mercoledì 18 settembre 2024

Perché il Cristianesimo è l’unica “religione vera”



Il cardinale Ratzinger, richiamando il confronto tra Sant’Agostino e Varrone, aveva spiegato con estrema chiarezza che nel cristianesimo è avvenuto qualcosa di «stupefacente»: «i due princìpi fondamentali del cristianesimo apparentemente in contrasto, il legame alla metafisica e il legame alla storia (in sostanza FEDE E RAGIONE), si condizionano e si rapportano l’uno all’altro; costituiscono insieme l’apologia del cristianesimo in quanto religio vera».

«Perché il cristianesimo si comprendesse come la vittoria della demitologizzazione, la vittoria della conoscenza e con essa della verità, doveva necessariamente considerarsi come universale: non come una religione specifica che ne reprime altre in forza di una specie di imperialismo religioso, ma come la verità che rende superflua l’apparenza. Ed è proprio questo che nella vasta tolleranza dei politeismi doveva necessariamente apparire come intollerabile, addirittura come nemico della religione, come “ateismo”».

Il testo della conferenza tenuta dal cardinale Joseph Ratzinger nel corso di un colloquio svoltosi alla Sorbona di Parigi il 27 novembre 1999 sul tema «2000 ans après quoi?» è stato pubblicato integralmente da “30Giorni” il 1°gennaio 2000.




del cardinale Joseph Ratzinger

Al termine del secondo millennio, il cristianesimo si trova, proprio nel luogo della sua originaria diffusione, in Europa, in una crisi profonda, basata sulla crisi della sua pretesa alla verità. Questa crisi ha una doppia dimensione: innanzitutto ci si domanda con sempre maggiore insistenza se è giusto, in fondo, applicare la nozione di verità alla religione; in altri termini se è dato all’uomo conoscere la verità propriamente detta su Dio e le cose divine.

L’uomo contemporaneo si ritrova molto meglio nella parabola buddista dell’elefante e dei ciechi: una volta, un re dell’India del Nord riunì in un posto tutti gli abitanti ciechi della città. Poi davanti agli astanti fece passare un elefante. Lasciò che gli uni toccassero la testa, e disse: «Un elefante è così». Altri poterono toccare l’orecchio o la zanna, la proboscide, il dorso, la zampa, il didietro, i peli della coda. Dopo di che il re chiese a ciascuno: «Com’è un elefante?».
E, secondo la parte che avevano toccato, rispondevano: «È come un cesto intrecciato…», «è come un vaso…», «è come l’asta di un aratro…», «è come un magazzino…», «è come un pilastro…», «è come un mortaio…», «è come una scopa…».
Allora – continua la parabola – si misero a discutere, urlando: «L’elefante è così», «no, è così», si scagliarono gli uni sugli altri e si presero a pugni, con gran divertimento del re.

La disputa tra religioni sembra agli uomini di oggi come questa disputa tra ciechi nati. Perché di fronte al mistero di Dio siamo nati ciechi, sembra. Per il pensiero contemporaneo il cristianesimo non si trova assolutamente in una situazione più favorevole rispetto alle altre, anzi: con la sua pretesa alla verità, sembra essere particolarmente cieco di fronte al limite di ogni nostra conoscenza del divino, caratterizzato da un fanatismo particolarmente insensato, che incorreggibilmente scambia per il tutto la porzione toccata nella sua propria esperienza.

Questo scetticismo generalizzato nei confronti della pretesa alla verità in materia religiosa è ulteriormente sorretto dalle questioni che la scienza moderna ha sollevato riguardo alle origini e ai contenuti del cristianesimo. La teoria evoluzionistica sembra aver superato la dottrina della creazione, le conoscenze che concernono l’origine dell’uomo sembrano aver superato la dottrina del peccato originale; la critica esegetica relativizza la figura di Gesù e mette punti interrogativi sulla sua coscienza filiale; l’origine della Chiesa in Gesù appare dubbia, e così via.

La “fine della metafisica” ha reso problematico il fondamento filosofico del cristianesimo, i metodi storici moderni hanno posto le sue basi storiche in una luce ambigua. Così è facile ridurre i contenuti cristiani a simboli, non attribuire loro nessuna verità maggiore di quella dei miti della storia delle religioni, considerarli come una modalità di esperienza religiosa che dovrebbe collocarsi umilmente a fianco di altre. In questo senso si può ancora – a quanto pare – continuare a rimanere cristiani; ci si serve sempre delle forme espressive del cristianesimo, la cui pretesa però è radicalmente trasformata: quella verità che era stata per l’uomo una forza obbligante e una promessa affidabile diventa ormai un’espressione culturale della sensibilità religiosa generale, espressione che sarebbe ovvia per noi a causa della nostra origine europea.

Ernst Troeltsch, all’inizio di questo secolo, ha formulato filosoficamente e teologicamente questo ritirarsi del cristianesimo dalla sua pretesa originariamente universale, che poteva fondarsi solo sulla pretesa alla verità. Egli era arrivato alla convinzione che le culture sono insuperabili e che la religione è legata alle culture. Il cristianesimo è quindi solo il lato del volto di Dio rivolto verso l’Europa. Le «particolari caratteristiche legate alla cultura e alle razze» e «le caratteristiche delle sue grandi formazioni religiose che abbracciano un contesto più ampio» assurgono al rango di ultima istanza: «Chi si azzarderebbe a formulare dei giudizi di valore davvero categorici a proposito? È una cosa che potrebbe fare solo Dio stesso, lui che è all’origine di queste differenze».

Un cieco nato sa che non è nato per essere cieco e di conseguenza non smetterà di interrogarsi sul perché della sua cecità e su come uscirne. Solo in apparenza l’uomo si è rassegnato al verdetto di essere nato cieco davanti a quel che gli appartiene, alla sola realtà che in ultima istanza conta nella nostra vita. 

Il titanico tentativo di prendere possesso del mondo intero, di trarre dalla nostra vita e per la nostra vita tutto il possibile, mostra, così come le esplosioni di un culto dell’estasi, della trasgressione e della distruzione di sé, che l’uomo non si accontenta di un giudizio così. Perché se non sa da dove viene e perché esiste, non è forse in tutto il suo essere una creatura mancata? 

L’addio apparentemente indifferente alla verità su Dio e sull’essenza del nostro io, l’apparente soddisfazione per non doversi più occupare di tutto questo, ingannano. L’uomo non può rassegnarsi a essere e restare, quanto a ciò che è essenziale, un cieco nato. L’addio alla verità non può mai essere definitivo.Stando così le cose, è necessario riproporre la domanda fuori moda della verità del cristianesimo, per quanto a molti possa apparire superflua e insolubile. Ma come?

Di sicuro, la teologia cristiana dovrà esaminare attentamente, senza timore di esporsi, le diverse istanze che sono state sollevate contro la pretesa del cristianesimo alla verità nel campo della filosofia, delle scienze naturali, della storia naturale. Ma d’altra parte occorre anche che essa cerchi di acquisire una visione di insieme del problema concernente l’essenza autentica del cristianesimo, la sua collocazione nella storia delle religioni e il suo posto nell’esistenza umana. 

Vorrei fare un passo in questa direzione, mettendo in luce come, alle sue origini nel kosmos delle religioni, il cristianesimo stesso ha visto questa sua pretesa. Che io sappia non esiste alcun testo del cristianesimo antico che getti sulla questione tanta luce quanto la discussione di Agostino con la filosofia religiosa del «più erudito tra i romani», Marco Terenzio Varrone (116-27 a. C.). 

Varrone condivideva l’immagine stoica di Dio e del mondo; definì Dio come animam motu ac ratione mundum gubernantem (come «l’anima che regge il mondo tramite il movimento e la ragione»), in altri termini: come l’anima del mondo che i Greci chiamano kosmos: hunc ipsum mundum esse deum. Questa anima del mondo, tuttavia, non riceve culto. Non è oggetto di religio

In altri termini: verità e religione, conoscenza razionale e ordine cultuale sono situati su due piani totalmente diversi. L’ordine cultuale, il mondo concreto della religione, non appartiene all’ordine della res, della realtà come tale, ma a quello dei mores – dei costumi. Non sono gli dei che hanno creato lo Stato, è lo Stato che ha istituito gli dei, la cui venerazione è essenziale per l’ordine dello Stato e per il buon comportamento dei cittadini. La religione è nella sua essenza un fenomeno politico. 

Varrone distingue così tre tipi di “teologia”, intendendo per teologia la ratio, quae de diis explicatur – la comprensione e la spiegazione del divino, potremmo tradurre.
Tali sono la theologia mythica, la theologia civilis e la theologia naturalis. Tramite quattro definizioni egli spiega poi cosa si debba intendere per queste “teologie”.

La prima definizione fa riferimento ai tre teologi associati a queste tre teologie: i teologi della teologia mitica sono i poeti, perché hanno composto canti sugli dei e sono così cantori della divinità. I teologi della teologia fisica (naturale) sono i filosofi, cioè gli eruditi, i pensatori, che, andando al di là delle abitudini, si interrogano sulla realtà, sulla verità; i teologi della teologia civile sono i “popoli”, che hanno scelto di non allearsi ai filosofi (alla verità), ma ai poeti, alle loro visioni poetiche, alle loro immagini e alle loro figure.

La seconda definizione riguarda i luoghi a cui nella realtà sono associate le singole teologie. Alla teologia mitica corrisponde il teatro, che aveva di fatto un rango religioso, cultuale; secondo l’opinione comune, gli spettacoli erano stati istituiti a Roma per ordine degli dei. Alla teologia politica corrisponde la urbs. Lo spazio della teologia naturale sarebbe il kosmos.

La terza definizione designa il contenuto delle tre teologie: la teologia mitica avrebbe per contenuto le favole sugli dei, create dai poeti; la teologia di Stato il culto; la teologia naturale risponderebbe alla domanda su chi sono gli dei.

Vale la pena ora di prestare maggiore attenzione:
«Se – come in Eraclito – essi [gli dei] sono fatti di fuoco o – come in Pitagora – di numeri, o – come in Epicuro – di atomi, e altre cose ancora che le orecchie possono sopportare più facilmente all’interno delle mura scolastiche piuttosto che fuori, sulla pubblica piazza», ne deriva con assoluta chiarezza che questa teologia naturale è una demitologizzazione, o meglio una razionalità, che guarda criticamente cosa c’è dietro l’apparenza mitica e la dissolve attraverso la conoscenza scientifico-naturale. Culto e conoscenza risultano separati l’uno dall’altra. Il culto resta necessario fintanto che è una questione di utilità politica; la conoscenza ha un effetto distruttore sulla religione e non dovrebbe quindi essere messa sulla pubblica piazza.

Infine c’è la quarta definizione.
Il contenuto delle diverse teologie da che tipo di realtà è costituito? La risposta di Varrone è questa: la teologia naturale si occupa della “natura degli dei” (che di fatto non esistono), le altre due teologie trattano dei divina instituta hominum – delle istituzioni divine degli uomini. Ne consegue che tutta la differenza si riduce a quella che c’è tra la fisica nel suo significato antico e la religione cultuale dall’altra parte. «La teologia civile non ha in ultima analisi alcun dio, soltanto la “religione”; la “teologia naturale” non ha religione, ma solo una divinità».

Certo, non può avere nessuna religione, perché al suo dio (fuoco, numeri, atomi) non può essere rivolta la parola in termini religiosi. Così religio (termine che designa essenzialmente il culto) e realtà, la conoscenza razionale del reale, si configurano come due sfere separate, l’una accanto all’altra. La religio non trae la sua giustificazione dalla realtà del divino, ma dalla sua funzione politica. È un’istituzione di cui lo Stato ha bisogno per la sua esistenza.

Indubbiamente ci troviamo qui di fronte ad una fase tardiva della religione, nella quale è infranta l’ingenuità dell’atteggiamento religioso ed è quindi innescata la sua dissoluzione.
Ma il legame essenziale della religione con la compagine statale penetra decisamente molto più in profondità. Il culto è in ultima istanza un ordine positivo che come tale non può essere commisurato al problema della verità. 

Mentre Varrone, nel suo tempo, in cui la funzione politica della religione era ancora sufficientemente forte, per giustificarla come tale poteva ancora difendere una concezione piuttosto cruda della razionalità e dell’assenza di verità del culto motivato politicamente, il neoplatonismo cercherà presto un’altra via di uscita dalla crisi, su cui l’imperatore Giuliano basò poi il suo sforzo per ristabilire la religione romana di Stato. Quello che i poeti dicono sono immagini che non si devono intendere fisicamente; ma sono comunque immagini che esprimono l’inesprimibile per tutti quegli uomini ai quali la via maestra dell’unione mistica è sbarrata. Benché non siano vere come tali, le immagini sono giustificate come approcci a qualcosa che sempre deve restare inesprimibile.

Con ciò abbiamo anticipato qualcosa di quel che diremo. La posizione neoplatonica, infatti, da parte sua è già una reazione contro la presa di posizione cristiana sul problema della fondazione cristiana del culto e del posto della fede che ne è alla base, nella tipologia delle religioni.

Torniamo dunque ad Agostino. Dov’è che egli situa il cristianesimo nella triade varroniana delle religioni? Quello che stupisce è che senza la minima esitazione Agostino attribuisce al cristianesimo il suo posto nell’ambito della “teologia fisica”, nell’ambito della razionalità filosofica. Si trova così in perfetta continuità con i primi teologi del cristianesimo, gli Apologisti del II secolo, e anche con la posizione che Paolo assegna al cristianesimo nel primo capitolo della Lettera ai Romani che, da parte sua, si basa sulla teologia veterotestamentaria della Sapienza e risale, al di là di essa, fino ai Salmi che scherniscono gli dei. Il cristianesimo ha, in questa prospettiva, i suoi precursori e la sua preparazione nella razionalità filosofica, non nelle religioni.

Il cristianesimo non è affatto basato, secondo Agostino e la tradizione biblica, che per lui è normativa, su immagini e presentimenti mitici, la cui giustificazione si trova ultimamente nella loro utilità politica, ma si richiama invece a quel divino che può essere percepito dall’analisi razionale della realtà. In altri termini: Agostino identifica il monoteismo biblico con le vedute filosofiche sulla fondazione del mondo che si sono formate, secondo diverse varianti, nella filosofia antica. È questo che si intende quando il cristianesimo, a partire dal discorso paolino dell’Areopago in poi, si presenta con la pretesa di essere la religio vera. 

Il che significa: la fede cristiana non si basa sulla poesia e la politica, queste due grandi fonti della religione; si basa sulla conoscenza. Venera quell’Essere che sta a fondamento di tutto ciò che esiste, il “vero Dio”.

Nel cristianesimo, la razionalità è diventata religione e non più il suo avversario. Perché ciò avvenisse, perché il cristianesimo si comprendesse come la vittoria della demitologizzazione, la vittoria della conoscenza e con essa della verità, doveva necessariamente considerarsi come universale ed essere portato a tutti i popoli: non come una religione specifica che ne reprime altre in forza di una specie di imperialismo religioso, ma come la verità che rende superflua l’apparenza. 

Ed è proprio questo che nella vasta tolleranza dei politeismi doveva necessariamente apparire come intollerabile, addirittura come nemico della religione, come “ateismo”. Non si fondava sulla relatività e sulla convertibilità delle immagini, disturbava perciò soprattutto l’utilità politica delle religioni, e metteva così in pericolo i fondamenti dello Stato, nel quale non voleva essere una religione tra le altre, ma la vittoria dell’intelligenza sul mondo delle religioni. 

D’altra parte, a questa posizione del cristianesimo nel kosmos di religione e filosofia risale anche la forza di penetrazione del cristianesimo. Già prima dell’inizio della missione cristiana, alcuni circoli colti dell’antichità avevano cercato nella figura del “timorato di Dio” il nesso con la fede giudaica, che appariva loro come una figura religiosa del monoteismo filosofico corrispondente alle esigenze della ragione e allo stesso tempo al bisogno religioso dell’uomo. Bisogno questo a cui la filosofia da sola non poteva rispondere: non si prega un dio solo pensato. Là dove invece il Dio trovato dal pensiero si lascia incontrare nel cuore della religione come un Dio che parla e agisce, il pensiero e la fede sono riconciliati.

In quel nesso con la sinagoga, c’era ancora qualcosa che non soddisfaceva: il non ebreo infatti rimaneva sempre un estraneo, non poteva mai arrivare ad una totale appartenenza. Questo nodo è sciolto nel cristianesimo dalla figura di Cristo, così come la interpretò Paolo. Solo allora il monoteismo religioso del giudaismo era divenuto universale, e quindi l’unità tra pensiero e fede, la religio vera, era divenuta accessibile a tutti.

Giustino il filosofo, Giustino il martire (†167) può servire da figura sintomatica di questo accesso al cristianesimo: aveva studiato tutte le filosofie e alla fine aveva riconosciuto nel cristianesimo la vera philosophia. Era convinto che diventando cristiano non aveva rinnegato la filosofia, ma che solo allora era diventato davvero filosofo. 

La convinzione che il cristianesimo sia una filosofia, la filosofia perfetta, quella che è potuta penetrare fino alla verità, resterà in vigore ancora a lungo dopo l’epoca patristica. È ancora assolutamente attuale nel XIV secolo nella teologia bizantina di Nicolas Cabasilas. Certo, non si intendeva la filosofia come una disciplina accademica di natura puramente teoretica, ma anche e soprattutto, su un piano pratico, come l’arte del ben vivere e del ben morire, che tuttavia può riuscire solo alla luce della verità.

L’unione della razionalità e della fede, che si realizzò nello sviluppo della missione cristiana e nella costruzione della teologia cristiana, portò però correttivi decisivi all’immagine filosofica di Dio, di cui due soprattutto devono essere menzionati.

Il primo consiste nel fatto che il Dio al quale i cristiani credono e che venerano, a differenza degli dei mitici e politici, è davvero natura Deus; in ciò soddisfa le esigenze della razionalità filosofica. Ma nello stesso tempo vale l’altro aspetto: non tamen omnis natura est Deus – non tutto ciò che è natura è Dio. Dio è Dio per sua natura, ma la natura come tale non è Dio. Si crea una separazione tra la natura universale e l’Essere che la fonda, che le dà la sua origine. Solo allora la fisica e la metafisica giungono a una chiara distinzione l’una dall’altra. Solo il vero Dio che possiamo riconoscere, tramite il pensiero, nella natura è oggetto di preghiera. Ma è di più che la natura. La precede, essa è la sua creatura.
A questa separazione tra la natura e Dio si aggiunge una seconda scoperta, ancora più decisiva: il dio, la natura, l’anima del mondo o qualsiasi cosa fosse non si poteva pregare; non era un “dio religioso”, avevamo constatato.

Adesso, ed è quello che già dice la fede dell’Antico Testamento e più ancora quella del Nuovo Testamento, quel Dio che precede la natura si è volto verso gli uomini. Non è un Dio silenzioso proprio perché non è solo natura. È entrato nella storia, è venuto incontro all’uomo, e così adesso l’uomo può incontrarlo. Può legarsi a Dio perché Dio si è legato all’uomo. Le due dimensioni della religione, che erano sempre separate l’una dall’altra, la natura eternamente dominatrice e il bisogno di salvezza dell’uomo che soffre e lotta sono legati l’una all’altro. La razionalità può diventare religione, perché il Dio della razionalità è egli stesso entrato nella religione. L’elemento che la fede rivendica come proprio, la Parola storica di Dio, è infatti il presupposto perché la religione possa ormai volgersi verso il dio filosofico, che non è più un Dio puramente filosofico e che nemmeno ripugna alla conoscenza della filosofia, ma l’assume. 

Qui si manifesta una cosa stupefacente: i due princìpi fondamentali del cristianesimo apparentemente in contrasto, il legame alla metafisica e il legame alla storia, si condizionano e si rapportano l’uno all’altro; costituiscono insieme l’apologia del cristianesimo in quanto religio vera. Se dunque si può dire che la vittoria del cristianesimo sulle religioni pagane fu resa possibile non da ultimo dalla sua pretesa di ragionevolezza, occorre aggiungere che a questo è legato un secondo motivo della stessa importanza.

Consiste innanzitutto, per dirlo in modo assolutamente generale, nella serietà morale del cristianesimo, caratteristica che, del resto, Paolo aveva già allo stesso modo messo in rapporto con la ragionevolezza della fede cristiana: ciò a cui in fondo tende la legge, le esigenze essenziali messe in luce dalla fede cristiana, di un Dio unico per la vita dell’uomo, corrisponde a quel che l’uomo, ogni uomo porta scritto nel cuore, cosicché quando gli si presenta, lo riconosce come Bene. Corrisponde a ciò che «è buono per natura» (Rm 2, 14s). L’allusione alla morale stoica, alla sua interpretazione etica della natura, è qui manifesta tanto quanto in altri testi paolini, per esempio nella Lettera ai Filippesi (Fil 4, 8: «Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri»).

Così la fondamentale (benché critica) unità con la razionalità filosofica, presente nella nozione di Dio, si conferma e si concretizza ora nell’unità, critica anch’essa, con la morale filosofica. Come nel campo del religioso il cristianesimo superava i limiti di una scuola di saggezza filosofica proprio per il fatto che il Dio pensato si lasciava incontrare come un Dio vivente, così qui ci fu un superamento della teoria etica in una praxis morale, comunitariamente vissuta e resa concreta, nella quale la prospettiva filosofica era trascesa e trasposta nell’azione reale, in particolare grazie al concentrare tutta la morale nel duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo.

Il cristianesimo, si potrebbe dire semplificando, convinceva grazie al legame della fede con la ragione e grazie all’orientamento dell’azione verso la caritas, la cura amorevole dei sofferenti, dei poveri e dei deboli, al di là di ogni differenza di condizione. Che fosse questa l’intima forza del cristianesimo lo si può sicuramente e chiaramente vedere nel modo in cui l’imperatore Giuliano cercò di ristabilire il paganesimo in una forma rinnovata. Lui, il pontifex maximus della ristabilita religione degli antichi dei, si mise ad istituire, cosa che non era mai esistita prima, una gerarchia pagana, fatta di sacerdoti e metropoliti. I sacerdoti dovevano essere esempi di moralità; dovevano dedicarsi all’amore di dio (la divinità suprema tra gli dei) e del prossimo. Erano obbligati a compiere atti di carità verso i poveri, non era più permesso loro di leggere le commedie licenziose e i romanzi erotici, e dovevano predicare nei giorni di festa su un argomento filosofico per istruire e formare il popolo. Teresio Bosco dice giustamente, a questo riguardo, che l’imperatore in questo modo cercava, in realtà, non di ristabilire il paganesimo ma di cristianizzarlo – in una sintesi limitata al culto degli dei, di razionalità e religione.

Rivolgendo lo sguardo indietro, possiamo dire che la forza che ha trasformato il cristianesimo in una religione mondiale è consistita nella sua sintesi fra ragione, fede, vita; è precisamente questa sintesi che è sintetizzata nell’espressione religio vera.

E a maggior ragione si impone allora la domanda: perché questa sintesi non convince più oggi? Perché la razionalità e il cristianesimo sono, al contrario, considerati oggi come contraddittori e addirittura reciprocamente esclusivi? Che cosa è cambiato nella razionalità? Che cosa è cambiato nel cristianesimo?

Un tempo il neoplatonismo, in particolare Porfirio, aveva opposto alla sintesi cristiana un’altra interpretazione del rapporto tra filosofia e religione, una interpretazione che intendeva essere una rifondazione filosofica della religione politeista.
Oggi è proprio questo modo di armonizzare la religione e la razionalità che sembra imporsi come la forma di religiosità adatta alla coscienza moderna.
Porfirio formula così la sua prima idea fondamentale: Latet omne verum – la verità è nascosta. Ricordiamoci della parabola dell’elefante, contrassegnata proprio da quella concezione in cui buddismo e neoplatonismo si incontrano. In base alla quale non c’è alcuna certezza sulla verità, su Dio, ma solo opinioni.

Nella crisi di Roma del tardo IV secolo, il senatore Simmaco – immagine speculare di Varrone e della sua teoria della religione – ha riportato la concezione neoplatonica a alcune formule semplici e pragmatiche, che possiamo trovare nel discorso tenuto nel 384 davanti all’imperatore Valentiniano II, in difesa del paganesimo e in favore della ricollocazione della dea Vittoria nel Senato di Roma. Cito solo la frase decisiva divenuta celebre: «È la medesima cosa quella che noi tutti veneriamo, una sola quella che pensiamo, contempliamo le stesse stelle, uno solo è il cielo che sta sopra di noi, è lo stesso il mondo che ci circonda; che cosa importano i diversi tipi di saggezza attraverso i quali ciascuno cerca la verità? Non si può arrivare a un mistero tanto grande attraverso un’unica via».

È esattamente ciò che sostiene oggi la razionalità: la verità in quanto tale non la conosciamo; nelle immagini più diverse, in fondo, miriamo alla medesima cosa. Mistero così grande, il divino non può essere ridotto a una sola figura che esclude tutte le altre, a un’unica via che vincolerebbe tutti. Ci sono molte vie, ci sono molte immagini, tutte riflettono qualche cosa del tutto e nessuna di loro il tutto. L’ethos della tolleranza appartiene a chi riconosce in ciascuna di esse una parte di verità, a chi non pone la sua più in alto delle altre e si inserisce tranquillamente nella sinfonia polimorfa dell’eterno Inaccessibile. Esso in realtà si vela dietro a simboli, ma questi simboli sembrano non di meno l’unica nostra possibilità di arrivare in una certa maniera alla divinità.

La pretesa del cristianesimo di essere la religio vera sarebbe dunque superata dal progresso della razionalità? È dunque costretto ad abbassare le sue pretese e a inserirsi nella visione neoplatonica o buddista o indù della verità e del simbolo, a contentarsi, come aveva proposto Ernst Troeltsch, di mostrare della faccia di Dio la parte rivolta verso l’Europa? Si deve forse fare un passo in più di Troeltsch, che considerava ancora il cristianesimo la religione adatta all’Europa, tenendo conto del fatto che oggi l’Europa stessa dubita che sia adatta?

Questa è la vera domanda alla quale oggi la Chiesa e la teologia devono far fronte.
Tutte le crisi all’interno del cristianesimo che osserviamo ai giorni nostri si basano di fatto solo secondariamente su problemi istituzionali.

I problemi delle istituzioni così come delle persone nella Chiesa derivano ultimamente da questa questione, e dall’enorme peso che essa ha. Nessuno si aspetterà, alla fine del secondo millennio cristiano, che questa provocazione fondamentale trovi, anche solo lontanamente, risposta definitiva in una conferenza. Non può assolutamente trovare risposte puramente teoriche, così come la religione, in quanto attitudine ultima dell’uomo, non è mai solo teoria. Esige quella combinazione di conoscenza e di azione, su cui era fondata la forza persuasiva del cristianesimo dei Padri.



(Gesù risorto e gli apostoli sul lago di Tiberiade)

Ciò non significa in nessun modo che ci si possa sottrarre all’urgenza che il problema ha dal punto di vista intellettuale, rinviando alla necessità della prassi.

Cercherò, per finire, solo di aprire una prospettiva che potrebbe indicare la direzione.
Abbiamo visto che l’originaria unità relazionale, tuttavia mai completamente acquisita, tra razionalità e fede, alla quale infine Tommaso d’Aquino dette una forma sistematica, è stata lacerata meno dallo sviluppo della fede che dai nuovi progressi della razionalità. Come tappe di questa mutua separazione si potrebbero citare Descartes, Spinoza, Kant.

La nuova sintesi inglobante che Hegel tenta non restituisce alla fede il suo posto filosofico, ma tende a convertirla in ragione ed eliminarla come fede.

A questa assolutizzazione dello spirito, Marx oppone l’unicità della materia; la filosofia deve allora essere completamente ricondotta alla scienza esatta. Solo l’esatta conoscenza scientifica è conoscenza. Con ciò è congedata l’idea del divino.

La profezia di Auguste Comte, che disse che un giorno ci sarebbe stata una fisica dell’uomo e che le grandi domande finora lasciate alla metafisica in futuro sarebbero state trattate “positivamente” come tutto ciò che già oggi è scienza positiva, ha lasciato un’eco impressionante nel nostro secolo, nelle scienze umane. La separazione tra la fisica e la metafisica operata dal pensiero cristiano è sempre più abbandonata. Tutto deve ridiventare “fisica”.

La teoria evoluzionistica si è andata cristallizzando come la strada per far sparire definitivamente la metafisica, per rendere superflua l’«ipotesi di Dio» (Laplace) e formulare una spiegazione del mondo strettamente “scientifica”. Una teoria evoluzionistica che spieghi in modo inglobante l’insieme di tutto il reale è diventata una specie di “filosofia prima” che rappresenta per così dire l’autentico fondamento della comprensione razionale del mondo.

Ogni tentativo di fare entrare in gioco cause diverse da quelle che una teoria “positiva” elabora, ogni tentativo di “metafisica” appare necessariamente come una ricaduta al di qua della ragione, come un decadere dalla pretesa universale della scienza. Anche l’idea cristiana di Dio è necessariamente considerata come non scientifica. A quest’idea non corrisponde più nessuna theologia physica: l’unica theologia naturalis è, in questa visione, la dottrina evoluzionistica, ed essa non conosce proprio alcun Dio, né alcun Creatore nel senso del cristianesimo (del giudaismo e dell’islam), né alcuna anima del mondo o dinamismo interiore nel senso della Stoa. 

Eventualmente si potrebbe, in senso buddista, considerare il mondo intero come un’apparenza, e il nulla come l’autentica realtà, e giustificare in questo senso le forme mistiche di religione che almeno non sono in diretta concorrenza con la ragione. È così detta l’ultima parola? La ragione e il cristianesimo sono così definitivamente separati l’una dall’altro? 

Comunque stiano le cose, non viene discussa la portata della dottrina evoluzionistica come filosofia prima e l’esclusività del metodo positivo come unico tipo di scienza e di razionalità. Occorre che questa discussione venga iniziata da entrambe le parti con serenità e disponibilità ad ascoltare, cosa che finora è accaduta solo in modo debole. 

Nessuno potrebbe mettere seriamente in dubbio le prove scientifiche dei processi microevolutivi. Reinhard Junker e Sieghfried Scherer dicono a questo proposito nel loro Kritisches Lehrbuch sull’evoluzione: «Tali fenomeni [i processi microevolutivi] sono ben conosciuti a partire dai processi naturali di variazione e di formazione. Il loro esame per mezzo della biologia evolutiva portò a conoscenze significative a proposito della capacità strabiliante di adattamento dei sistemi viventi». Dicono in questo senso che si può a ragione caratterizzare la ricerca sull’origine come la disciplina regina della biologia.

La domanda che un credente può porsi di fronte alla ragione moderna non è su questo, ma sull’estensione di una philosophia universalis che ambisce a diventare una spiegazione generale del reale e tende a non consentire più nessun altro livello di pensiero. Nella stessa dottrina evoluzionistica il problema si presenta quando si passa dalla micro alla macroevoluzione, passaggio a proposito del quale Szamarthy e Maynard Smith, entrambi sostenitori di una teoria evoluzionistica ricomprensiva, ammettono anche loro: «Non ci sono motivi teorici che lascino pensare che delle linee evolutive aumentino in complessità col tempo; non ci sono neanche prove empiriche che ciò avvenga». 

La domanda che ora bisogna porre va più in profondità: si tratta di sapere se la dottrina evoluzionistica può presentarsi come una teoria universale di tutto il reale, al di là della quale le ulteriori domande sull’origine e la natura delle cose non sono più lecite né necessarie, o se domande ultime del genere non superino il campo della pura ricerca scientifico-naturale.

Vorrei porre la domanda in modo ancora più concreto.
Dice veramente tutto una risposta come quella che troviamo, per esempio, nella seguente formulazione di Popper: «La vita, come noi la conosciamo, consiste di “corpi” fisici (meglio: di processi e strutture) che risolvono problemi. Che le diverse specie hanno “imparato” tramite la selezione naturale, cioè tramite il metodo di riproduzione più variazione; metodo che, da parte sua, fu imparato secondo lo stesso metodo. È una regressione, ma non è infinita…»? Non credo proprio.
In fin dei conti si tratta di un’alternativa che non si può più risolvere semplicemente né a livello delle scienze naturali e in fondo neanche della filosofia.

Si tratta di sapere se la ragione, o il razionale, si trova o no al principio di tutte le cose e a loro fondamento. Si tratta di sapere se il reale è nato sulla base del caso e della necessità (o, con Popper, d’accordo con Butler del Luck and Cunning [caso felice e previsione]), e quindi da ciò che è senza ragione, se, in altri termini, la ragione è un casuale prodotto marginale dell’irrazionale, insignificante, alla fine, nell’oceano dell’irrazionale, o se resta vera quella che è la convinzione fondamentale della fede cristiana e della sua filosofia: In principio erat Verbum – al principio di tutte le cose c’è la forza creatrice della ragione.

La fede cristiana è oggi come ieri l’opzione per la priorità della ragione e del razionale.
Questa domanda ultima non può più, come già si è detto, essere risolta tramite argomenti tratti dalle scienze naturali, e il pensiero filosofico stesso qui si blocca. In questo senso non si può fornire alcuna prova ultima dell’opzione cristiana fondamentale. Ma la ragione può, ultimamente, senza rinnegare se stessa, rinunciare alla priorità del razionale sull’irrazionale, al Logos come principio primo? 

Il modello ermeneutico offerto da Popper, che rientra sotto diverse forme in altre presentazioni della “filosofia prima”, dimostra che la ragione non può che pensare anche l’irrazionale secondo la sua misura, e quindi razionalmente (risolvere problemi, elaborare metodi!), ristabilendo così implicitamente proprio il primato contestato della ragione. Con la sua opzione a favore del primato della ragione, il cristianesimo resta ancora oggi “razionalità”, e penso che una razionalità che si sbarazzi di questa opzione significherebbe per forza, contrariamente alle apparenze, non un’evoluzione ma un’involuzione della razionalità.

Abbiamo visto in precedenza che nella concezione del primo cristianesimo le nozioni di natura, uomo, Dio, ethos e religione erano indissolubilmente connesse l’una all’altra e che quel nesso aveva proprio aiutato il cristianesimo a vederci chiaro nella crisi degli dei e nella crisi dell’antica razionalità. L’orientarsi della religione verso una visione razionale del reale, l’ethos come parte di questa visione e la sua applicazione concreta sotto il primato dell’amore, si associarono l’uno all’altro. 

Il primato del Logos e il primato dell’amore si rivelarono identici. Il Logos non apparve più solo come ragione matematica alla base di tutte le cose ma come amore creatore fino a diventare com-passione verso la creatura. La dimensione cosmica della religione che venera il Creatore nella potenza dell’essere, e la sua dimensione esistenziale, la questione della redenzione, si compenetrarono e divennero una cosa sola. Di fatto, una spiegazione del reale che non può in modo sensato e comprensivo fondare un ethos resta necessariamente insufficiente.

Ora, è un fatto che la teoria evoluzionistica, là dove rischia di allargarsi in philosophia universalis, tenta di fondare un nuovo ethos sulla base dell’evoluzione. Ma questo ethos evoluzionistico, che trova ineluttabilmente la sua nozione chiave nel modello della selezione, e quindi nella lotta per la sopravvivenza, nella vittoria del più forte, nell’adattamento riuscito, ha poco di consolante da offrire. Anche là dove si cerchi di abbellirlo in vari modi, resta ultimamente un ethos crudele. Lo sforzo per distillare il razionale a partire da una realtà insensata in se stessa fallisce qui in modo lampante. Tutto ciò serve a ben poco per quello di cui abbiamo bisogno: un’etica della pace universale, dell’amore pratico del prossimo e del necessario andare oltre il particolare. Il tentativo di ridare, in questa crisi dell’umanità, un senso comprensibile alla nozione di cristianesimo come religio vera deve, per così dire, puntare ugualmente sull’ortoprassia e sull’ortodossia.

Al livello più profondo il suo contenuto dovrà consistere, oggi – come sempre, in ultima analisi –, nel fatto che l’amore e la ragione coincidono in quanto veri e propri pilastri fondamentali del reale: la ragione vera è l’amore e l’amore è la ragione vera. Nella loro unità essi sono il vero fondamento e lo scopo di tutto il reale.







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