne incinte”, aprendo la strada a tutto il campo della fecondazione in vitro e della sperimentazione embrionale.
L’ipocrisia smascherata. Due pesi, due misure svelano la contraddizione lampante:
1969 (Inserto de Le Scienze): “Una sola casa farmaceutica denuncia la vendita di oltre un milione di flaconi all’anno di una sua specialità che dovrebbe provocare le mestruazioni in caso di ritardo… l’intenzione abortiva è manifesta. Se essa fosse rubricata ai fini statistici, come lo è ai fini religiosi, la cifra di 3 milioni di aborti… verrebbe con tutta probabilità largamente superata.”
Qui, l’uso di farmaci che potrebbero impedire l’annidamento viene conteggiato come “aborto” per gonfiare i numeri dell’emergenza. La “rubrica religiosa” (che considera la vita dal concepimento) viene invocata per aumentare il senso di crisi.
1972 (Ridefinizione ACOG): La gravidanza inizia con l’annidamento. Quindi impedire l’annidamento non è aborto, è “contraccezione”.
OGGI (OMS): La gravidanza inizia implicitamente con l’annidamento. La IUD è considerata “contraccezione”.
Qui, lo stesso identico fenomeno biologico viene riclassificato per nasconderlo. La “rubrica religiosa” viene ignorata e sostituita con una definizione tecnica funzionale all’agenda.
Questa non è scienza. È ingegneria semantica. La realtà biologica rimane identica: un embrione umano, con DNA unico e completo, esiste dopo la fecondazione e prima dell’annidamento. Ma cambiando la definizione di “gravidanza”, si cambia la percezione morale, legale e statistica di ciò che accade a quell’embrione. È la perfetta applicazione del principio orwelliano: chi controlla il linguaggio controlla il pensiero. Se riesci a far accettare che “la gravidanza inizia con l’annidamento”, allora automaticamente: eliminare un embrione pre-annidamento non è “aborto”; chi si oppone diventa “irrazionale” perché “la scienza dice” che non c’è ancora gravidanza; le donne possono usare questi metodi in buona coscienza, credendo di non aver abortito.
Ma lo stesso establishment che operò questa ridefinizione nel 1972 era quello che solo tre anni prima, per scopi opposti, aveva contato quegli stessi eventi come “aborti”. L’ipocrisia è totale e dimostra che l’obiettivo non era mai stato la verità scientifica o la salute delle donne, ma il controllo della riproduzione attraverso il controllo del linguaggio. Questa manipolazione semantica non è isolata. È parte di uno schema: “Aborto terapeutico” invece di “aborto” (anni ’60): Per far sembrare l’aborto una procedura medica necessaria.
“Interruzione volontaria di gravidanza” invece di “aborto” (anni ’70): Per rimuovere la connotazione negativa.
“Salute riproduttiva” invece di “controllo delle nascite” o “aborto” (anni ’90): Per inserirlo nel linguaggio dei diritti umani.
“Riduzione embrionale” invece di “aborto selettivo” (fecondazione in vitro): Per nascondere che si eliminano embrioni “sovrannumerari”.
Ogni ridefinizione ha lo stesso scopo: rendere accettabile ciò che, chiamato con il suo nome proprio, sarebbe moralmente inaccettabile per la maggioranza delle persone.
La ridefinizione del 1972 è forse la più subdola, perché opera a monte: non cambia il nome dell’azione, ma la definizione stessa dello stato biologico su cui l’azione agisce. È come se, per rendere accettabile uccidere bambini sotto i 2 anni, si ridefinisse “persona umana” come “individuo che ha compiuto 2 anni”. Il fatto biologico (un essere umano vivente) non cambia, ma il suo status giuridico e morale sì. Quando vediamo oggi milioni di donne usare “contraccettivi d’emergenza” o IUD credendo in buona fede di non aver mai abortito, stiamo vedendo il successo di questa operazione di ingegneria semantica. E quando vediamo che gli stessi identici fenomeni biologici furono conteggiati come “aborti” nel 1969 per creare l’emergenza, capiamo che la verità scientifica non è mai stata il criterio guida.
Il criterio è sempre stato: quale definizione serve meglio l’agenda del momento?
La prova empirica: cosa accadde dopo il 1978
C’è un modo definitivo per verificare l’attendibilità delle stime: guardare cosa successe dopo la legalizzazione. La Legge 194 entrò in vigore nel 1978. Se davvero gli aborti clandestini fossero stati nell’ordine del milione o dei milioni, quel numero sarebbe dovuto riemergere nelle statistiche ufficiali.
Non andò così. Gli aborti legali raggiunsero il picco nel 1983 con 234.801 interventi. Negli anni Ottanta la media si attestò intorno ai 200.000. Il picco del 1983 rappresenta meno di un quarto della stima minima dell’AIED e circa un dodicesimo della stima massima.
Dove sono finiti gli altri aborti? I sostenitori delle vecchie stime potrebbero obiettare che la legalizzazione, accompagnata dalla diffusione dei contraccettivi, abbia ridotto le gravidanze indesiderate. Questa spiegazione appare plausibile ma è radicalmente falsa. La diffusione della contraccezione non riduce semplicemente le gravidanze mantenendo costante il comportamento sessuale. Cambia il comportamento stesso:
Aumento della frequenza dei rapporti per la percezione di “sicurezza”.
Anticipo dell’età del primo rapporto.
Aumento della promiscuità per la separazione dell’atto dalla procreazione.
Mentalità del “back-up”: l’aborto come soluzione quando la contraccezione fallisce.
Il risultato è paradossale ma documentato: più contraccezione disponibile non significa necessariamente meno gravidanze indesiderate, perché l’aumento dell’attività sessuale compensa l’effetto protettivo.
I dati empirici: la correlazione inversa
Se la tesi “più contraccezione = meno aborti” fosse vera, dovremmo osservare correlazione negativa tra diffusione contraccettiva e tassi di aborto. I dati mostrano il contrario. Ecco i Paesi con alta contraccezione e alti aborti. Svezia: contraccezione diffusa, 18-20 aborti per 1.000 donne, Regno Unito: entrambi i fenomeni cresciuti parallelamente post-1967, Francia: contraccettivi disponibili, tassi stabilmente alti. Invece, nei Paesi con basso utilizzo di contraccezione, come Polonia pre-1989, Irlanda pre-1990 e Malta, si hanno bassi numeri di aborti.
In sostanza, la correlazione, quando esiste, è positiva: più contraccezione tende ad associarsi a più aborti.
Il caso americano
Gli USA offrono un esperimento illuminante. La pillola si diffuse negli anni Sessanta. Se la tesi fosse vera, gli aborti clandestini sarebbero dovuti diminuire. Invece, secondo le stesse stime degli attivisti, aumentarono. Dopo Roe v. Wade (1973), continuarono a salire fino al picco di 1,6 milioni nel 1990, in piena disponibilità contraccettiva.
La “rivoluzione sessuale” non fu indipendente dalla pillola: ne fu conseguenza diretta. E portò più, non meno, gravidanze indesiderate. C’è un legame più profondo. Entrambe condividono la stessa premessa: la sessualità può e deve essere separata dalla procreazione; il figlio è un “prodotto” scelto, non un dono; la fertilità è un problema da gestire tecnicamente.
Quando questa mentalità si diffonde, l’aborto diventa logica estensione della contraccezione. Non è caso che i maggiori promotori della contraccezione (Planned Parenthood, IPPF) siano anche i maggiori promotori dell’aborto.
L’inserto del 1969 sosteneva che la bassa diffusione contraccettiva fosse causa degli alti aborti. Ma dopo il 1978, con entrambi disponibili, gli aborti non diminuirono inizialmente, anzi crebbero fino al 1983. La discesa successiva non può essere attribuita principalmente alla contraccezione perché: era già diffusa al picco del 1983.
Anticipo dell’età del primo rapporto.
Aumento della promiscuità per la separazione dell’atto dalla procreazione.
Mentalità del “back-up”: l’aborto come soluzione quando la contraccezione fallisce.
Il risultato è paradossale ma documentato: più contraccezione disponibile non significa necessariamente meno gravidanze indesiderate, perché l’aumento dell’attività sessuale compensa l’effetto protettivo.
I dati empirici: la correlazione inversa
Se la tesi “più contraccezione = meno aborti” fosse vera, dovremmo osservare correlazione negativa tra diffusione contraccettiva e tassi di aborto. I dati mostrano il contrario. Ecco i Paesi con alta contraccezione e alti aborti. Svezia: contraccezione diffusa, 18-20 aborti per 1.000 donne, Regno Unito: entrambi i fenomeni cresciuti parallelamente post-1967, Francia: contraccettivi disponibili, tassi stabilmente alti. Invece, nei Paesi con basso utilizzo di contraccezione, come Polonia pre-1989, Irlanda pre-1990 e Malta, si hanno bassi numeri di aborti.
In sostanza, la correlazione, quando esiste, è positiva: più contraccezione tende ad associarsi a più aborti.
Il caso americano
Gli USA offrono un esperimento illuminante. La pillola si diffuse negli anni Sessanta. Se la tesi fosse vera, gli aborti clandestini sarebbero dovuti diminuire. Invece, secondo le stesse stime degli attivisti, aumentarono. Dopo Roe v. Wade (1973), continuarono a salire fino al picco di 1,6 milioni nel 1990, in piena disponibilità contraccettiva.
La “rivoluzione sessuale” non fu indipendente dalla pillola: ne fu conseguenza diretta. E portò più, non meno, gravidanze indesiderate. C’è un legame più profondo. Entrambe condividono la stessa premessa: la sessualità può e deve essere separata dalla procreazione; il figlio è un “prodotto” scelto, non un dono; la fertilità è un problema da gestire tecnicamente.
Quando questa mentalità si diffonde, l’aborto diventa logica estensione della contraccezione. Non è caso che i maggiori promotori della contraccezione (Planned Parenthood, IPPF) siano anche i maggiori promotori dell’aborto.
L’inserto del 1969 sosteneva che la bassa diffusione contraccettiva fosse causa degli alti aborti. Ma dopo il 1978, con entrambi disponibili, gli aborti non diminuirono inizialmente, anzi crebbero fino al 1983. La discesa successiva non può essere attribuita principalmente alla contraccezione perché: era già diffusa al picco del 1983.
I paesi con massima diffusione (Nord Europa) non raggiunsero mai i bassi tassi italiani successivi
Altri fattori (invecchiamento, calo natalità generale) spiegano meglio il trend.
La spiegazione più semplice del crollo dai “milioni” ai 200.000 reali non è la contraccezione, ma il fatto ovvio che i milioni non sono mai esistiti.
Maggio 1977: Tietze torna e ammette (involontariamente) la frode
Otto anni dopo, Le Scienze pubblicò un nuovo articolo di Tietze, “L’aborto legalizzato”, con tono trionfalistico sulla diffusa legalizzazione. Ma conteneva ammissioni significative.
“Aggregando dati di disuguale attendibilità… si può stimare che ogni anno nel mondo vengano provocati dai 30 ai 55 milioni di aborti.” Tietze ammetteva che i dati non erano affidabili, ma continuava a usarli.
Parlando dell’India: “Un tasso molto basso… può essere in parte attribuito alla mancata registrazione… ma sicuramente la carenza di medici e di strutture ha limitato il numero.” Ecco il trucco: quando i numeri post-legalizzazione risultavano più bassi del previsto, la spiegazione era sempre “mancata registrazione” o “carenza di strutture”. Mai l’ipotesi più semplice: che le stime fossero gonfiate.
L’articolo presentava tassi di aborto post-legalizzazione:Svezia: 7,9% di abortività.
Ungheria (caso estremo): 187.500 aborti vs 148.900 nati = 56% di abortività.
Ungheria era l’unico paese dove gli aborti superavano le nascite, con aborto completamente gratuito, facilissimo, senza stigma. Eppure anche lì il tasso era del 56%, non del 77% che le stime implicavano per l’Italia cattolica con aborto illegale, rischioso e costoso.
Come poteva l’Italia del 1969 avere un tasso superiore al paese più estremo al mondo?
L’inserto di Lucio Rosaia: ammissioni esplosive
L’inserto italiano del 1977, firmato da Lucio Rosaia, conteneva affermazioni che demolivano la narrazione del 1969:
“Un dato fondamentale è che… la legislazione sull’aborto non influisce… sulla frequenza del ricorso all’aborto, ma soltanto sulla frequenza degli aborti clandestini.” Se questo era vero, dove erano finiti i “milioni” di clandestini? Se la legalizzazione si limitava a far emergere il sommerso, dopo il 1978 avremmo dovuto vederli nelle statistiche.
Continuava: “il numero delle donne che ricorrono all’aborto non è più alto nei paesi in cui l’aborto è stato legalizzato… sia che viga una legislazione restrittiva sia che viga una legislazione permissiva.” Ammissione devastante: se il numero era “parimenti elevato” con entrambe le legislazioni, le stime di milioni erano false.
E il colpo finale: “il numero delle donne che ricorrono all’aborto legale è andato sì aumentando ma… in misura decisamente inferiore a quella che ci si aspettava.” Chi si “aspettava” numeri più alti? Coloro che avevano diffuso le stime milionarie. Perché i numeri furono “decisamente inferiori”? Perché quelle stime erano fallaci.
Rosaia faceva anche un’altra ammissione: “moltissime donne (e sicuramente… in numero superiore a quelle che ricorrono all’aborto legale) preferiscono… ricorrere all’aborto clandestino.” Questo demoliva la tesi “legalizzazione = fine del clandestino”. Se anche con aborto legale e accessibile molte preferivano il clandestino, l’intera campagna basata sull'”emergenza sanitaria” crollava.
Il modello operativo
Livello strategico: IPPF e Population Council definiscono l’obiettivo globale.
Produzione dati: Ricercatori affiliati (Tietze) producono stime gonfiate.
Legittimazione: Pubblicazione su riviste prestigiose (Scientific American).
Applicazione nazionale: Organizzazioni affiliate (AIED) applicano il modello localmente
Diffusione mediatica: Riviste nazionali amplificano rimuovendo cautele.
Utilizzo politico: Attivisti e giuristi usano i dati per argomentazioni legali.
Consolidamento: Media generalisti ripetono i numeri fino a renderli “senso comune”.
Ogni livello rafforza gli altri in un circolo di legittimazione reciproca. Al centro, una rete con stesso finanziatore, stessi obiettivi, stessi metodi.
Il confronto USA-Italia
Per gli Stati Uniti, Tietze stimava 1,2 milioni di aborti clandestini. Dopo la legalizzazione, il numero crebbe gradualmente fino a 1,6 milioni nel 1990. La stima non era completamente campata in aria: era un numero che sarebbe stato raggiunto, anche se vent’anni dopo.
In Italia, lo stesso modello produsse tre milioni con novecentomila nascite – un rapporto tre volte peggiore di quello americano. E i dati post-legalizzazione smentirono totalmente: dieci volte inferiori.
Forse il contesto cattolico richiedeva un’emergenza ancora più forte. O forse, una volta accettato il modello difettoso, applicarlo senza vincoli di plausibilità portava naturalmente a numeri sempre più gonfiati.
Il ruolo delle riviste scientifiche: tradimento della fiducia
Scientific American e Le Scienze godevano di reputazione massima. Quando pubblicano qualcosa, il pubblico si fida. Non sono tabloid: è informazione scientifica seria, verificata, autorevole.
L’articolo di Tietze su Scientific American, pur con limiti e orientamento ideologico, manteneva cautela scientifica. Ammetteva incertezze, usava il condizionale.
L’inserto italiano operò una trasformazione qualitativa. Prese ipotesi, rimosse cautele, presentò congetture come fatti, aggiunse dati impossibili, confezionò tutto con l’autorevolezza della rivista scientifica.
Un lettore italiano non aveva modo di sapere che: le cifre venivano da fonti con conflitti di interesse non dichiarati, i numeri erano demograficamente impossibili, la metodologia era priva di basi scientifiche, le stime erano biologicamente implausibili.
Il lettore si fidava. Era Le Scienze. Doveva essere vero. E questa fiducia venne tradita. Quando una rivista prestigiosa presta credibilità a una campagna ideologica, le conseguenze sono gravi. La scienza gode di autorità particolare per la sua pretesa di neutralità e rigore. Quando questa autorità legittima dati falsi, il danno mina la fiducia nella scienza stessa.
Le conseguenze a lungo termine
La campagna ebbe successo. La Legge 194 fu approvata nel 1978, confermata da referendum nel 1981. L’idea dei “milioni di aborti clandestini” e delle “migliaia di donne morte” divenne senso comune.
Questa narrazione resistette anche dopo la smentita dei dati. Quando nel 1983 gli aborti raggiunsero 234.801 (un quarto della stima minima, un dodicesimo della massima), nessuno tornò a interrogarsi sulle cifre pre-1978. La narrazione era consolidata, i numeri falsi erano diventati “storia”.
Ancora oggi si trovano ripetute le stesse cifre: “milioni di aborti clandestini”[6], “migliaia di donne morte”[7]. Raramente con note critiche. La menzogna del 1969 è diventata la “verità storica” del 2025.
Riflessioni finali: la verità come vittima necessaria?
Chi orchestrò questa campagna riteneva i dati accurati, o sapeva che erano falsi ma li considerava “nobili menzogne” per un bene superiore?
Probabilmente entrambe le cose, a livelli diversi. Alcuni, ai livelli bassi, potrebbero aver creduto sinceramente. Altri, come Tietze – demografo professionista con accesso ai dati reali – difficilmente non si rendevano conto delle esagerazioni.
Per loro valeva probabilmente: “Sì, i numeri sono incerti e forse gonfiati, ma il problema esiste davvero, le donne muoiono davvero (anche se non ventimila), e la legalizzazione è comunque giusta. Quindi è accettabile usare numeri d’impatto per vincere la battaglia.”
È la logica del “fine che giustifica i mezzi”. Il problema è che questa logica, una volta accettata, non ha limiti naturali. Se è accettabile esagerare di un fattore 2, perché non 5? O 10? Chi decide quale causa giustifica la menzogna?
La risposta che questo studio propone è semplice: la linea va difesa come assoluta. I dati scientifici non possono essere “approssimativamente veri” o “utili anche se imprecisi”. O sono verificabili e corrispondono alla realtà, o non sono scienza.
Nel caso specifico, i dati dimostrano che:
Produzione dati: Ricercatori affiliati (Tietze) producono stime gonfiate.
Legittimazione: Pubblicazione su riviste prestigiose (Scientific American).
Applicazione nazionale: Organizzazioni affiliate (AIED) applicano il modello localmente
Diffusione mediatica: Riviste nazionali amplificano rimuovendo cautele.
Utilizzo politico: Attivisti e giuristi usano i dati per argomentazioni legali.
Consolidamento: Media generalisti ripetono i numeri fino a renderli “senso comune”.
Ogni livello rafforza gli altri in un circolo di legittimazione reciproca. Al centro, una rete con stesso finanziatore, stessi obiettivi, stessi metodi.
Il confronto USA-Italia
Per gli Stati Uniti, Tietze stimava 1,2 milioni di aborti clandestini. Dopo la legalizzazione, il numero crebbe gradualmente fino a 1,6 milioni nel 1990. La stima non era completamente campata in aria: era un numero che sarebbe stato raggiunto, anche se vent’anni dopo.
In Italia, lo stesso modello produsse tre milioni con novecentomila nascite – un rapporto tre volte peggiore di quello americano. E i dati post-legalizzazione smentirono totalmente: dieci volte inferiori.
Forse il contesto cattolico richiedeva un’emergenza ancora più forte. O forse, una volta accettato il modello difettoso, applicarlo senza vincoli di plausibilità portava naturalmente a numeri sempre più gonfiati.
Il ruolo delle riviste scientifiche: tradimento della fiducia
Scientific American e Le Scienze godevano di reputazione massima. Quando pubblicano qualcosa, il pubblico si fida. Non sono tabloid: è informazione scientifica seria, verificata, autorevole.
L’articolo di Tietze su Scientific American, pur con limiti e orientamento ideologico, manteneva cautela scientifica. Ammetteva incertezze, usava il condizionale.
L’inserto italiano operò una trasformazione qualitativa. Prese ipotesi, rimosse cautele, presentò congetture come fatti, aggiunse dati impossibili, confezionò tutto con l’autorevolezza della rivista scientifica.
Un lettore italiano non aveva modo di sapere che: le cifre venivano da fonti con conflitti di interesse non dichiarati, i numeri erano demograficamente impossibili, la metodologia era priva di basi scientifiche, le stime erano biologicamente implausibili.
Il lettore si fidava. Era Le Scienze. Doveva essere vero. E questa fiducia venne tradita. Quando una rivista prestigiosa presta credibilità a una campagna ideologica, le conseguenze sono gravi. La scienza gode di autorità particolare per la sua pretesa di neutralità e rigore. Quando questa autorità legittima dati falsi, il danno mina la fiducia nella scienza stessa.
Le conseguenze a lungo termine
La campagna ebbe successo. La Legge 194 fu approvata nel 1978, confermata da referendum nel 1981. L’idea dei “milioni di aborti clandestini” e delle “migliaia di donne morte” divenne senso comune.
Questa narrazione resistette anche dopo la smentita dei dati. Quando nel 1983 gli aborti raggiunsero 234.801 (un quarto della stima minima, un dodicesimo della massima), nessuno tornò a interrogarsi sulle cifre pre-1978. La narrazione era consolidata, i numeri falsi erano diventati “storia”.
Ancora oggi si trovano ripetute le stesse cifre: “milioni di aborti clandestini”[6], “migliaia di donne morte”[7]. Raramente con note critiche. La menzogna del 1969 è diventata la “verità storica” del 2025.
Riflessioni finali: la verità come vittima necessaria?
Chi orchestrò questa campagna riteneva i dati accurati, o sapeva che erano falsi ma li considerava “nobili menzogne” per un bene superiore?
Probabilmente entrambe le cose, a livelli diversi. Alcuni, ai livelli bassi, potrebbero aver creduto sinceramente. Altri, come Tietze – demografo professionista con accesso ai dati reali – difficilmente non si rendevano conto delle esagerazioni.
Per loro valeva probabilmente: “Sì, i numeri sono incerti e forse gonfiati, ma il problema esiste davvero, le donne muoiono davvero (anche se non ventimila), e la legalizzazione è comunque giusta. Quindi è accettabile usare numeri d’impatto per vincere la battaglia.”
È la logica del “fine che giustifica i mezzi”. Il problema è che questa logica, una volta accettata, non ha limiti naturali. Se è accettabile esagerare di un fattore 2, perché non 5? O 10? Chi decide quale causa giustifica la menzogna?
La risposta che questo studio propone è semplice: la linea va difesa come assoluta. I dati scientifici non possono essere “approssimativamente veri” o “utili anche se imprecisi”. O sono verificabili e corrispondono alla realtà, o non sono scienza.
Nel caso specifico, i dati dimostrano che:
Gli aborti clandestini erano probabilmente nell’ordine delle centinaia di migliaia (100.000-200.000), non milioni.
Le morti erano probabilmente nell’ordine delle centinaia (200-500), non decine di migliaia.
Le morti erano probabilmente nell’ordine delle centinaia (200-500), non decine di migliaia.
Il problema era reale, ma la sua dimensione venne gonfiata di un fattore compreso tra 5 e 15 volte.
I numeri non mentono. Sono le persone che mentono coi numeri. E quando quelle persone occupano posizioni di autorità scientifica, e quando le loro menzogne vengono amplificate da istituzioni prestigiose, il danno non riguarda solo la questione specifica, ma la credibilità stessa del discorso scientifico nella sfera pubblica.
Questa è la lezione del caso dell’aborto in Italia, 1968-1978: quando la scienza diventa ancella dell’ideologia, tutti perdono, anche chi alla fine ottiene quello che voleva, ma, soprattutto, molti muoiono!
Conclusione: lasciare che i numeri parlino
Questo studio va al di là dei giudizi morali sull’aborto, pure assolutamente necessari. Ciò che rileva è la ricostruzione fattuale di come una rete internazionale di organizzazioni produsse e diffuse attraverso riviste scientifiche prestigiose dati demografici sistematicamente gonfiati, in alcuni casi fino all’impossibilità matematica, per sostenere la campagna di legalizzazione dell’aborto in Italia e negli Stati Uniti. I documenti sono disponibili e verificabili. La verifica porta a conclusioni inequivocabili:
Sul piano demografico: 3 milioni di aborti + 930.000 nascite = 3.930.000 gravidanze totali.
Con 13 milioni di donne in età fertile, significa 30% di tasso annuo di gravidanza.
Con 3 milioni di aborti su 3,9 milioni di gravidanze = 77% di abortività.
Mai raggiunto in nessun paese al mondo, nemmeno con aborto gratuito e normalizzato.
Ungheria (caso estremo mondiale): 56% di abortività con aborto legale, gratuito, senza stigma.
Italia pre-1978 con aborto illegale, costoso (10.000-500.000 lire), stigmatizzato: 77%? Impossibile.
Sul piano sanitario:
20.000 morti da aborto dichiarate nell’inserto de Le Scienze.
15.000-17.000 morti femminili totali 15-49 anni per tutte le cause (ISTAT).
20.000 > 17.000 = impossibilità aritmetica.
Anche attribuendo il 100% dei decessi all’aborto, mancherebbero ancora 3.000-5.000 morti.
Sul piano empirico:
15.000-17.000 morti femminili totali 15-49 anni per tutte le cause (ISTAT).
20.000 > 17.000 = impossibilità aritmetica.
Anche attribuendo il 100% dei decessi all’aborto, mancherebbero ancora 3.000-5.000 morti.
Sul piano empirico:
Stime pre-1978: 1-3 milioni di aborti.
Picco post-1978: 234.801 (1983).
Divario: fattore 4-13 volte.
Sul piano metodologico:
Picco post-1978: 234.801 (1983).
Divario: fattore 4-13 volte.
Sul piano metodologico:
Fonti con conflitti di interesse mai dichiarati.
Forbici 300-600% presentate come stime.
Cautele rimosse sistematicamente.
Dati impossibili su riviste prestigiose.
Furono errori in buona fede? Furono approssimazioni comprensibili? Fu una frode scientifica documentale, coordinata internazionalmente, che sfruttò il prestigio delle istituzioni scientifiche per legittimare dati privi di fondamento? Ognuno, ora, ha la possibilità di rispondere. Questa la mia posizione: Non furono errori in buona fede. Non furono approssimazioni comprensibili. Fu una frode scientifica documentale, coordinata internazionalmente, che sfruttò il prestigio delle istituzioni scientifiche per legittimare dati privi di fondamento.
L’eredità eugenetica: Il filo rosso mai spezzato
Questa storia non può essere compresa senza riconoscere la continuità ideologica che collega l’eugenetica del primo Novecento al controllo demografico contemporaneo.
Quando Francis Galton coniò il termine “eugenetica” nel 1883, la definì una “nuova religione” che avrebbe sostituito il “sentimentalismo irrazionale” del Cristianesimo con la selezione razionale degli “adatti”. La carità cristiana verso i deboli era vista non come virtù, ma come tradimento biologico della razza.
Questa ideologia trovò la sua massima espressione in Margaret Sanger, che nel 1922 scrisse senza ambiguità: “La pratica più immorale dei nostri giorni è procreare troppi figli… L’immoralità delle famiglie numerose è una verità fondamentale che deve essere predicata alle classi sommerse.” Per Sanger, come per Galton, i poveri non erano vittime da aiutare ma “materiale genetico scadente” da eliminare.
Dopo il 1945, di fronte allo scandalo dei campi nazisti, il movimento eugenetico capì che doveva cambiare strategia. Frederick Osborn teorizzò la soluzione: “Gli obiettivi eugenetici sono molto più probabilmente raggiungibili sotto un altro nome diverso da ‘eugenetica’.” Nacque così la “pianificazione familiare volontaria” – stessi obiettivi, nuovo linguaggio.
La connessione non fu solo ideologica ma anche personale. Tra i co-fondatori dell’IPPF nel 1952 figurava Hans Harmsen, ex-architetto della politica razziale nazista. La Fondazione Rockefeller, che aveva finanziato la ricerca eugenetica in Germania fino al 1939 (incluso il Kaiser Wilhelm Institute), divenne il principale finanziatore del Population Council e dell’agenda globale di controllo demografico.
L’articolo di Kingsley Davis su Science (1967) fu brutalmente esplicito: il family planning era inefficace perché le coppie volevano “troppi” figli. Servivano misure per “de-enfatizzare la famiglia”, “modificare i ruoli di genere” e rendere la procreazione economicamente irrazionale. E l’aborto era identificato come “uno dei mezzi più sicuri” e “peculiarmente adatto” al controllo demografico.
Il Memorandum Jaffe del 1969 rivelò la mentalità totalitaria mai abbandonata: accanto a contraccezione e aborto, elencava senza pudore “ristrutturare la famiglia”, “incoraggiare l’omosessualità”, “tassare i figli” e persino “aggiungere agenti sterilizzanti all’acqua potabile”. Non erano deliri: era la mappa operativa di un’ingegneria sociale che oggi possiamo misurare nei suoi effetti.
Il NSSM 200 (1974) tradusse tutto questo in dottrina di sicurezza nazionale: la crescita demografica in 13 paesi chiave era definita “minaccia” agli interessi USA sulle risorse. La soluzione: promuovere controllo demografico mascherato da “aiuto umanitario” e “diritti riproduttivi”.
A questa catena si aggiunse nel 1984 la Commissione Warnock britannica, che operò una manipolazione parallela a quella dell’ACOG del 1972. Mentre quest’ultima aveva ridefinito “gravidanza” per nascondere aborti chimici, Warnock ridefinì “persona” stabilendo che gli embrioni umani fossero sperimentabili fino al quattordicesimo giorno. La stessa Warnock ammise che la soglia fu “una sorta di compromesso” politico, non scientifico. Nel suo libro (1985) scrisse con franchezza: “Ci saranno persone che trovano tutto questo moralmente sbagliato. Abbiamo semplicemente deciso che hanno torto, e che i benefici della ricerca superano le loro obiezioni.” L’Human Fertilisation and Embryology Act (1990) legalizzò la creazione deliberata di embrioni per sperimentazione: dal 1990 al 2023, circa quattro milioni di embrioni sono stati distrutti nel Regno Unito. Oggi il 90% degli embrioni con sindrome di Down viene eliminato – eugenetica perfettamente realizzata, ma chiamata “scelta riproduttiva informata”.
Agenda 21 (1992) completò l’opera integrando il controllo demografico nell’ambientalismo: il Capitolo 5 stabilì che “le tendenze demografiche” dovevano essere “incorporate” in ogni decisione di governo. La vecchia “bomba demografica” rinasceva come “impronta di carbonio”.
La genealogia è cristallina: Galton (1883) → Sanger (1922) → IPPF (1952) → ACOG (1972) → Tietze (1969-77) → Warnock (1984) → Agenda 21 (1992) → oggi (2025). Il fine è rimasto identico: controllare chi nasce, quanti nascono, quali caratteristiche devono avere. Solo il linguaggio è cambiato: da “sradicare i non adatti” a “salute riproduttiva”, da “igiene razziale” a “sostenibilità ambientale”, da “eliminazione difettosi” a “interruzione terapeutica della gravidanza”.
La campagna italiana del 1968-1978, con i suoi numeri matematicamente impossibili e la sua rete coordinata internazionalmente, non fu un episodio isolato ma l’applicazione locale di una strategia globale pianificata da decenni. Le stesse organizzazioni (IPPF, Population Council, Rockefeller), gli stessi metodi (dati gonfiati, emergenza costruita, linguaggio umanitario), lo stesso obiettivo (legalizzazione dell’aborto come strumento di controllo demografico).
Quando oggi sentiamo parlare di “crisi climatica” che richiede “scelte responsabili” sulla procreazione, quando vediamo la maternità sistematicamente svalutata e la fertilità economicamente penalizzata, quando assistiamo alla promozione di ogni stile di vita sterile come “progressista”, non stiamo assistendo a fenomeni casuali. Stiamo vedendo il successo – tragico ma innegabile – di un programma centenario che ha semplicemente imparato a nascondersi sempre meglio.
L’eugenetica non è morta. Ha solo imparato a parlare il linguaggio dei diritti umani.
Forbici 300-600% presentate come stime.
Cautele rimosse sistematicamente.
Dati impossibili su riviste prestigiose.
Furono errori in buona fede? Furono approssimazioni comprensibili? Fu una frode scientifica documentale, coordinata internazionalmente, che sfruttò il prestigio delle istituzioni scientifiche per legittimare dati privi di fondamento? Ognuno, ora, ha la possibilità di rispondere. Questa la mia posizione: Non furono errori in buona fede. Non furono approssimazioni comprensibili. Fu una frode scientifica documentale, coordinata internazionalmente, che sfruttò il prestigio delle istituzioni scientifiche per legittimare dati privi di fondamento.
L’eredità eugenetica: Il filo rosso mai spezzato
Questa storia non può essere compresa senza riconoscere la continuità ideologica che collega l’eugenetica del primo Novecento al controllo demografico contemporaneo.
Quando Francis Galton coniò il termine “eugenetica” nel 1883, la definì una “nuova religione” che avrebbe sostituito il “sentimentalismo irrazionale” del Cristianesimo con la selezione razionale degli “adatti”. La carità cristiana verso i deboli era vista non come virtù, ma come tradimento biologico della razza.
Questa ideologia trovò la sua massima espressione in Margaret Sanger, che nel 1922 scrisse senza ambiguità: “La pratica più immorale dei nostri giorni è procreare troppi figli… L’immoralità delle famiglie numerose è una verità fondamentale che deve essere predicata alle classi sommerse.” Per Sanger, come per Galton, i poveri non erano vittime da aiutare ma “materiale genetico scadente” da eliminare.
Dopo il 1945, di fronte allo scandalo dei campi nazisti, il movimento eugenetico capì che doveva cambiare strategia. Frederick Osborn teorizzò la soluzione: “Gli obiettivi eugenetici sono molto più probabilmente raggiungibili sotto un altro nome diverso da ‘eugenetica’.” Nacque così la “pianificazione familiare volontaria” – stessi obiettivi, nuovo linguaggio.
La connessione non fu solo ideologica ma anche personale. Tra i co-fondatori dell’IPPF nel 1952 figurava Hans Harmsen, ex-architetto della politica razziale nazista. La Fondazione Rockefeller, che aveva finanziato la ricerca eugenetica in Germania fino al 1939 (incluso il Kaiser Wilhelm Institute), divenne il principale finanziatore del Population Council e dell’agenda globale di controllo demografico.
L’articolo di Kingsley Davis su Science (1967) fu brutalmente esplicito: il family planning era inefficace perché le coppie volevano “troppi” figli. Servivano misure per “de-enfatizzare la famiglia”, “modificare i ruoli di genere” e rendere la procreazione economicamente irrazionale. E l’aborto era identificato come “uno dei mezzi più sicuri” e “peculiarmente adatto” al controllo demografico.
Il Memorandum Jaffe del 1969 rivelò la mentalità totalitaria mai abbandonata: accanto a contraccezione e aborto, elencava senza pudore “ristrutturare la famiglia”, “incoraggiare l’omosessualità”, “tassare i figli” e persino “aggiungere agenti sterilizzanti all’acqua potabile”. Non erano deliri: era la mappa operativa di un’ingegneria sociale che oggi possiamo misurare nei suoi effetti.
Il NSSM 200 (1974) tradusse tutto questo in dottrina di sicurezza nazionale: la crescita demografica in 13 paesi chiave era definita “minaccia” agli interessi USA sulle risorse. La soluzione: promuovere controllo demografico mascherato da “aiuto umanitario” e “diritti riproduttivi”.
A questa catena si aggiunse nel 1984 la Commissione Warnock britannica, che operò una manipolazione parallela a quella dell’ACOG del 1972. Mentre quest’ultima aveva ridefinito “gravidanza” per nascondere aborti chimici, Warnock ridefinì “persona” stabilendo che gli embrioni umani fossero sperimentabili fino al quattordicesimo giorno. La stessa Warnock ammise che la soglia fu “una sorta di compromesso” politico, non scientifico. Nel suo libro (1985) scrisse con franchezza: “Ci saranno persone che trovano tutto questo moralmente sbagliato. Abbiamo semplicemente deciso che hanno torto, e che i benefici della ricerca superano le loro obiezioni.” L’Human Fertilisation and Embryology Act (1990) legalizzò la creazione deliberata di embrioni per sperimentazione: dal 1990 al 2023, circa quattro milioni di embrioni sono stati distrutti nel Regno Unito. Oggi il 90% degli embrioni con sindrome di Down viene eliminato – eugenetica perfettamente realizzata, ma chiamata “scelta riproduttiva informata”.
Agenda 21 (1992) completò l’opera integrando il controllo demografico nell’ambientalismo: il Capitolo 5 stabilì che “le tendenze demografiche” dovevano essere “incorporate” in ogni decisione di governo. La vecchia “bomba demografica” rinasceva come “impronta di carbonio”.
La genealogia è cristallina: Galton (1883) → Sanger (1922) → IPPF (1952) → ACOG (1972) → Tietze (1969-77) → Warnock (1984) → Agenda 21 (1992) → oggi (2025). Il fine è rimasto identico: controllare chi nasce, quanti nascono, quali caratteristiche devono avere. Solo il linguaggio è cambiato: da “sradicare i non adatti” a “salute riproduttiva”, da “igiene razziale” a “sostenibilità ambientale”, da “eliminazione difettosi” a “interruzione terapeutica della gravidanza”.
La campagna italiana del 1968-1978, con i suoi numeri matematicamente impossibili e la sua rete coordinata internazionalmente, non fu un episodio isolato ma l’applicazione locale di una strategia globale pianificata da decenni. Le stesse organizzazioni (IPPF, Population Council, Rockefeller), gli stessi metodi (dati gonfiati, emergenza costruita, linguaggio umanitario), lo stesso obiettivo (legalizzazione dell’aborto come strumento di controllo demografico).
Quando oggi sentiamo parlare di “crisi climatica” che richiede “scelte responsabili” sulla procreazione, quando vediamo la maternità sistematicamente svalutata e la fertilità economicamente penalizzata, quando assistiamo alla promozione di ogni stile di vita sterile come “progressista”, non stiamo assistendo a fenomeni casuali. Stiamo vedendo il successo – tragico ma innegabile – di un programma centenario che ha semplicemente imparato a nascondersi sempre meglio.
L’eugenetica non è morta. Ha solo imparato a parlare il linguaggio dei diritti umani.
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