venerdì 20 settembre 2024

Pellegrinaggio a Montenero (Li)

 











Furto di ostie in Italia, per messe nere



Da Medias Press Info una notizia che non ci lascia indifferenti e suscita un supplemento di preghiere di riparazione. Traduzione di Chiesa e postconcilio.




Pierre-Alain Depauw, 19-09-2024

In Italia, così come in Francia e in altri Paesi dell’Europa occidentale, assistiamo a una crescente ondata di attacchi anticristiani, soprattutto atti di vandalismo contro le chiese.

Le profanazioni vengono spesso compiute in uno spirito di odio religioso e anche i satanisti sono tra i principali autori degli attacchi. Come a Lecce, dove è avvenuta una grave profanazione.

Il Vescovo di Lecce, Michele Seccia, ha informato l'opinione pubblica di un grave incidente accaduto all'interno della cappella dell'ospedale della città salentina. Ignoti hanno trafugato le ostie dal tabernacolo e le pissidi dalla sagrestia. Un furto compiuto molto probabilmente per scopi satanici.

“(…) ignoti hanno prelevato dalla sacrestia della cappella maggiore dell'ospedale Vito Fazzi di Lecce i vasi sacri utilizzati per la celebrazione dell'Eucaristia e, cosa ancora più grave, il Santissimo Sacramento custodito nel Tabernacolo è stato profanato nella Chiesa di San Giuseppe Cappella Moscati del centro oncologico.», scrive il vescovo. 

Il rammarico è accentuato dal fatto che «l'Eucaristia è stata profanata e con essa tutti i battezzati: con questo atto ignobile è stato violato il Corpo crocifisso del Signore». Il vescovo si è recato sul luogo il 10 settembre per celebrare una messa di riparazione e ha fatto sì che in ogni chiesa della diocesi aperta al culto, fosse celebrata una messa di riparazione nello stesso giorno.»

Cosa c'è dietro questo furto?
Don Angelo Rizzo, uno dei due cappellani presenti in ospedale, ha fornito alcuni ulteriori dettagli sull'accaduto: “Ci sono stati due furti – ha spiegato – ma purtroppo le telecamere non li hanno ripresi. I forestieri prima hanno attraversato la cappella del vecchio ospedale dove hanno preso tutti i vasi sacri, ma non avendo trovata la chiave, non hanno avuto accesso al tabernacolo. Allora si sono recati al centro oncologico poco distante e una volta entrati sono riusciti a trovare la chiave del tabernacolo, aperto il quale, hanno rubato le ostie e anche l'ostia grande per la consacrazione. »

Non si tratta di un dettaglio banale. Innanzitutto non hanno aperto nulla e non hanno rotto la porta del tabernacolo, ma hanno trovato la chiave, custodita in un luogo sicuro. «È probabile che si sia trattato di un furto ben pianificato, dovevano aver osservato in anticipo i movimenti dei ministri della Comunione per sapere dove tenessero la chiave. L'ospedale è aperto 24 ore su 24, e la porta del tabernacolo viene spesso aperta per varie necessità legate all'amministrazione dell'Eucaristia ai malati, anche al di fuori degli orari della Messa. »

Questo fa dire al sacerdote che sicuramente «i ladri hanno studiato come bussare e come rubare la chiave».

Un furto mirato, quindi, ma perché? Per quale scopo? “Dobbiamo escludere che si sia trattato di un delinquente o di qualcuno che volesse danneggiare il tabernacolo. O anche un semplice vandalo con il gusto della profanazione. O anche ladri che vogliono vendere vasi sacri al mercato nero. »

Rubare tutto il necessario per una messa nera.
No, gli indizi probabilmente portano a una pista satanica. “Sembra che volessero rubare tutto il necessario per una messa nera”, spiega. » Le ostie, compresi magna, ciboria e calici (è stato rubato anche il calice dell'ordinazione del secondo cappellano) hanno poco valore economico, ma un valore spirituale molto alto.

“Il nostro vescovo – prosegue padre Rizzo – è anche esorcista (non solo in virtù della sua ordinazione episcopale, ma anche esorcista istituito) e recentemente ci ha messo in guardia dal proliferare di numerose sette sataniche nel territorio della diocesi. Anche gli esorcismi da lui praticati sono aumentati di numero negli ultimi tempi”.

Ma a Rizzo si è presentato anche un dato preoccupante: «Recentemente, sulla facciata della mia chiesa parrocchiale, abbiamo trovato segni attribuiti a sette sataniche, come una stella a cinque punte e numeri e parole specifiche del satanismo. »







Come cambia la teologia morale: il caso di Maurizio Chiodi







Di Stefano Fontana, 20 Set 2024

In un precedente articolo ho cercato di evidenziare le principali novità di impostazione della teologia morale cattolica. Aggiungo ora qualche osservazione sul teologo Maurizio Chiodi.

Un esempio di esposizione della struttura della nuova teologia morale è il manuale “Teologia morale fondamentale” (Queriniana 20203) di don Maurizio Chiodi, docente alla Facoltà teologica di Milano e al nuovo Istituto Giovanni Paolo II a Roma.

La nuova teologia morale, secondo Chiodi, deve attuare una “svolta verso il soggetto”. La conoscenza dei suoi fondamenti universali non è possibile senza il collegamento con quelli singolari: “il singolare è principio dell’universale“, non si accede all’essere “se non a procedere dall’ermeneutica dell’esperienza, così come questa si presenta alla coscienza personale”. Questo richiede di superare la visione realistica e oggettiva della persona e optare per la prospettiva “fenomenologico-ermeneutica” secondo la quale si dà una “imprescindibilità dell’esperienza nel discorso morale”. La morale quindi non si fonda più sull’essere ma sull’esperienza, concetto però, quest’ultimo, tra i più vaghi.

La norma morale non è più conoscibile nella sua formalità universale, ossia per quello che è indipendentemente dalle situazioni: “la riflessione teologico-morale … non può partire da una legge che sarebbe conosciuta dalla ragione … ma dal soggetto” ossia “dalla coscienza considerata come cifra della unicità singolare della persona”.

Ne consegue che anche l’idea di una legge morale naturale va cambiata. Essa va storicizzata: ”la normatività della natura è riconosciuta dalla ragione pratica in un continuo processo di scoprimento”. Possiamo dire che la legge naturale sia ora intesa come sedimentazione delle sue progressive interpretazioni, una interpretazione di interpretazioni, sempre aperta e inconclusa, sempre oggettiva e soggettiva insieme, sempre instabile.

La coscienza morale non è più considerata come un atto della ragione pratica e si nega la priorità dell’intelletto nella conoscenza delle norme morali; “Il profilo teologico della coscienza non può essere confinato in un approccio intellettualista che le sottragga la sua costitutiva qualità emotiva e antropologica”. La coscienza diventa quindi il “luogo ermeneutico della legge morale”, una mediazione continua tra soggettivo e oggettivo.

Anche la nozione di “peccato” viene rivista: “la materia [ciò che si fa] non può essere un criterio univoco, stabilito una volta per sempre, in modo astratto e ab-soluto dalle condizioni storiche e personali”. In questo modo viene meno la possibilità di indicare alcune azioni che non si devono mai fare (intrinsece mala), perché si cadrebbe nell’oggettivismo, mentre bisogna sempre tenere presente “il nesso tra oggettivo e soggettivo nella coscienza”. Si intendeva per virtù.

Nella tradizione della teologia morale si intendeva per virtù la qualità che rende buono l’uomo che la pratica. Su questa definizione era possibile fondare poi le virtù cardinali e quelle teologali. La virtù richiedeva un governo delle passioni e una loro sottomissione al bene indicato dalla ragione. Tra le virtù, la prudenza assume un posto particolare. Essa veniva intesa come la retta ragione delle azioni da compiere. Ora, nella nuova teologia morale, anche il discorso sulla virtù cambia. Essa è vista come una esperienza pratica nel senso che deve discernere tra le passioni che sono strutturalmente ambigue e quindi sarà solo nell’agire che si risolverà la loro ambiguità. La posizione precedente viene accusata di intellettualismo, sicché la virtù della prudenza non combatte più il vizio con la ragione ma con l’azione. Però ci si chiede: la nuova azione da cosa sarà guidata se non può più esserlo dalla ragione? Come fa la prudenza ad essere una virtù morale senza essere prima una virtù intellettuale?

La nuova teologia morale cambia anche il rapporto tra i mezzi e i fini nell’azione morale e riconsidera il ruolo delle circostanze, da accidentali come erano viste in precedenza, a sostanziali come avviene ora.



(Foto tratta da http://www.istitutogp2.it)





giovedì 19 settembre 2024

Che cos’è il Modernismo. Argomenti per conservare la fede


 
19 Set 2024


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by Aldo Maria Valli



di Gaetano Masciullo

Cari amici di Duc in altum,

è con grande piacere che vi presento il libro Che cos’è il Modernismo, edito da Fede & Cultura. Questo prezioso volume raccoglie tre tra i più autorevoli documenti del magistero di san Pio X, due dei quali sono vincolati dall’infallibilità pontificia. Si tratta dell’allocuzione ai cardinali dell’aprile 1907, del decreto del Sant’Uffizio Lamentabili sane exitu e dell’enciclica Pascendi Dominici Gregis, opere magistrali che hanno rappresentato una roccaforte dottrinale contro il dilagare delle eresie moderniste all’inizio del XX secolo.

Nella mia introduzione cerco di accompagnare il lettore in un viaggio storico e teologico, spiegando perché questi documenti, sebbene risalgano a oltre un secolo fa, siano ancora oggi più attuali che mai. Viviamo in un’epoca di crescente confusione dottrinale, in cui il relativismo e il soggettivismo – che sono alla base del Modernismo – hanno trovato nuove forme per insinuarsi persino all’interno della Chiesa. Il genio profetico di san Pio X ha saputo individuare e smascherare queste tendenze devastanti, e la sua opera magisteriale rimane uno strumento fondamentale per orientarsi nel caos odierno.

La formazione di questi documenti non è avvenuta in un vuoto storico, ma è il frutto di un lungo processo di discernimento, che affonda le proprie radici nel magistero anti-modernista di Pio IX. In particolare, il Sillabo del 1864 è stato il punto di partenza di un percorso di condanna degli errori moderni che avrebbe trovato in san Pio X (e poi Pio XII, con la sua condanna del Neo-modernismo) il proprio culmine. Attraverso un’analisi approfondita, ripercorro nella mia introduzione l’elaborazione di queste condanne e le sfide che la Chiesa ha dovuto affrontare, con particolare attenzione agli attacchi alle verità di fede perpetrati dai fautori del modernismo.

Un aspetto centrale della mia introduzione è l’analisi delle tre matrici scientifiche del pensiero modernista, ossia le sue pretese di fondarsi su discipline apparentemente neutre come l’astronomia, l’archeologia e la biologia. Queste scienze, se usate correttamente, sono certamente preziose, ma nel contesto modernista vengono strumentalizzate per minare la Rivelazione e i fondamenti della fede cattolica. Questo metodo pseudo-scientifico, che si pretende “superiore” alla teologia e alla Tradizione, continua oggi a seminare confusione tra i fedeli. San Pio X, con la sua lucidità, ne smonta gli errori, mostrando come il modernismo sia una forma di “compromesso” tra fede e razionalismo che finisce per distruggere entrambe.

Nel libro presento poi una sintesi dell’ordine logico seguito da san Pio X nel definire il modernismo: ne esamina l’essenza, ovvero un complesso di errori che si fondano su un’errata comprensione della fede e della Rivelazione; le cause profonde, legate in ultima istanza ai vizi della superbia e della curiosità, più che su errate concezioni filosofico-teologiche; gli effetti devastanti sulla Chiesa e sulla società; infine, i rimedi, tra cui una robusta formazione teologica e spirituale per il clero e i laici, e una chiara adesione alla dottrina tradizionale. Questo schema logico ci permette di comprendere la profondità e la pericolosità del modernismo, ma anche la forza delle risposte proposte dal Santo Pontefice.

Perché leggere oggi questo libro? La risposta è semplice: perché il Modernismo, lungi dall’essere una questione del passato, è un pericolo presente, reale, vivo. Le sue idee, pur camuffate spesso sotto nuovi nomi e sembianze, continuano a intaccare la dottrina e la fede dei credenti. Ogni cattolico, specialmente in questo tempo di grande confusione, ha il dovere di formarsi per comprendere e difendere la verità della nostra fede, e questo libro fornisce le basi necessarie per farlo.

Mi rivolgo in particolare ai sacerdoti, che hanno una responsabilità speciale nel formare le anime. Questo libro dovrebbe essere non solo letto, ma studiato e diffuso, affinché le generazioni future possano crescere salde nella verità cattolica. La Pascendi e il Lamentabili sono fari di luce che indicano la strada in un mare tempestoso: offrire ai fedeli la possibilità di conoscerli è un atto di carità e di responsabilità.

Invito tutti a leggere e regalare questo libro, che costituisce un baluardo sicuro contro gli errori modernisti e una fonte di grande consolazione spirituale per chi desidera rimanere saldo nella fede cattolica.

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San Pio X, Che cos’è il Modernismo. Argomenti per conservare la fede, Fede & Cultura, pagine 112, 14 euro





mercoledì 18 settembre 2024

Perché il Cristianesimo è l’unica “religione vera”



Il cardinale Ratzinger, richiamando il confronto tra Sant’Agostino e Varrone, aveva spiegato con estrema chiarezza che nel cristianesimo è avvenuto qualcosa di «stupefacente»: «i due princìpi fondamentali del cristianesimo apparentemente in contrasto, il legame alla metafisica e il legame alla storia (in sostanza FEDE E RAGIONE), si condizionano e si rapportano l’uno all’altro; costituiscono insieme l’apologia del cristianesimo in quanto religio vera».

«Perché il cristianesimo si comprendesse come la vittoria della demitologizzazione, la vittoria della conoscenza e con essa della verità, doveva necessariamente considerarsi come universale: non come una religione specifica che ne reprime altre in forza di una specie di imperialismo religioso, ma come la verità che rende superflua l’apparenza. Ed è proprio questo che nella vasta tolleranza dei politeismi doveva necessariamente apparire come intollerabile, addirittura come nemico della religione, come “ateismo”».

Il testo della conferenza tenuta dal cardinale Joseph Ratzinger nel corso di un colloquio svoltosi alla Sorbona di Parigi il 27 novembre 1999 sul tema «2000 ans après quoi?» è stato pubblicato integralmente da “30Giorni” il 1°gennaio 2000.




del cardinale Joseph Ratzinger

Al termine del secondo millennio, il cristianesimo si trova, proprio nel luogo della sua originaria diffusione, in Europa, in una crisi profonda, basata sulla crisi della sua pretesa alla verità. Questa crisi ha una doppia dimensione: innanzitutto ci si domanda con sempre maggiore insistenza se è giusto, in fondo, applicare la nozione di verità alla religione; in altri termini se è dato all’uomo conoscere la verità propriamente detta su Dio e le cose divine.

L’uomo contemporaneo si ritrova molto meglio nella parabola buddista dell’elefante e dei ciechi: una volta, un re dell’India del Nord riunì in un posto tutti gli abitanti ciechi della città. Poi davanti agli astanti fece passare un elefante. Lasciò che gli uni toccassero la testa, e disse: «Un elefante è così». Altri poterono toccare l’orecchio o la zanna, la proboscide, il dorso, la zampa, il didietro, i peli della coda. Dopo di che il re chiese a ciascuno: «Com’è un elefante?».
E, secondo la parte che avevano toccato, rispondevano: «È come un cesto intrecciato…», «è come un vaso…», «è come l’asta di un aratro…», «è come un magazzino…», «è come un pilastro…», «è come un mortaio…», «è come una scopa…».
Allora – continua la parabola – si misero a discutere, urlando: «L’elefante è così», «no, è così», si scagliarono gli uni sugli altri e si presero a pugni, con gran divertimento del re.

La disputa tra religioni sembra agli uomini di oggi come questa disputa tra ciechi nati. Perché di fronte al mistero di Dio siamo nati ciechi, sembra. Per il pensiero contemporaneo il cristianesimo non si trova assolutamente in una situazione più favorevole rispetto alle altre, anzi: con la sua pretesa alla verità, sembra essere particolarmente cieco di fronte al limite di ogni nostra conoscenza del divino, caratterizzato da un fanatismo particolarmente insensato, che incorreggibilmente scambia per il tutto la porzione toccata nella sua propria esperienza.

Questo scetticismo generalizzato nei confronti della pretesa alla verità in materia religiosa è ulteriormente sorretto dalle questioni che la scienza moderna ha sollevato riguardo alle origini e ai contenuti del cristianesimo. La teoria evoluzionistica sembra aver superato la dottrina della creazione, le conoscenze che concernono l’origine dell’uomo sembrano aver superato la dottrina del peccato originale; la critica esegetica relativizza la figura di Gesù e mette punti interrogativi sulla sua coscienza filiale; l’origine della Chiesa in Gesù appare dubbia, e così via.

La “fine della metafisica” ha reso problematico il fondamento filosofico del cristianesimo, i metodi storici moderni hanno posto le sue basi storiche in una luce ambigua. Così è facile ridurre i contenuti cristiani a simboli, non attribuire loro nessuna verità maggiore di quella dei miti della storia delle religioni, considerarli come una modalità di esperienza religiosa che dovrebbe collocarsi umilmente a fianco di altre. In questo senso si può ancora – a quanto pare – continuare a rimanere cristiani; ci si serve sempre delle forme espressive del cristianesimo, la cui pretesa però è radicalmente trasformata: quella verità che era stata per l’uomo una forza obbligante e una promessa affidabile diventa ormai un’espressione culturale della sensibilità religiosa generale, espressione che sarebbe ovvia per noi a causa della nostra origine europea.

Ernst Troeltsch, all’inizio di questo secolo, ha formulato filosoficamente e teologicamente questo ritirarsi del cristianesimo dalla sua pretesa originariamente universale, che poteva fondarsi solo sulla pretesa alla verità. Egli era arrivato alla convinzione che le culture sono insuperabili e che la religione è legata alle culture. Il cristianesimo è quindi solo il lato del volto di Dio rivolto verso l’Europa. Le «particolari caratteristiche legate alla cultura e alle razze» e «le caratteristiche delle sue grandi formazioni religiose che abbracciano un contesto più ampio» assurgono al rango di ultima istanza: «Chi si azzarderebbe a formulare dei giudizi di valore davvero categorici a proposito? È una cosa che potrebbe fare solo Dio stesso, lui che è all’origine di queste differenze».

Un cieco nato sa che non è nato per essere cieco e di conseguenza non smetterà di interrogarsi sul perché della sua cecità e su come uscirne. Solo in apparenza l’uomo si è rassegnato al verdetto di essere nato cieco davanti a quel che gli appartiene, alla sola realtà che in ultima istanza conta nella nostra vita. 

Il titanico tentativo di prendere possesso del mondo intero, di trarre dalla nostra vita e per la nostra vita tutto il possibile, mostra, così come le esplosioni di un culto dell’estasi, della trasgressione e della distruzione di sé, che l’uomo non si accontenta di un giudizio così. Perché se non sa da dove viene e perché esiste, non è forse in tutto il suo essere una creatura mancata? 

L’addio apparentemente indifferente alla verità su Dio e sull’essenza del nostro io, l’apparente soddisfazione per non doversi più occupare di tutto questo, ingannano. L’uomo non può rassegnarsi a essere e restare, quanto a ciò che è essenziale, un cieco nato. L’addio alla verità non può mai essere definitivo.Stando così le cose, è necessario riproporre la domanda fuori moda della verità del cristianesimo, per quanto a molti possa apparire superflua e insolubile. Ma come?

Di sicuro, la teologia cristiana dovrà esaminare attentamente, senza timore di esporsi, le diverse istanze che sono state sollevate contro la pretesa del cristianesimo alla verità nel campo della filosofia, delle scienze naturali, della storia naturale. Ma d’altra parte occorre anche che essa cerchi di acquisire una visione di insieme del problema concernente l’essenza autentica del cristianesimo, la sua collocazione nella storia delle religioni e il suo posto nell’esistenza umana. 

Vorrei fare un passo in questa direzione, mettendo in luce come, alle sue origini nel kosmos delle religioni, il cristianesimo stesso ha visto questa sua pretesa. Che io sappia non esiste alcun testo del cristianesimo antico che getti sulla questione tanta luce quanto la discussione di Agostino con la filosofia religiosa del «più erudito tra i romani», Marco Terenzio Varrone (116-27 a. C.). 

Varrone condivideva l’immagine stoica di Dio e del mondo; definì Dio come animam motu ac ratione mundum gubernantem (come «l’anima che regge il mondo tramite il movimento e la ragione»), in altri termini: come l’anima del mondo che i Greci chiamano kosmos: hunc ipsum mundum esse deum. Questa anima del mondo, tuttavia, non riceve culto. Non è oggetto di religio

In altri termini: verità e religione, conoscenza razionale e ordine cultuale sono situati su due piani totalmente diversi. L’ordine cultuale, il mondo concreto della religione, non appartiene all’ordine della res, della realtà come tale, ma a quello dei mores – dei costumi. Non sono gli dei che hanno creato lo Stato, è lo Stato che ha istituito gli dei, la cui venerazione è essenziale per l’ordine dello Stato e per il buon comportamento dei cittadini. La religione è nella sua essenza un fenomeno politico. 

Varrone distingue così tre tipi di “teologia”, intendendo per teologia la ratio, quae de diis explicatur – la comprensione e la spiegazione del divino, potremmo tradurre.
Tali sono la theologia mythica, la theologia civilis e la theologia naturalis. Tramite quattro definizioni egli spiega poi cosa si debba intendere per queste “teologie”.

La prima definizione fa riferimento ai tre teologi associati a queste tre teologie: i teologi della teologia mitica sono i poeti, perché hanno composto canti sugli dei e sono così cantori della divinità. I teologi della teologia fisica (naturale) sono i filosofi, cioè gli eruditi, i pensatori, che, andando al di là delle abitudini, si interrogano sulla realtà, sulla verità; i teologi della teologia civile sono i “popoli”, che hanno scelto di non allearsi ai filosofi (alla verità), ma ai poeti, alle loro visioni poetiche, alle loro immagini e alle loro figure.

La seconda definizione riguarda i luoghi a cui nella realtà sono associate le singole teologie. Alla teologia mitica corrisponde il teatro, che aveva di fatto un rango religioso, cultuale; secondo l’opinione comune, gli spettacoli erano stati istituiti a Roma per ordine degli dei. Alla teologia politica corrisponde la urbs. Lo spazio della teologia naturale sarebbe il kosmos.

La terza definizione designa il contenuto delle tre teologie: la teologia mitica avrebbe per contenuto le favole sugli dei, create dai poeti; la teologia di Stato il culto; la teologia naturale risponderebbe alla domanda su chi sono gli dei.

Vale la pena ora di prestare maggiore attenzione:
«Se – come in Eraclito – essi [gli dei] sono fatti di fuoco o – come in Pitagora – di numeri, o – come in Epicuro – di atomi, e altre cose ancora che le orecchie possono sopportare più facilmente all’interno delle mura scolastiche piuttosto che fuori, sulla pubblica piazza», ne deriva con assoluta chiarezza che questa teologia naturale è una demitologizzazione, o meglio una razionalità, che guarda criticamente cosa c’è dietro l’apparenza mitica e la dissolve attraverso la conoscenza scientifico-naturale. Culto e conoscenza risultano separati l’uno dall’altra. Il culto resta necessario fintanto che è una questione di utilità politica; la conoscenza ha un effetto distruttore sulla religione e non dovrebbe quindi essere messa sulla pubblica piazza.

Infine c’è la quarta definizione.
Il contenuto delle diverse teologie da che tipo di realtà è costituito? La risposta di Varrone è questa: la teologia naturale si occupa della “natura degli dei” (che di fatto non esistono), le altre due teologie trattano dei divina instituta hominum – delle istituzioni divine degli uomini. Ne consegue che tutta la differenza si riduce a quella che c’è tra la fisica nel suo significato antico e la religione cultuale dall’altra parte. «La teologia civile non ha in ultima analisi alcun dio, soltanto la “religione”; la “teologia naturale” non ha religione, ma solo una divinità».

Certo, non può avere nessuna religione, perché al suo dio (fuoco, numeri, atomi) non può essere rivolta la parola in termini religiosi. Così religio (termine che designa essenzialmente il culto) e realtà, la conoscenza razionale del reale, si configurano come due sfere separate, l’una accanto all’altra. La religio non trae la sua giustificazione dalla realtà del divino, ma dalla sua funzione politica. È un’istituzione di cui lo Stato ha bisogno per la sua esistenza.

Indubbiamente ci troviamo qui di fronte ad una fase tardiva della religione, nella quale è infranta l’ingenuità dell’atteggiamento religioso ed è quindi innescata la sua dissoluzione.
Ma il legame essenziale della religione con la compagine statale penetra decisamente molto più in profondità. Il culto è in ultima istanza un ordine positivo che come tale non può essere commisurato al problema della verità. 

Mentre Varrone, nel suo tempo, in cui la funzione politica della religione era ancora sufficientemente forte, per giustificarla come tale poteva ancora difendere una concezione piuttosto cruda della razionalità e dell’assenza di verità del culto motivato politicamente, il neoplatonismo cercherà presto un’altra via di uscita dalla crisi, su cui l’imperatore Giuliano basò poi il suo sforzo per ristabilire la religione romana di Stato. Quello che i poeti dicono sono immagini che non si devono intendere fisicamente; ma sono comunque immagini che esprimono l’inesprimibile per tutti quegli uomini ai quali la via maestra dell’unione mistica è sbarrata. Benché non siano vere come tali, le immagini sono giustificate come approcci a qualcosa che sempre deve restare inesprimibile.

Con ciò abbiamo anticipato qualcosa di quel che diremo. La posizione neoplatonica, infatti, da parte sua è già una reazione contro la presa di posizione cristiana sul problema della fondazione cristiana del culto e del posto della fede che ne è alla base, nella tipologia delle religioni.

Torniamo dunque ad Agostino. Dov’è che egli situa il cristianesimo nella triade varroniana delle religioni? Quello che stupisce è che senza la minima esitazione Agostino attribuisce al cristianesimo il suo posto nell’ambito della “teologia fisica”, nell’ambito della razionalità filosofica. Si trova così in perfetta continuità con i primi teologi del cristianesimo, gli Apologisti del II secolo, e anche con la posizione che Paolo assegna al cristianesimo nel primo capitolo della Lettera ai Romani che, da parte sua, si basa sulla teologia veterotestamentaria della Sapienza e risale, al di là di essa, fino ai Salmi che scherniscono gli dei. Il cristianesimo ha, in questa prospettiva, i suoi precursori e la sua preparazione nella razionalità filosofica, non nelle religioni.

Il cristianesimo non è affatto basato, secondo Agostino e la tradizione biblica, che per lui è normativa, su immagini e presentimenti mitici, la cui giustificazione si trova ultimamente nella loro utilità politica, ma si richiama invece a quel divino che può essere percepito dall’analisi razionale della realtà. In altri termini: Agostino identifica il monoteismo biblico con le vedute filosofiche sulla fondazione del mondo che si sono formate, secondo diverse varianti, nella filosofia antica. È questo che si intende quando il cristianesimo, a partire dal discorso paolino dell’Areopago in poi, si presenta con la pretesa di essere la religio vera. 

Il che significa: la fede cristiana non si basa sulla poesia e la politica, queste due grandi fonti della religione; si basa sulla conoscenza. Venera quell’Essere che sta a fondamento di tutto ciò che esiste, il “vero Dio”.

Nel cristianesimo, la razionalità è diventata religione e non più il suo avversario. Perché ciò avvenisse, perché il cristianesimo si comprendesse come la vittoria della demitologizzazione, la vittoria della conoscenza e con essa della verità, doveva necessariamente considerarsi come universale ed essere portato a tutti i popoli: non come una religione specifica che ne reprime altre in forza di una specie di imperialismo religioso, ma come la verità che rende superflua l’apparenza. 

Ed è proprio questo che nella vasta tolleranza dei politeismi doveva necessariamente apparire come intollerabile, addirittura come nemico della religione, come “ateismo”. Non si fondava sulla relatività e sulla convertibilità delle immagini, disturbava perciò soprattutto l’utilità politica delle religioni, e metteva così in pericolo i fondamenti dello Stato, nel quale non voleva essere una religione tra le altre, ma la vittoria dell’intelligenza sul mondo delle religioni. 

D’altra parte, a questa posizione del cristianesimo nel kosmos di religione e filosofia risale anche la forza di penetrazione del cristianesimo. Già prima dell’inizio della missione cristiana, alcuni circoli colti dell’antichità avevano cercato nella figura del “timorato di Dio” il nesso con la fede giudaica, che appariva loro come una figura religiosa del monoteismo filosofico corrispondente alle esigenze della ragione e allo stesso tempo al bisogno religioso dell’uomo. Bisogno questo a cui la filosofia da sola non poteva rispondere: non si prega un dio solo pensato. Là dove invece il Dio trovato dal pensiero si lascia incontrare nel cuore della religione come un Dio che parla e agisce, il pensiero e la fede sono riconciliati.

In quel nesso con la sinagoga, c’era ancora qualcosa che non soddisfaceva: il non ebreo infatti rimaneva sempre un estraneo, non poteva mai arrivare ad una totale appartenenza. Questo nodo è sciolto nel cristianesimo dalla figura di Cristo, così come la interpretò Paolo. Solo allora il monoteismo religioso del giudaismo era divenuto universale, e quindi l’unità tra pensiero e fede, la religio vera, era divenuta accessibile a tutti.

Giustino il filosofo, Giustino il martire (†167) può servire da figura sintomatica di questo accesso al cristianesimo: aveva studiato tutte le filosofie e alla fine aveva riconosciuto nel cristianesimo la vera philosophia. Era convinto che diventando cristiano non aveva rinnegato la filosofia, ma che solo allora era diventato davvero filosofo. 

La convinzione che il cristianesimo sia una filosofia, la filosofia perfetta, quella che è potuta penetrare fino alla verità, resterà in vigore ancora a lungo dopo l’epoca patristica. È ancora assolutamente attuale nel XIV secolo nella teologia bizantina di Nicolas Cabasilas. Certo, non si intendeva la filosofia come una disciplina accademica di natura puramente teoretica, ma anche e soprattutto, su un piano pratico, come l’arte del ben vivere e del ben morire, che tuttavia può riuscire solo alla luce della verità.

L’unione della razionalità e della fede, che si realizzò nello sviluppo della missione cristiana e nella costruzione della teologia cristiana, portò però correttivi decisivi all’immagine filosofica di Dio, di cui due soprattutto devono essere menzionati.

Il primo consiste nel fatto che il Dio al quale i cristiani credono e che venerano, a differenza degli dei mitici e politici, è davvero natura Deus; in ciò soddisfa le esigenze della razionalità filosofica. Ma nello stesso tempo vale l’altro aspetto: non tamen omnis natura est Deus – non tutto ciò che è natura è Dio. Dio è Dio per sua natura, ma la natura come tale non è Dio. Si crea una separazione tra la natura universale e l’Essere che la fonda, che le dà la sua origine. Solo allora la fisica e la metafisica giungono a una chiara distinzione l’una dall’altra. Solo il vero Dio che possiamo riconoscere, tramite il pensiero, nella natura è oggetto di preghiera. Ma è di più che la natura. La precede, essa è la sua creatura.
A questa separazione tra la natura e Dio si aggiunge una seconda scoperta, ancora più decisiva: il dio, la natura, l’anima del mondo o qualsiasi cosa fosse non si poteva pregare; non era un “dio religioso”, avevamo constatato.

Adesso, ed è quello che già dice la fede dell’Antico Testamento e più ancora quella del Nuovo Testamento, quel Dio che precede la natura si è volto verso gli uomini. Non è un Dio silenzioso proprio perché non è solo natura. È entrato nella storia, è venuto incontro all’uomo, e così adesso l’uomo può incontrarlo. Può legarsi a Dio perché Dio si è legato all’uomo. Le due dimensioni della religione, che erano sempre separate l’una dall’altra, la natura eternamente dominatrice e il bisogno di salvezza dell’uomo che soffre e lotta sono legati l’una all’altro. La razionalità può diventare religione, perché il Dio della razionalità è egli stesso entrato nella religione. L’elemento che la fede rivendica come proprio, la Parola storica di Dio, è infatti il presupposto perché la religione possa ormai volgersi verso il dio filosofico, che non è più un Dio puramente filosofico e che nemmeno ripugna alla conoscenza della filosofia, ma l’assume. 

Qui si manifesta una cosa stupefacente: i due princìpi fondamentali del cristianesimo apparentemente in contrasto, il legame alla metafisica e il legame alla storia, si condizionano e si rapportano l’uno all’altro; costituiscono insieme l’apologia del cristianesimo in quanto religio vera. Se dunque si può dire che la vittoria del cristianesimo sulle religioni pagane fu resa possibile non da ultimo dalla sua pretesa di ragionevolezza, occorre aggiungere che a questo è legato un secondo motivo della stessa importanza.

Consiste innanzitutto, per dirlo in modo assolutamente generale, nella serietà morale del cristianesimo, caratteristica che, del resto, Paolo aveva già allo stesso modo messo in rapporto con la ragionevolezza della fede cristiana: ciò a cui in fondo tende la legge, le esigenze essenziali messe in luce dalla fede cristiana, di un Dio unico per la vita dell’uomo, corrisponde a quel che l’uomo, ogni uomo porta scritto nel cuore, cosicché quando gli si presenta, lo riconosce come Bene. Corrisponde a ciò che «è buono per natura» (Rm 2, 14s). L’allusione alla morale stoica, alla sua interpretazione etica della natura, è qui manifesta tanto quanto in altri testi paolini, per esempio nella Lettera ai Filippesi (Fil 4, 8: «Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri»).

Così la fondamentale (benché critica) unità con la razionalità filosofica, presente nella nozione di Dio, si conferma e si concretizza ora nell’unità, critica anch’essa, con la morale filosofica. Come nel campo del religioso il cristianesimo superava i limiti di una scuola di saggezza filosofica proprio per il fatto che il Dio pensato si lasciava incontrare come un Dio vivente, così qui ci fu un superamento della teoria etica in una praxis morale, comunitariamente vissuta e resa concreta, nella quale la prospettiva filosofica era trascesa e trasposta nell’azione reale, in particolare grazie al concentrare tutta la morale nel duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo.

Il cristianesimo, si potrebbe dire semplificando, convinceva grazie al legame della fede con la ragione e grazie all’orientamento dell’azione verso la caritas, la cura amorevole dei sofferenti, dei poveri e dei deboli, al di là di ogni differenza di condizione. Che fosse questa l’intima forza del cristianesimo lo si può sicuramente e chiaramente vedere nel modo in cui l’imperatore Giuliano cercò di ristabilire il paganesimo in una forma rinnovata. Lui, il pontifex maximus della ristabilita religione degli antichi dei, si mise ad istituire, cosa che non era mai esistita prima, una gerarchia pagana, fatta di sacerdoti e metropoliti. I sacerdoti dovevano essere esempi di moralità; dovevano dedicarsi all’amore di dio (la divinità suprema tra gli dei) e del prossimo. Erano obbligati a compiere atti di carità verso i poveri, non era più permesso loro di leggere le commedie licenziose e i romanzi erotici, e dovevano predicare nei giorni di festa su un argomento filosofico per istruire e formare il popolo. Teresio Bosco dice giustamente, a questo riguardo, che l’imperatore in questo modo cercava, in realtà, non di ristabilire il paganesimo ma di cristianizzarlo – in una sintesi limitata al culto degli dei, di razionalità e religione.

Rivolgendo lo sguardo indietro, possiamo dire che la forza che ha trasformato il cristianesimo in una religione mondiale è consistita nella sua sintesi fra ragione, fede, vita; è precisamente questa sintesi che è sintetizzata nell’espressione religio vera.

E a maggior ragione si impone allora la domanda: perché questa sintesi non convince più oggi? Perché la razionalità e il cristianesimo sono, al contrario, considerati oggi come contraddittori e addirittura reciprocamente esclusivi? Che cosa è cambiato nella razionalità? Che cosa è cambiato nel cristianesimo?

Un tempo il neoplatonismo, in particolare Porfirio, aveva opposto alla sintesi cristiana un’altra interpretazione del rapporto tra filosofia e religione, una interpretazione che intendeva essere una rifondazione filosofica della religione politeista.
Oggi è proprio questo modo di armonizzare la religione e la razionalità che sembra imporsi come la forma di religiosità adatta alla coscienza moderna.
Porfirio formula così la sua prima idea fondamentale: Latet omne verum – la verità è nascosta. Ricordiamoci della parabola dell’elefante, contrassegnata proprio da quella concezione in cui buddismo e neoplatonismo si incontrano. In base alla quale non c’è alcuna certezza sulla verità, su Dio, ma solo opinioni.

Nella crisi di Roma del tardo IV secolo, il senatore Simmaco – immagine speculare di Varrone e della sua teoria della religione – ha riportato la concezione neoplatonica a alcune formule semplici e pragmatiche, che possiamo trovare nel discorso tenuto nel 384 davanti all’imperatore Valentiniano II, in difesa del paganesimo e in favore della ricollocazione della dea Vittoria nel Senato di Roma. Cito solo la frase decisiva divenuta celebre: «È la medesima cosa quella che noi tutti veneriamo, una sola quella che pensiamo, contempliamo le stesse stelle, uno solo è il cielo che sta sopra di noi, è lo stesso il mondo che ci circonda; che cosa importano i diversi tipi di saggezza attraverso i quali ciascuno cerca la verità? Non si può arrivare a un mistero tanto grande attraverso un’unica via».

È esattamente ciò che sostiene oggi la razionalità: la verità in quanto tale non la conosciamo; nelle immagini più diverse, in fondo, miriamo alla medesima cosa. Mistero così grande, il divino non può essere ridotto a una sola figura che esclude tutte le altre, a un’unica via che vincolerebbe tutti. Ci sono molte vie, ci sono molte immagini, tutte riflettono qualche cosa del tutto e nessuna di loro il tutto. L’ethos della tolleranza appartiene a chi riconosce in ciascuna di esse una parte di verità, a chi non pone la sua più in alto delle altre e si inserisce tranquillamente nella sinfonia polimorfa dell’eterno Inaccessibile. Esso in realtà si vela dietro a simboli, ma questi simboli sembrano non di meno l’unica nostra possibilità di arrivare in una certa maniera alla divinità.

La pretesa del cristianesimo di essere la religio vera sarebbe dunque superata dal progresso della razionalità? È dunque costretto ad abbassare le sue pretese e a inserirsi nella visione neoplatonica o buddista o indù della verità e del simbolo, a contentarsi, come aveva proposto Ernst Troeltsch, di mostrare della faccia di Dio la parte rivolta verso l’Europa? Si deve forse fare un passo in più di Troeltsch, che considerava ancora il cristianesimo la religione adatta all’Europa, tenendo conto del fatto che oggi l’Europa stessa dubita che sia adatta?

Questa è la vera domanda alla quale oggi la Chiesa e la teologia devono far fronte.
Tutte le crisi all’interno del cristianesimo che osserviamo ai giorni nostri si basano di fatto solo secondariamente su problemi istituzionali.

I problemi delle istituzioni così come delle persone nella Chiesa derivano ultimamente da questa questione, e dall’enorme peso che essa ha. Nessuno si aspetterà, alla fine del secondo millennio cristiano, che questa provocazione fondamentale trovi, anche solo lontanamente, risposta definitiva in una conferenza. Non può assolutamente trovare risposte puramente teoriche, così come la religione, in quanto attitudine ultima dell’uomo, non è mai solo teoria. Esige quella combinazione di conoscenza e di azione, su cui era fondata la forza persuasiva del cristianesimo dei Padri.



(Gesù risorto e gli apostoli sul lago di Tiberiade)

Ciò non significa in nessun modo che ci si possa sottrarre all’urgenza che il problema ha dal punto di vista intellettuale, rinviando alla necessità della prassi.

Cercherò, per finire, solo di aprire una prospettiva che potrebbe indicare la direzione.
Abbiamo visto che l’originaria unità relazionale, tuttavia mai completamente acquisita, tra razionalità e fede, alla quale infine Tommaso d’Aquino dette una forma sistematica, è stata lacerata meno dallo sviluppo della fede che dai nuovi progressi della razionalità. Come tappe di questa mutua separazione si potrebbero citare Descartes, Spinoza, Kant.

La nuova sintesi inglobante che Hegel tenta non restituisce alla fede il suo posto filosofico, ma tende a convertirla in ragione ed eliminarla come fede.

A questa assolutizzazione dello spirito, Marx oppone l’unicità della materia; la filosofia deve allora essere completamente ricondotta alla scienza esatta. Solo l’esatta conoscenza scientifica è conoscenza. Con ciò è congedata l’idea del divino.

La profezia di Auguste Comte, che disse che un giorno ci sarebbe stata una fisica dell’uomo e che le grandi domande finora lasciate alla metafisica in futuro sarebbero state trattate “positivamente” come tutto ciò che già oggi è scienza positiva, ha lasciato un’eco impressionante nel nostro secolo, nelle scienze umane. La separazione tra la fisica e la metafisica operata dal pensiero cristiano è sempre più abbandonata. Tutto deve ridiventare “fisica”.

La teoria evoluzionistica si è andata cristallizzando come la strada per far sparire definitivamente la metafisica, per rendere superflua l’«ipotesi di Dio» (Laplace) e formulare una spiegazione del mondo strettamente “scientifica”. Una teoria evoluzionistica che spieghi in modo inglobante l’insieme di tutto il reale è diventata una specie di “filosofia prima” che rappresenta per così dire l’autentico fondamento della comprensione razionale del mondo.

Ogni tentativo di fare entrare in gioco cause diverse da quelle che una teoria “positiva” elabora, ogni tentativo di “metafisica” appare necessariamente come una ricaduta al di qua della ragione, come un decadere dalla pretesa universale della scienza. Anche l’idea cristiana di Dio è necessariamente considerata come non scientifica. A quest’idea non corrisponde più nessuna theologia physica: l’unica theologia naturalis è, in questa visione, la dottrina evoluzionistica, ed essa non conosce proprio alcun Dio, né alcun Creatore nel senso del cristianesimo (del giudaismo e dell’islam), né alcuna anima del mondo o dinamismo interiore nel senso della Stoa. 

Eventualmente si potrebbe, in senso buddista, considerare il mondo intero come un’apparenza, e il nulla come l’autentica realtà, e giustificare in questo senso le forme mistiche di religione che almeno non sono in diretta concorrenza con la ragione. È così detta l’ultima parola? La ragione e il cristianesimo sono così definitivamente separati l’una dall’altro? 

Comunque stiano le cose, non viene discussa la portata della dottrina evoluzionistica come filosofia prima e l’esclusività del metodo positivo come unico tipo di scienza e di razionalità. Occorre che questa discussione venga iniziata da entrambe le parti con serenità e disponibilità ad ascoltare, cosa che finora è accaduta solo in modo debole. 

Nessuno potrebbe mettere seriamente in dubbio le prove scientifiche dei processi microevolutivi. Reinhard Junker e Sieghfried Scherer dicono a questo proposito nel loro Kritisches Lehrbuch sull’evoluzione: «Tali fenomeni [i processi microevolutivi] sono ben conosciuti a partire dai processi naturali di variazione e di formazione. Il loro esame per mezzo della biologia evolutiva portò a conoscenze significative a proposito della capacità strabiliante di adattamento dei sistemi viventi». Dicono in questo senso che si può a ragione caratterizzare la ricerca sull’origine come la disciplina regina della biologia.

La domanda che un credente può porsi di fronte alla ragione moderna non è su questo, ma sull’estensione di una philosophia universalis che ambisce a diventare una spiegazione generale del reale e tende a non consentire più nessun altro livello di pensiero. Nella stessa dottrina evoluzionistica il problema si presenta quando si passa dalla micro alla macroevoluzione, passaggio a proposito del quale Szamarthy e Maynard Smith, entrambi sostenitori di una teoria evoluzionistica ricomprensiva, ammettono anche loro: «Non ci sono motivi teorici che lascino pensare che delle linee evolutive aumentino in complessità col tempo; non ci sono neanche prove empiriche che ciò avvenga». 

La domanda che ora bisogna porre va più in profondità: si tratta di sapere se la dottrina evoluzionistica può presentarsi come una teoria universale di tutto il reale, al di là della quale le ulteriori domande sull’origine e la natura delle cose non sono più lecite né necessarie, o se domande ultime del genere non superino il campo della pura ricerca scientifico-naturale.

Vorrei porre la domanda in modo ancora più concreto.
Dice veramente tutto una risposta come quella che troviamo, per esempio, nella seguente formulazione di Popper: «La vita, come noi la conosciamo, consiste di “corpi” fisici (meglio: di processi e strutture) che risolvono problemi. Che le diverse specie hanno “imparato” tramite la selezione naturale, cioè tramite il metodo di riproduzione più variazione; metodo che, da parte sua, fu imparato secondo lo stesso metodo. È una regressione, ma non è infinita…»? Non credo proprio.
In fin dei conti si tratta di un’alternativa che non si può più risolvere semplicemente né a livello delle scienze naturali e in fondo neanche della filosofia.

Si tratta di sapere se la ragione, o il razionale, si trova o no al principio di tutte le cose e a loro fondamento. Si tratta di sapere se il reale è nato sulla base del caso e della necessità (o, con Popper, d’accordo con Butler del Luck and Cunning [caso felice e previsione]), e quindi da ciò che è senza ragione, se, in altri termini, la ragione è un casuale prodotto marginale dell’irrazionale, insignificante, alla fine, nell’oceano dell’irrazionale, o se resta vera quella che è la convinzione fondamentale della fede cristiana e della sua filosofia: In principio erat Verbum – al principio di tutte le cose c’è la forza creatrice della ragione.

La fede cristiana è oggi come ieri l’opzione per la priorità della ragione e del razionale.
Questa domanda ultima non può più, come già si è detto, essere risolta tramite argomenti tratti dalle scienze naturali, e il pensiero filosofico stesso qui si blocca. In questo senso non si può fornire alcuna prova ultima dell’opzione cristiana fondamentale. Ma la ragione può, ultimamente, senza rinnegare se stessa, rinunciare alla priorità del razionale sull’irrazionale, al Logos come principio primo? 

Il modello ermeneutico offerto da Popper, che rientra sotto diverse forme in altre presentazioni della “filosofia prima”, dimostra che la ragione non può che pensare anche l’irrazionale secondo la sua misura, e quindi razionalmente (risolvere problemi, elaborare metodi!), ristabilendo così implicitamente proprio il primato contestato della ragione. Con la sua opzione a favore del primato della ragione, il cristianesimo resta ancora oggi “razionalità”, e penso che una razionalità che si sbarazzi di questa opzione significherebbe per forza, contrariamente alle apparenze, non un’evoluzione ma un’involuzione della razionalità.

Abbiamo visto in precedenza che nella concezione del primo cristianesimo le nozioni di natura, uomo, Dio, ethos e religione erano indissolubilmente connesse l’una all’altra e che quel nesso aveva proprio aiutato il cristianesimo a vederci chiaro nella crisi degli dei e nella crisi dell’antica razionalità. L’orientarsi della religione verso una visione razionale del reale, l’ethos come parte di questa visione e la sua applicazione concreta sotto il primato dell’amore, si associarono l’uno all’altro. 

Il primato del Logos e il primato dell’amore si rivelarono identici. Il Logos non apparve più solo come ragione matematica alla base di tutte le cose ma come amore creatore fino a diventare com-passione verso la creatura. La dimensione cosmica della religione che venera il Creatore nella potenza dell’essere, e la sua dimensione esistenziale, la questione della redenzione, si compenetrarono e divennero una cosa sola. Di fatto, una spiegazione del reale che non può in modo sensato e comprensivo fondare un ethos resta necessariamente insufficiente.

Ora, è un fatto che la teoria evoluzionistica, là dove rischia di allargarsi in philosophia universalis, tenta di fondare un nuovo ethos sulla base dell’evoluzione. Ma questo ethos evoluzionistico, che trova ineluttabilmente la sua nozione chiave nel modello della selezione, e quindi nella lotta per la sopravvivenza, nella vittoria del più forte, nell’adattamento riuscito, ha poco di consolante da offrire. Anche là dove si cerchi di abbellirlo in vari modi, resta ultimamente un ethos crudele. Lo sforzo per distillare il razionale a partire da una realtà insensata in se stessa fallisce qui in modo lampante. Tutto ciò serve a ben poco per quello di cui abbiamo bisogno: un’etica della pace universale, dell’amore pratico del prossimo e del necessario andare oltre il particolare. Il tentativo di ridare, in questa crisi dell’umanità, un senso comprensibile alla nozione di cristianesimo come religio vera deve, per così dire, puntare ugualmente sull’ortoprassia e sull’ortodossia.

Al livello più profondo il suo contenuto dovrà consistere, oggi – come sempre, in ultima analisi –, nel fatto che l’amore e la ragione coincidono in quanto veri e propri pilastri fondamentali del reale: la ragione vera è l’amore e l’amore è la ragione vera. Nella loro unità essi sono il vero fondamento e lo scopo di tutto il reale.







Un vescovo corregge il Papa: «Molte religioni sbagliate, solo Cristo salva»



«Non tutte le religioni cercano lo stesso Dio e alcune sono sbagliate. Solo Cristo salva». Dopo le parole di Francesco a Singapore il vescovo emerito di Filadelfia è il primo a correggerlo: «Commenti vaghi possono solo confondere. Suggerire che i cattolici percorrano un cammino più o meno simile a quello delle altre religioni verso Dio svuota il martirio del suo significato».


Reazione a Francesco

Ecclesia 


Nico Spuntoni, 18-09-2024

«Tutte le religioni sono un cammino per arrivare a Dio. Sono... come diverse lingue, diversi idiomi, per arrivare lì. Ma Dio è Dio per tutti. E... noi siamo tutti figli di Dio. “Ma il mio Dio è più importante del tuo!”. È vero questo? C’è un solo Dio». Le parole del Papa al Catholic Junior College di Singapore durante un incontro interreligioso continuano a far discutere nel mondo cattolico.

In queste 48 ore è arrivato l'intervento di un vescovo e non di uno qualsiasi: monsignor Charles Joseph Chaput. L'arcivescovo emerito di Filadelfia ha scelto le pagine di "First Things" per rimettere la chiesa al centro del villaggio sull'argomento affrontato dal Papa. La premessa di Chaput è che i «suoi commenti (del Pontefice, ndr) erano estemporanei, naturalmente mancavano della precisione che un testo preparato normalmente possiede, e quindi si spera che ciò che ha detto non sia esattamente ciò che intendeva».

L'arcivescovo non nasconde un certo disappunto nell'osservare come «Francesco ha l'abitudine, ormai consolidata, di dire cose che lasciano gli ascoltatori confusi e spinti a sperare che intendesse qualcosa di diverso da ciò che ha effettivamente detto». Tra i critici per le dichiarazioni papali, c'è chi si è chiesto se Francesco non abbia "licenziato" Cristo. Nel Vangelo di Giovanni, Gesù dice: «Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me».

Chaput ha così commentato le esternazione di Singapore: «Che tutte le religioni abbiano lo stesso peso è un'idea straordinariamente imperfetta che il Successore di Pietro sembra sostenere. È vero che tutte le grandi religioni esprimono un desiderio umano, spesso con bellezza e saggezza, per qualcosa di più di questa vita. Gli esseri umani hanno bisogno di adorare. Quel desiderio sembra essere cablato nel nostro DNA. Ma non tutte le religioni sono uguali nel loro contenuto o nelle loro conseguenze».

Le riflessioni dell'arcivescovo sono fedeli a quanto afferma il Concilio Vaticano II che nella "Nostra Aetate" ammette come «Dai tempi più antichi fino ad oggi presso i vari popoli si trova una certa sensibilità a quella forza arcana che è presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita umana, ed anzi talvolta vi riconosce la Divinità suprema o il Padre. Questa sensibilità e questa conoscenza compenetrano la vita in un intimo senso religioso». Gli insegnamenti conciliari riconoscono «che la Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni» ma «annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo» citando il passaggio già visto del Vangelo di Giovanni.

Chaput, contrariamente alla versione riportata del discorso del Papa, sentenzia nel suo articolo che «non tutte le religioni cercano lo stesso Dio e alcune sono sbagliate e potenzialmente pericolose, sia materialmente che spiritualmente». Il presule americano mette i puntini sulle "i" quando afferma che «i cattolici credono che Gesù Cristo, una volta e per sempre, abbia rivelato a tutta l'umanità chi è Dio. Ci ha redenti con la sua morte e resurrezione e ci ha dato l'incarico di portare tutta l'umanità a lui. Come la nostra fede insegna molto chiaramente, è solo Gesù Cristo che salva. Cristo non è semplicemente uno tra gli altri grandi maestri o profeti».

Dopo aver ribadito gli insegnamenti di sempre, l'intervento di Chaput non rinuncia ad invitare il Santo Padre ad una maggiore cautela nell'esprimersi. «Suggerire, anche vagamente, che i cattolici percorrano un cammino più o meno simile a quello delle altre religioni verso Dio svuota il martirio del suo significato. Perché rinunciare alla propria vita per Cristo quando altri cammini possono condurci allo stesso Dio? Un simile sacrificio sarebbe insensato», ha scritto l'arcivescovo. Più direttamente, Chaput scrive che «il vescovo di Roma è il capo spirituale e istituzionale della Chiesa cattolica. Ciò significa, tra le altre cose, che ha il dovere di insegnare la fede in modo chiaro e di predicarla evangelicamente. Commenti vaghi possono solo confondere. Tuttavia, troppo spesso, la confusione infetta e mina la buona volontà di questo pontificato».

In passato, quando un caso simile c'era stato per la menzione della «diversità delle religioni (...) sapiente volontà divina» contenuta nella Dichiarazione di Abu Dhabi, monsignor Athanasius Schneider, ausiliare di Astana aveva chiesto chiarimenti de visu al Papa in un'udienza in Vaticano. Francesco aveva accolto questa manifestazione di parresia, rispondendo: «Potete dire che la frase in questione sulla diversità delle religioni significa la volontà permissiva di Dio». Ed aveva puntualizzato anche in pubblico in un'udienza generale a San Pietro, spiegando: «Perché Dio permette che ci siano tante religioni? Dio ha voluto permettere questo: i teologi della Scolastica facevano riferimento alla voluntas permissiva di Dio. Egli ha voluto permettere questa realtà». Vedremo se, alla luce del netto intervento di Chaput, ci sarà un chiarimento anche sulle dichiarazioni di Singapore.






Il Sinodo farsa ridefinisce i peccati secondo una logica politica



Peccato di "dottrina usata come pietra da scagliare contro" e peccato contro la sinodalità. Ma anche contro i migranti. La seconda sessione del Sinodo apre a contenuti politici o ideologici per chiamare peccato quanto magari è invece buon senso. Dovremo chiedere perdono per aver richiamato qualche principio dottrinale confutando chi lo vuole cambiare?


La seconda sessione

Ecclesia 


Stefano Fontana, 18-09-2024

Il Sinodo sulla sinodalità sta tornando. I lavori in aula di questa seconda sessione dal titolo «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione» si svolgeranno dal 2 al 27 ottobre. Già nei giorni precedenti, però, i sinodali parteciperanno nella basilica di San Pietro a due appuntamenti: un ritiro spirituale che si protrarrà per due giorni (dal 30 settembre al 1 ottobre), e poi una Liturgia penitenziale che, secondo le indicazioni della Segreteria generale del Sinodo, prevede la confessione pubblica di alcuni peccati così elencati: contro la pace; il creato, le popolazioni indigene, i migranti; contro gli abusi; contro le donne, la famiglia, i giovani; contro il peccato della dottrina usata come pietra da scagliare contro; la povertà, la sinodalità ossia mancanza dell’ascolto, della comunione e partecipazione di tutti.

Questo Sinodo non gode di buona salute. Una ricerca demoscopica, subito cancellata dal Vaticano, aveva attestato che la grande maggioranza degli intervistati non si attendeva niente di buono dal sinodo. La fragilità teologica su cui pretende di fondarsi, le tattiche di politica ecclesiastica di cui è fatto oggetto, la prassi di un dialogo pilotato e includente e, soprattutto, la percezione che il suo punto di arrivo sia stato già deciso e che tutti questi percorsi siano strumentali hanno fatto adoperare la parola “farsa”. Ci si avvicina, quindi, alla seconda sessione con una certa stanchezza.

Il Sinodo sulla sinodalità si dimostra una forzatura, uno strumento per far evolvere la prassi ecclesiale verso qualcosa di nuovo senza dirlo, un progetto pratico per inserire una nuova sensibilità, un modo di fare che cambi il modo di essere, un modo di sentire che cambi il modo di pensare la fede. Come abbiamo già osservato altrove, ciò è evidente anche nell’Instrumentum laboris redatto per questa seconda sessione, e ne troviamo conferma in quel farsesco elenco di peccati di cui chiedere perdono nella Liturgia penitenziale del 1 ottobre.

I peccati qui elencati mancano di forma, non hanno la fattispecie, per cui il fedele non è in grado di valutare cosa significhi peccare nel senso di quei peccati. La forma del furto è appropriarsi di una cosa altrui. Ma qual è la forma del peccato contro i popoli primitivi o contro gli immigrati? Non ci si può pentire e chiedere perdono di qualcosa che non si riesce a definire e, quindi, a valutare. Peccare contro la pace, il creato, le popolazioni indigene, i migranti … in generale, senza valutare i contenuti dell’azione, le circostanze e le intenzioni, risulta superficiale e moralmente non indicativo. C’è di più: apre facilmente le porte a contenuti politici o ideologici e, alla loro luce, finisce per chiamare peccato quanto magari è invece buon senso.

Nell’elenco della Liturgia penitenziale appaiono incomprensibili soprattutto due peccati: quello della “dottrina usata come pietra da scagliare contro” e quello contro la sinodalità. Quella espressione sulla dottrina è stata adoperata, come noto, più volte da Francesco, ma altro non è che uno slogan, una frase ad effetto che risulta difficilmente traducibile in un linguaggio teologico. È una frase polemica, per colpire qualcuno, per stigmatizzare ogni atteggiamento di fedeltà alla dottrina contro le minacce di una pastorale avventata, un modo di dire la priorità della prassi sulla dottrina senza affermarlo esplicitamente, o per liquidare quanti ritengono che i fondamenti dottrinali non cambino mai.

La frase che pretende di esprimere questo peccato segue la stessa logica della lotta agli hate speeches, ai discorsi d’odio, che in fondo è un modo per colpevolizzare chi dice verità che non garbano al potere. Oppure assomiglia alla condanna delle fake news: il potere è il primo ad adoperarle, poi però chiama alla lotta contro di esse quando esprimono verità sgradite. Spesso le fake news sono le uniche verità che si sentano. Dovremo chiedere perdono per aver richiamato qualche principio dottrinale confutando chi lo vuole cambiare? Chi ricorda le verità di sempre sarà assimilato ad un lanciatore di pietre?

Ancora più farsesco è il peccato contro la sinodalità. Se c’è un punto chiaro sulla sinodalità è che nessuno sa cosa sia. Lo stesso establishment ecclesiastico afferma che la sua natura è di essere processo: non abbiamo un Sinodo, siamo Sinodo e quindi siamo processo e percorso, e sarà durante questo percorso che scopriremo, ma mai definitivamente, cosa sia la sinodalità. Essa non avrà una forma definita, ma sarà una prassi da sperimentare.

Su queste basi come si può stabilire un peccato contro la sinodalità? Quando l’autorità stabilisse che questa o quest’altra azione è peccato contro la sinodalità, il processo sinodale si sarà nel frattempo evoluto e a peccare contro di essa potrebbero allora essere i censori. Quando si assume una logica storicistica – come fa la sinodalità come processo -, niente è più peccato, perché quando il peccato viene visto come tale lo si è già superato e non c’è più.







martedì 17 settembre 2024

Il cristiano può utilizzare il turpiloquio?







Posted By: admin 17 Settembre 2024


No, il turpiloquio non è lecito per un cristiano e ciò per almeno due motivi: il primo è di carattere teologico, il secondo di carattere antropologico.

Motivo teologico. Gesù ha mai espresso parole volgari? Ovviamente no. Dunque, al cristiano non è lecito pronunciare parole volgari, in quanto egli ha l’obbligo di prendere come modello Gesù. Basterebbe questo per capire come al cristiano non sia affatto lecito scadere nel turpiloquio.

Motivo antropologico. L’uomo è uno spirito incarnato, cioè un’unione di spirito e corpo, laddove lo spirito è chiamato a governare il corpo e non il contrario. Ciò vuol dire che nessuna parte del corpo, nemmeno la lingua (nel senso del parlare) può sfuggire alla sovranità dell’anima. Se l’anima deve essere nell’ordine, anche la lingua deve esprimere l’ordine; se l’anima deve essere nella purezza, anche la lingua deve esprimere la purezza. In Matteo 12,34 si legge: La bocca parla della pienezza del cuore. San Paolo dice agli Efesini (4,29): Nessuna parola cattiva esca dalla vostra bocca, ma piuttosto parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano. E sempre agli Efesini (4,29) l’Apostolo ribadisce: Quanto alla fornicazione e ad ogni specie d’impurità o cupidigia, neppure se ne parli tra voi, come si addice ai santi; lo stesso si dica per le volgarità, insulsaggini, trivialità, cose tutte sconvenienti. Anche san Giacomo a riguardo può aiutarci a capire, egli scrive nella sua Lettera (1,26): Se qualcuno pensa di essere religioso, ma non frena la lingua e inganna così il suo cuore, la sua religione è vana. Ancora (3,2): Se uno non manca nel parlare, è un uomo perfetto, capace di tenere a freno anche tutto il corpo.

Concludendo, non può valere la giustificazione che i tempi sono cambiati, per cui ci si deve pur adattare. No, il cristiano non può cedere al mondo o alle mode. Deve testimoniare il modello di Cristo. Dunque, le cosiddette “parolacce” non sono lecite, sono un’offesa a Dio, anche se in genere si tratta di un peccato che non eccede la venialità.







Nella preghiera basta solo la qualità o ci vuole anche la quantità?






Posted By: admin 17 Settembre 2024


Prima di rispondere, facciamo una distinzione importante tra atto di preghiera e stato di preghiera. 

L’atto di preghiera è la preghiera in quanto tale, lo stato di preghiera è conservare lo spirito della preghiera durante tutta la giornata. 

Riguardo l’atto di preghiera va detto che non si deve pregare né troppo né poco. San Tommaso dice che la preghiera deve durare tanto quanto è utile per eccitare il fervore e la devozione: né più, né meno.

Bisogna, pertanto, evitare l’eccesso ma anche la negligenza.

Attenzione però: il fervore non è la consolazione, ma la fedeltà. Se non si avverte nulla durante la preghiera, o addirittura si vive l’aridità, ciò non significa che non ci sia il fervore e non si cresca spiritualmente, anzi. 

Detto questo, bisogna aggiungere che si deve stare attenti a quell’espressione oggi molto diffusa: più che la quantità della preghiera, è importante la qualità. 

E’ un’espressione che non solo può portare fuori strada, ma è anche facilmente confutabile. 

Un noto teologo contemporaneo, padre Serafino Tognetti, giustamente ha detto in una sua catechesi che tutti possono rendersi conto se sta pregando troppo o sta pregando poco, ma nessuno può sapere se sta pregando bene. 

A riguardo Tognetti utilizza questa felice immagine: nella preghiera si è come garzoni che portano il materiale e poi c’è il bravo costruttore (lo Spirito Santo) che utilizza tutto per fare il fabbricato. Se il materiale è poco, il fabbricato sarà piccolo. Se il materiale è molto, il fabbricato sarà grande. 

Ovviamente -lo ripetiamo- il tempo della preghiera va regolato sul proprio stato di vita. Una madre di famiglia non può pregare come una suora di clausura…né una suora di clausura come una madre di famiglia.






lunedì 16 settembre 2024

Come cambia (purtroppo) la teologia morale cattolica








Di Stefano Fontana, 16 Set 2024


Nei suoi Appunti sulla Chiesa e gli abusi dell’11 aprile 2019, Joseph Ratzinger aveva indicato la causa principale di questo triste fenomeno nel “collasso della teologia morale” che da tempo avrebbe perso il rapporto con il diritto naturale. A seguito del sinodo sulla famiglia del 2014-2015 e della successiva Esortazione apostolica Amoris laetitia si ritiene possibile l’ammissione alla Comunione dei divorziati conviventi o risposati, modificando così la dottrina tradizionale sull’adulterio. Nella Chiesa è anche in atto un ripensamento radicale della dottrina morale cattolica su omosessualità e transessualità. La benedizione delle coppie omosessuali è già in corso da tempo con una posizione sostanzialmente aperturista del supremo magistero, il quale appoggia spesso con i fatti una nuova morale sessuale alternativa. L’illiceità morale della contraccezione stabilita dall’enciclica Humanae vitae di Paolo VI, finora considerata irriformabile, viene rimessa in discussione. L’Istituto Giovanni Paolo II, fondato da papa Wojtyla per promuovere gli studi su matrimonio e famiglia, la più importante istituzione accademica della Chiesa per la morale coniugale, è stato demolito e ristrutturato secondo linee opposte alla sua storia. In applicazione del principio di inclusione generalizzata, la fase attualmente in corso del sinodo sulla sinodalità potrebbe confermare le nuove prassi alternative viste sopra che sono comunque già in atto.

Da questi pochi esempi emerge che nella Chiesa è in corso una sostanziale trasformazione della morale naturale e cattolica. Non si tratta di cosa nuova. Rahner, Häring, Fuchs, Demmer, Küng l’hanno impostata e portata avanti da tempo. Per l’Italia, Chiavacci, Piana, Angelini, Fumagalli, Chiodi l’hanno sviluppata. Naturalmente insieme a tanti altri. Ma quali sono le principali novità della nuova morale cattolica? Esse riguardano non i dettagli ma l’impianto stesso della teologia morale, per questo si può parlare di una “nuova” teologia morale cattolica.

Un primo punto importante riguarda la conoscibilità della norma morale. L’oggetto dell’azione da cui l’atto riceve la specie e il fine che determina formalmente l’azione stessa sono sempre stati ritenuti conoscibili. Come l’intelletto è in grado di conoscere intenzionalmente l’essenza di una cosa, l’uomo o l’albero che sia, così è capace di cogliere la forma di una azione e dire per esempio cosa è il furto (impossessarsi di una cosa non propria) o cosa è l’omicidio (l’uccisione di una persona innocente). La ragione pratica, che guida l’azione, è una estensione della ragione teoretica, quella che conosce l’essere e, quindi, il bene. Ora, la nuova morale ritiene, invece, che ciò sia impossibile e accusa la precedente morale di razionalismo e astrattezza. L’uomo ora è pensato sempre dentro un contesto che lo condiziona, influenzato da vari elementi portati alla luce dalle scienze umane, strutturalmente limitato nel conoscere e addirittura incapace di sapere con chiarezza quando sia in peccato. Questo rovesciamento di prospettiva colloca la morale nella storia e rifiuta il riferimento ad un piano naturale della norma morale. Per farlo deve riferirsi ad una nuova visione dell’uomo, per esempio deve rivedere il primato dell’intelletto nel campo della conoscenza. Deve anche riferirsi ad un nuovo paradigma filosofico complessivo, rifiutando l’approccio metafisico alla realtà e sostituendolo con quello esistenziale, storico, processuale o addirittura vitalista. Dato che l’uomo che si interroga sul bene e sul male è parte di quel suo domandare, non è fuori o sopra, egli sarà sempre coinvolto nella risposta che quindi non sarà mai oggettiva ma sempre anche soggettiva. Per la nuova teologia morale non si può definire la natura morale o immorale di un’azione senza rapporto ad una esperienza. Essa assume la prospettiva filosofica (nominalista) del caso per caso.

Da questa impostazione della conoscenza deriva la nuova concezione della coscienza morale. Il termine coscienza ha due significati connessi tra loro: indica la consapevolezza del soggetto, la presenza di sé a se stessi, e poi, quando compiamo un’azione, indica la consapevolezza che siamo noi ad agire e, quindi, la responsabilità morale di compiere (o non compiere) quella azione. Per la morale cattolica tradizionale, la coscienza è un atto della ragione pratica che applica la norma morale universale ad una situazione particolare con l’intento di fare il massimo di bene. Essa non contribuisce alla formulazione della norma, ma solo la applica, il che non vuol dire che non sia creativa: la coscienza è creativa, nel senso che deve trovare la via per trarre da quella azione il massimo bene, dato che il bene si può fare in molti modi. Per la nuova teologia morale, invece, la coscienza contribuisce alla formulazione della norma e quindi è da ritenersi creativa in ben altro senso. Come visto sopra, una norma non situata e solo da applicare viene accusata di riferirsi ad un pensiero astratto e ideologico. Tutte le norme morali, secondo la nuova prospettiva, vanno intese come storicamente contestualizzate, e quindi la coscienza non solo le applica ma anche le co-produce dall’interno della storia stessa.

Questa visione della coscienza ha una conseguenza molto importante nel negare la dottrina morale circa le azioni intrinsecamente cattive. Per la tradizione ci sono azioni (intrinsece mala) che non sono ordinabili al fine ultimo quindi non si devono mai compiere in nessuna circostanza. Non esiste una intenzione dell’agente o una circostanza capace di trasformarle in bene. Questa dottrina morale fonda poi l’altra, detta dei “principi non negoziabili”, che ne illustra le conseguenze in campo politico e che pure è stata abbandonata o negata. La dottrina circa l'esistenza di azioni cattive per essenza era presente anche prima del cristianesimo (Socrate, Antigone), essa appartiene al patrimonio della legge morale naturale ed è confermata dalla Rivelazione cristiana. La legge nuova del Vangelo non elimina questa dottrina ma la perfeziona. La nuova impostazione della morale non può però ammettere questo tipo di azioni, perché il lavoro della coscienza non è mai pensato solo come ricettivo, ma come attivo e spetterà sempre alla coscienza, o perlomeno “anche” alla coscienza, stabilire la gravità dell’azione, che non è più data solo da oggetto e fine. Se prima si pensava che la coscienza avesse discrezionalità solo davanti ad azioni buone e non ad azione intrinsecamente cattive, ora si ritiene che essa abbia discrezionalità davanti a tutte le azioni, buone o cattive che siano.

Proprio qui emerge il nuovo concetto di “discernimento”, oggi tanto usato quanto abusato. Il caso più noto a questo proposito è la possibilità, stabilita da Francesco nientemeno che come magistero autentico, che dopo una fase di discernimento il divorziato e convivente possa accedere alla Comunione. Il discernimento in questo caso assume un nuovo volto. Non è più l’esercizio della virtù della prudenza con cui la coscienza cerca di capire la strada migliore per fare il bene nella situazione particolare e concreta, anche consigliandosi con i saggi, ma diventa l’esame della nuova situazione (di convivenza senza matrimonio) per vedere se sia voluta da Dio come il bene da compiere in quel momento. Il discernimento, così, comporta che il giudizio finale sia affidato comunque sempre alla coscienza soggettiva, che si ritiene in dovere di cambiare la valutazione morale oggettiva tramite una soggettiva. Ritornano il caso per caso e il mix di oggettivo e soggettivo, però alla fine con una prevalenza del secondo.

Abbiamo appena parlato delle circostanze che diventano eccezioni. Questo è un altro aspetto importante del cambiamento in atto nella teologia morale cattolica. Le circostanze (chi, che cosa, dove, con quali mezzi, in che modo, quando) sono gli accidenti individuanti dell’atto umano. Indicano le situazioni concrete e contingenti in cui avviene l’azione. Esse sono accidentali e non sostanziali, ossia non cambiano la natura dell’azione. Se si uccide qui piuttosto che lì, se ad uccidere sia tu oppure io, sempre di omicidio si tratterebbe. Le circostanze possono avere un peso nel valutare la responsabilità di chi agisce, ma non per stabilire la natura buona o cattiva dell’azione. In qualche caso esse possono anche aggravare l’azione compiuta: rubare in una chiesa è più grave che rubare in altro luogo perché chi lo fa non è solo ladro ma soprattutto un sacrilego, uccidere per legittima difesa non è come farlo per aggressione, ma non hanno il potere di trasformare in buona un’azione cattiva. Per la nuova teologia morale, invece, le circostanze possono creare un’altra norma, diversa dalla precedente. Le circostanze così possono fare dell’adulterio una prassi moralmente corretta e, anzi, dovuta. Questo rientra nella nuova impostazione storicistica segnalata sopra, per la quale tutto è processo e le situazioni di vita del soggetto costituiscono il punto di partenza per il giudizio morale, contribuendo così a costituire la norma etica.

Ritengo che queste siano i principali caratteri della nuova teologia morale, Nessun dubbio sulla loro novità rispetto alla tradizione, dato che su questi punti la Veritatis splendor di Giovanni Paolo II dice esattamente il contrario.








domenica 15 settembre 2024

Mons. Strickland: “L’unica via per arrivare a Dio Padre è attraverso Suo Figlio Gesù Cristo”. “Negare questo è negare la fede cattolica, questa si chiama eresia”.


Il vescovo Joseph Strickland di Tyler, Texas, USA


Di seguito segnalo all’attenzione e alla riflessione dei lettori di questo blog l’articolo scritto da Michael Haynes, pubblicato su Lifesitenews. Ecco l’articolo nella traduzione curata da Sabino Paciolla, 15 Settembre 2024.



Michael Haynes

Il vescovo Joseph Strickland ha avvertito che negare Cristo come “unica via per Dio” è un rifiuto del cattolicesimo e “si chiama eresia”.

Pubblicando un breve messaggio su X/Twitter venerdì, il vescovo emerito di Tyler Joseph Strickland ha dato quella che sembra essere una risposta pubblica ai controversi commenti di Papa Francesco all’inizio della giornata sull’autenticità religiosa.

“Questo è ciò che la Chiesa cattolica insegna riguardo all’unicità di Gesù Cristo”, ha scritto Strickland, collegandosi al documento vaticano Dominus Jesus dell’agosto 2000.

“L’unica via per arrivare a Dio Padre è attraverso Suo Figlio Gesù Cristo”, ha continuato Strickland. “Negare questo è negare la fede cattolica, questa si chiama eresia”.

“Vi prego di pregare affinché Papa Francesco affermi chiaramente che Gesù Cristo è l’unica Via. Negare questo è negare Lui. Se neghiamo Cristo, Lui ci negherà, non può negare se stesso”, ha scritto Strickland in un altro post sui social media.

I suoi commenti sono una risposta alle osservazioni fatte da Papa Francesco a Singapore molte ore prima, quando si è rivolto a un gruppo interreligioso di giovani.

Concentrandosi sulla cultura religiosa ampiamente variegata di Singapore, Francesco ha esortato a non dare priorità a nessuna religione, ma a concentrarsi invece sulla parità tra le credenze:

Se iniziamo a litigare tra di noi e a dire “la mia religione è più importante della tua, la mia religione è vera, la tua no”, dove ci porterà? Dove?

È giusto discutere [tra le religioni].

Continuando, Francesco ha dichiarato che ogni religione è un mezzo per arrivare a Dio, affermando:

Ogni religione è un mezzo per arrivare a Dio. Ci sono linguaggi diversi per arrivare a Dio, ma Dio è Dio per tutti. E come fa Dio a essere Dio per tutti? Siamo tutti figli e figlie di Dio. Ma il mio Dio è più importante del tuo Dio, è vero?
C’è un solo Dio e ognuno di noi ha un linguaggio per arrivare a Dio. Sikh, musulmani, indù, cristiani, sono percorsi diversi.

Le sue osservazioni hanno provocato un’immediata e diffusa costernazione.

“Questa è esplicitamente l’eresia dell’indifferentismo religioso”, ha scritto il diacono Nick Donnelly, noto commentatore e catechista cattolico del Regno Unito. ‘Jorge Mario Bergoglio ha ripetuto così spesso questa eresia che è in uno stato di eresia formale’, ha aggiunto.

“Come fa a non essere un’affermazione eretica?”, ha chiesto il dottor Thomas Carr, mentre il collega domenicano padre Lawrence Lew ha esortato a pregare per Francesco e ”per la piena conversione delle anime, a cominciare dalla mia, alla Verità che è solo Gesù Cristo. Infatti, come disse San Pietro: “Non c’è salvezza in nessun altro, perché non c’è altro nome sotto il cielo dato agli uomini per mezzo del quale dobbiamo essere salvati””.

I commenti di Francesco sembrano contraddire l’insegnamento senza tempo della Chiesa cattolica, che afferma che “L’unica vera Chiesa istituita da Cristo è la Chiesa cattolica”. {Catechismo di Baltimora Q. 152}.

La dottrina cattolica insegna che questo fatto è conoscibile poiché solo la Chiesa cattolica ha i quattro segni di essere la vera Chiesa: una, santa, cattolica e apostolica. Di conseguenza, la Chiesa insegna che tutte le anime devono “appartenere” alla Chiesa per essere salvate: “Tutti sono obbligati ad appartenere alla Chiesa cattolica per essere salvati”. {Catechismo di Baltimora Q 166.}

Dominus Jesus, come evidenziato da Strickland, conferma questo insegnamento e condanna l’idea che esista un mezzo ufficiale di salvezza al di fuori della Chiesa cattolica:

Inoltre, per giustificare l’universalità della salvezza cristiana e il fatto del pluralismo religioso, è stato proposto che esista un’economia del Verbo eterno valida anche al di fuori della Chiesa e non legata ad essa, oltre a un’economia del Verbo incarnato. La prima avrebbe un valore più universale della seconda, che è limitata ai cristiani, anche se la presenza di Dio sarebbe più piena nella seconda.

Queste tesi sono in profondo contrasto con la fede cristiana. Bisogna credere fermamente alla dottrina di fede che proclama che Gesù di Nazareth, figlio di Maria, e solo lui, è il Figlio e il Verbo del Padre.

Papa Benedetto XVI ha anche commentato la tendenza crescente negli ambienti ecclesiali moderni a minimizzare la necessità di convertire le anime al cattolicesimo. Parlando nel 2016, ha affermato che:

Se è vero che i grandi missionari del XVI secolo erano ancora convinti che chi non è battezzato è perduto per sempre – e questo spiega il loro impegno missionario – nella Chiesa cattolica dopo il Concilio Vaticano II questa convinzione è stata definitivamente abbandonata.

Da ciò è scaturita una profonda doppia crisi.

Da un lato questo sembra eliminare ogni motivazione per un futuro impegno missionario. Perché cercare di convincere le persone ad accettare la fede cristiana quando possono essere salvate anche senza?

Ma anche per i cristiani è emersa una questione: l’obbligatorietà della fede e del suo stile di vita ha cominciato ad apparire incerta e problematica.

Il compianto Benedetto ha continuato condannando direttamente la teoria proposta oggi da Francesco a Singapore: “Ancora meno accettabile è la soluzione proposta dalle teorie pluralistiche della religione, per le quali tutte le religioni, ciascuna a suo modo, sarebbero vie di salvezza e, in questo senso, nei loro effetti devono essere considerate equivalenti”.





sabato 14 settembre 2024

Papa sconcertante: per arrivare a Dio una religione vale l'altra



Parlando di dialogo interreligioso con i giovani a Singapore, papa Francesco mette tutte le religioni sullo stesso piano. Di fatto è la negazione della pretesa di Cristo di essere "la via, la verità, la vita", l'azzeramento del senso dell'Incarnazione e della Redenzione.


Un rovesciamento di 180 gradi rispetto al suo predecessore, un passo indietro di oltre duemila anni nella storia delle religioni, e – inaccettabile dalla bocca di un qualsiasi cristiano – l’azzeramento del cuore dell’evento cristiano. Le esternazioni di Francesco in occasione dell’incontro con i giovani al Catholic Junior College di Singapore non lasciano spazio a fraintendimenti: per Francesco tutte le religioni portano a Dio, un po’ come tutte le strade che portano a Roma, senza concedere nemmeno un piccolo vantaggio di favore e di simpatia al cristianesimo.

L’esortazione al dialogo interreligioso di ieri, 13 settembre, è in realtà la pietra tombale non solo dello stesso dialogo interreligioso, così come concepito dalla Chiesa cattolica, ma del senso stesso del cristianesimo: «Una delle cose che più mi ha colpito di voi giovani, di voi qui, è la capacità del dialogo interreligioso. E questo è molto importante, perché se voi incominciate a litigare: “la mia religione è più importante della tua…”, “la mia è quella vera, la tua non è vera…”. Dove porta tutto questo? Dove? Qualcuno risponda, dove? [qualcuno risponde: “La distruzione”]. È così. Tutte le religioni sono un cammino per arrivare a Dio. Sono – faccio un paragone – come diverse lingue, diversi idiomi, per arrivare lì. Ma Dio è Dio per tutti. E poiché Dio è Dio per tutti, noi siamo tutti figli di Dio. “Ma il mio Dio è più importante del tuo!”. È vero questo? C’è un solo Dio e noi, le nostre religioni sono lingue, cammini per arrivare a Dio. Qualcuno sikh, qualcuno musulmano, qualcuno indù, qualcuno cristiano, ma sono diversi cammini. Understood?».

Parole che suonerebbero come una disarmante banalità sulla bocca di chiunque, ma che lasciano interdetti se pronunciate dal successore dell’Apostolo Pietro, il cui ministero esiste per confermare i fratelli nella fede, non per disorientarli. Francesco invece lo reinterpreta a modo suo, quasi che San Pietro abbia iniziato a dialogare con giudei e pagani, dicendo loro che la morte e risurrezione di Cristo non hanno portato nulla di sostanzialmente decisivo nella storia dell’umanità, se non una nuova strada alternativa per arrivare a Dio, ma pur sempre facoltativa e senza la pretesa di essere l’unica vera. Come la variante di un’autostrada.

Forse il Papa ritiene che l’affermazione uscita dalla bocca stessa di Gesù Cristo – «io sono la via, la verità, la vita» (Gv 14, 6) – sia stato il refuso di qualche copista; oppure una reinterpretazione dei discepoli del Signore, che ancora non avevano capito niente del dialogo interreligioso; o ancora un delirio di onnipotenza di tale Gesù Cristo, che si era montato la testa pensando di essere Dio. «Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se conoscete me, conoscerete anche il Padre» (Gv 14, 6-7): una “prospettiva” decisamente opposta a quella del Papa.

Non si esagera affatto affermando che negare che la religione cristiana sia l’unica vera, l’unica in grado di portare a Dio, ponendola allo stesso livello di ogni altro cammino religioso degli uomini, significa semplicemente rinnegare l’autorivelazione che Cristo fa di se stesso nei santi Vangeli, insegnata dalla Chiesa fin dalla sua fondazione; significa rifiutare che gli uomini non possono in alcun modo giungere a Dio, sebbene lo cerchino, se non per mezzo di Gesù Cristo e della sua Chiesa; significa non aver capito nulla della necessità di essere redenti dal sangue di Gesù Cristo mediante il battesimo, e incorporati nella sua Chiesa. Significa appunto apostatare dall’intera fede cattolica e non errare in qualche suo punto.

Incomprensibile poi la superficialità con cui egli liquidi la questione della verità della religione. Per secoli, la preoccupazione principale dei Padri, dei Dottori, dei teologi è stata quella di mostrare come il cristianesimo sia l’adempimento della religio vera. Il cardinale Ratzinger, richiamando il confronto tra Sant’Agostino e Varrone, aveva spiegato con estrema chiarezza che nel cristianesimo è avvenuto qualcosa di «stupefacente»: «i due princìpi fondamentali del cristianesimo apparentemente in contrasto, il legame alla metafisica e il legame alla storia, si condizionano e si rapportano l'uno all'altro; costituiscono insieme l'apologia del cristianesimo in quanto religio vera» (La vittoria dell’intelligenza sul mondo delle religioni, «30 giorni», gennaio 2000). Tradotto: la verità, il Logos eterno e primordiale, è entrata nella storia, creando l’abbraccio tra la religione e la filosofia; la forma storica assunta dal Verbo costituisce lo svelarsi definitivo del vero, stabilendo così definitivamente il cristianesimo come la religione vera, non semplicemente nei suoi principi o, come si dice oggi, nei suoi “valori”, ma precisamente nella sua forma storica che è la Chiesa cattolica. La buona novella sta proprio qui: gli uomini non sono più lasciati a loro stessi nella loro ricerca della verità, e neppure nel loro anelito al divino, anelito destinato sistematicamente al fallimento, finché Dio non si fa loro incontro. E Dio si è fatto incontro all’uomo nella persona di Gesù Cristo, Dio fatto uomo perché gli uomini potessero essere partecipi della vita divina.

Con le sue sciagurate esternazioni, Francesco azzera il senso del cristianesimo, il senso dell’incarnazione del Verbo e della sua Passione, riducendo il cristianesimo ad una religione tra le altre e vanificando persino la ricerca della verità su Dio da parte dell’uomo. Si tratta di affermazioni gravi che vanificano il senso dell’Incarnazione e della Redenzione e non possono perciò passare inosservate agli occhi del collegio cardinalizio e di tutti i vescovi cattolici.