Settimo Cielo
di Sandro Magister
19 set 23
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Con parole quasi identiche, prima conversando con i gesuiti del Portogallo e poi sul volo di ritorno dalla Mongolia, papa Francesco ha detto che “questa del Sinodo non è un’invenzione mia. È stato Paolo VI, alla fine del Concilio, ad accorgersi che la Chiesa occidentale ha smarrito la sinodalità, mentre quella orientale ce l’ha”.
E l’11 settembre, ricevendo Baselios Marthoma Mathews III, Catholicos della Chiesa Ortodossa siro-malankarese, ha ribadito che “noi possiamo imparare molto dalla secolare esperienza sinodale della vostra Chiesa”.
Ma è proprio così? A giudicare dal fallimento, nel 2016, della convocazione di un Concilio di tutte le Chiese Ortodosse, dopo sessant’anni di preparazione, semplicemente per la mancata unanimità nell’approvazione di uno dei documenti preliminari, il modello orientale di sinodalità non sembrerebbe affatto il più adatto ad accelerare, in Occidente, quel “processo” di cambiamento della Chiesa che tanto piace al papa e ai suoi:
> O tutti o nessuno. La sinodalità che fa naufragare il Concilio panortodosso
“Se l’Occidente, infatti, intende la sinodalità come un luogo o un momento in cui tutti, laici e clero, agiscono insieme per arrivare a qualche decisione ecclesiastica, dottrinale, canonica, disciplinare, qualunque essa sia, è chiaro che tale sinodalità non esiste in Oriente”.
A richiamare l’attenzione sul colossale equivoco, con queste testuali parole, è un vescovo che l’Oriente lo conosce bene.
Il suo nome è Manuel Nin. Catalano, 67 anni, monaco benedettino nell’abbazia di Montserrat, professore di teologia e specialista dei Padri della Chiesa, poi rettore a Roma del Pontificio Collegio Greco, è dal 2016 vescovo titolare di Carcabia ed esarca apostolico per i cattolici di rito bizantino in Grecia, con sede ad Atene.
Prenderà parte, in ottobre, alla prossima sessione del Sinodo sulla sinodalità ed è tra coloro che il papa ha personalmente aggiunto alla lista dei partecipanti. Ma non fa mistero di criticare a fondo il “malinteso” su cui Francesco tanto insiste:
“Quando si afferma che: ‘Voi in Oriente avete sempre avuto la sinodalità’, semplicemente si confonde la sinodalità con il collegio episcopale”.
Nin ha condensato le sue obiezioni in una nota pubblicata in agosto nel sito web del suo esarcato.
In Oriente, scrive, è vero che viene chiamato “Sinodo” il collegio dei vescovi retto da un patriarca, un arcivescovo maggiore o un metropolita, quando si riunisce per esercitare l’autorità sulla rispettiva Chiesa (come ad esempio quello della Chiesa greco-cattolica ucraina tenuto a Roma dal 3 al 13 settembre).
Ma questa sinodalità non ha nulla a che vedere col modello di “una moderna repubblica parlamentare, dove tutti possono dire qualsiasi cosa e parlare di tutto. La vita delle Chiese cristiane non è mai stata una forma di democrazia in cui tutti decidono tutto in base alle regole della maggioranza”.
Certo, anche papa Francesco ha insistito più volte nel dire che “il Sinodo non è un parlamento”, né tanto meno “un programma televisivo in cui si parla di tutto”.
Nello stesso tempo, però, ha esteso la partecipazione al Sinodo non solo a chi è rivestito di autorità episcopale, ma a sacerdoti, religiosi e laici, uomini e donne, in obbedienza a un’interpretazione prevalentemente orizzontale della parola greca “Sinodo”, intesa come “camminare insieme”.
Insieme con chi? Con gli altri, con tutti. Sia pure con l’avvertenza di lasciare il ruolo del protagonista allo Spirito Santo.
Quando invece – scrive Nin, ed è la sua obiezione maggiore – il vero significato della parola “Sinodo” non è “camminare insieme con tutti”, ma “camminare tutti insieme con Cristo”.
Nin cita il padre del monachesimo: “Quelle impronte nella sabbia del deserto che Antonio credeva sue, a un certo punto scopre, lui e noi con lui, che non appartengono a lui ma a Colui che cammina accanto ad Antonio e lo sostiene nei momenti di debolezza. A Colui che è sempre al nostro fianco, al Signore risorto e vivente che è in mezzo a noi. La vocazione monastica può aiutarci a comprendere una realtà fondamentale nella vita cristiana”.
È interessante notare come questa obiezione di Nin concordi con quella pubblicata in luglio su Settimo Cielo dal teologo di New York Robert P. Imbelli, che ravvisava anche lui nell’”Instrumentum laboris” del prossimo Sinodo un ruolo tanto smisurato quanto vago e fumoso assegnato allo Spirito Santo, e invece un riferimento debolissimo a Cristo, alla croce, al mistero pasquale, cioè all’unica guida affidabile per poter davvero “conversare nello Spirito”.
“Propongo quindi di guardare la sinodalità – scrive ancora Nin – come il cammino di tutti noi che siamo stati battezzati in Cristo, ascoltando il suo Vangelo, celebrando la nostra fede, ricevendo la sua grazia nei sacramenti. Un cammino sicuramente da compiere insieme, guidati e accompagnati per mano, o anche portati sulle spalle dai nostri pastori, ma seguendo le orme di Colui che è la via, la verità e la vita”.
Verso la conclusione della sua nota, Nin fa un richiamo inatteso a un protagonista della Chiesa di alcuni decenni fa, a cui si associa::
“Ricordo la bella riflessione del cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna dal 1984 al 2003, pubblicata negli anni del grande Giubileo del 2000 col titolo: ‘Identikit del Festeggiato’. Già allora il grande cardinale italiano metteva in guardia dal pericolo di mettere in secondo piano o addirittura dimenticare Colui che era l’unico motivo del Giubileo, la causa principale, l’unico destinatario, il Celebrato”.
Ieri il Giubileo, oggi il Sinodo. Con la stessa dimenticanza?
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