Di Don Marco Begato, 4 AGO 2023
Un tema molto dibattuto e che sta trovando rinnovata attenzione a livello di confronto pubblico è quello relativo agli stereotipi. In realtà, e forse un po’ paradossalmente, sembra che il tema degli stereotipi non sia tanto oggetto di confronto quanto topos retorico calato dall’alto e con pochi margini di discussione, secondo un approccio e uno stile che di per sé favoriscono piuttosto la creazione che l’abbattimento di stereotipi.
Volendo combattere dunque il biasimevole ricorso agli stereotipi, credo proficuo offrire una riflessione sul tema. Obiettivo di tale confronto sarà in qualche modo eliminare la visione ormai stereotipata attorno agli stereotipi.
Sostengo due tesi. La prima è che la narrazione dominante sugli stereotipi sia appunto stereotipata a sua volta. La seconda è che l’esistenza di stereotipi non sia del tutto eliminabile, per il semplice fatto che essi si fondano, almeno in parte, su basi oggettive e su fondamenta realistiche.
Due esempi personali
Mi sovvengono due occasioni in cui ho avuto modo di ascoltare la narrazione dominante in tema di stereotipi, entrambe si legano al mondo scolastico che frequento.
Anzitutto, ho partecipato a un’attività formativa ospitata a Fiera Didacta Italia, “Il coinvolgimento delle studentesse nelle discipline STEM: un’esperienza positiva di collaborazione”. Si trattava dunque di un evento di grande ufficialità, promosso dal prestigioso istituto nazionale INDIRE, con la partecipazione della docente Rosaria Anna Puglisi del CNR. In quel contesto è stata presentata l’attività di “Women in Science” (https://hq.imm.cnr.it/womeninscience/20230310).
Speravo, in tale contesto, di trovare indicazioni su come sfruttare il genio femminile in ambito scientifico (nelle discipline STEM, appunto), magari andando a valorizzare quegli elementi di oggettiva differenza che si danno a livello cerebrale, cognitivo ed emotivo tra maschi e femmine. Invece in tale lezione ho solo sentito ribadire l’idea secondo la quale la partecipazione delle donne alle facoltà scientifiche è impedita da stereotipi e ho visto illustrare proposte che per lo più – se non ho frainteso – consistevano nel promuovere seminari scientifici di docenti donne per candidate studentesse donne.
Ora, non nego che si debba e si possa incentivare sempre meglio un accompagnamento delle studentesse verso un orientamento attitudinale aperto a 360°. Nego che, laddove si noti una disparità di scelta tra maschi e femmine, ciò sia dovuto semplicemente alla persistenza di stereotipi e non anche a inclinazioni che sono e rimangono sensibilmente diverse tra maschi e femmine.
Rispetto al caso citato e alle mie attese deluse, resto poi davvero molto stupito del fatto che non si siano messe in rilievo le attitudini proprie femminili e quindi il contributo specifico che le donne possono portare nel campo dell’indagine scientifica. Faccio io un’ipotesi: in un contesto di ricerca che privilegia sempre più il team working, forse il genio cooperativo femminino ha qualche vantaggio da portare rispetto all’istinto individualista del maschio? Lascio ad altri la risposta e torno sull’argomento principale dell’articolo.
Un secondo esempio lo traggo da un corso di formazione on-line, dedicato al tema dell’inclusione e quindi all’attenzione rivolta verso studenti che presentino disabilità, disturbi di apprendimento o bisogni educativi speciali. Anche qui in numerosi accenni ho ritrovato l’idea, questa volta applicata alle difficoltà di apprendimento e non ai caratteri sessuali, per la quale il pregiudizio a danno degli studenti in oggettiva difficoltà scolastica dipenda piuttosto da come si viene giudicati dai docenti e compagni di turno, anziché non dai limiti oggettivi propri.
Non nego un ruolo a entrambe le componenti appena elencate, ma nuovamente mi stupisco nel raccogliere una lezione che più o meno esplicitamente porta a concludere: la disabilità è in chi ti giudica. Falso. Vero è che il giudizio può rendere insopportabile o al contrario tollerabile una disabilità.
Chiudo questi due esempi con una puntualizzazione banale: in entrambi i casi si tratta di situazioni formative, lo stereotipo anti-stereotipi è dunque ormai un contenuto esplicito nella formazione dei docenti (per limitarmi alla mia categoria di esercizio). Non parliamo cioè di considerazioni peregrine, ma di un messaggio ben strutturato ormai assunto dagli organi formativi e destinato ai professionisti di settore in formazione.
Una proposta alternativa
Vengo al mio commento generale sulla tematica.
Gli stereotipi, dunque, sono solo frutto di pregiudizi sociali o sono fondati su dati di realtà?
La mia critica al pensiero dominante, come anticipavo, si appoggia su due osservazioni: l’impossibilità di liberarci in assoluto da pregiudizi soggettivi e l’oggettività che genera i giudizi umani anche al loro livello stereotipato.
Le tesi dominanti ed emergenti affermano: che gli stereotipi nascono dal giudizio dell’osservatore e non dipendono da caratteri oggettivi del soggetto; che gli stereotipi possono essere totalmente eliminati; che la persistenza di stereotipi è segno di ignoranza ed è causa di soprusi ingiustificati, perniciosi per chi ne è vittima e d’ostacolo allo sviluppo della società.
Tali idee non sono del tutto infondate: vi è una componente di giudizio che dipende dall’osservatore; il modo di guardare e giudicare può fare la differenza; vi è un modo di restare negli stereotipi che lede persone, comunità e società. Una parte, un modo. Non oltre.
Al contrario io sostengo: che vi siano degli elementi oggettivi nel soggetto sui quali si fondano gli stereotipi; che gli stereotipi quanto più risultino fondati sull’oggettività tanto meno siano eliminabili; che la pretesa di azzerare totalmente gli stereotipi sia essa stessa lesiva dei soggetti e nociva al bene comune e al relativo sviluppo sociale.
La tesi dominante punta a rimuovere gli stereotipi e a condannare quanti si oppongono a tale obiettivo.
Io punto a mantenere gli stereotipi per quello che effettivamente, creando consapevolezza attorno ai loro pregi e limiti, operarndo per una gestione intelligente degli stessi. Condanno come errore lo sforzo di chi sostiene la tesi dominante.
Ma cosa sono gli stereotipi? Per rispondere ascolteremo il parere di Hans-Georg Gadamer riguardo al ruolo dei pre-concetti. Gadamer, maestro indiscusso della filosofia ermeneutica, ci aiuterà a fissare i confini del sapere e il rapporto della conoscenza scientifica con gli stereotipi e i pregiudizi. Chiariti tali confini generali, sarà consequenziale trarre le considerazioni riguardo all’uso quotidiano degli stereotipi stessi.
Preciso che reputo Gadamer un autore importante, in quanto riconosciuto maestro della modernità, in dialogo con i migliori sviluppi del pensiero contemporaneo. D’altro lato, oltre alla tesi qui presentata, non vado oltre nell’assumere posizioni ermeneutiche. In altri contesti ho mostrato la mia disponibilità ad aderire alla scuola ermeneutica, optando per la corrente detta ‘ermeneutica veritativa’, e discostandomi dalla corrente della cosiddetta ‘ermeneutica relativista’, tanto cara al pensiero debole.
La lezione di Gadamer
In “Verità e Metodo” (Parte II, c.2, §1.a, Il circolo ermeneutico e il problema dei pregiudizi) Gadamer scrive: “L’interpretazione comincia con dei pre-concetti i quali vengono via via sostituiti con concetti più adeguati”. Questa prima considerazione porta con sé due attestazioni importanti. La prima è che ogni sapere muove da alcuni pregiudizi. La seconda è che tali pregiudizi vanno sottoposti a vaglio critico. Qual è il criterio con cui vagliarli? L’interprete “nel rapporto col testo, mette alla prova la legittimità, cioè l’origine e la validità, di tali presupposizioni”. Il testo, l’oggetto delle mie interpretazioni, offre la prova del fatto che i miei pregiudizi su di esso siano fondati o meno.
Rimarca Gadamer: “cos’è che contraddistingue le pre-supposizioni inadeguate, se non il fatto che, sviluppandosi, esse si rivelano insussistenti?”. E così abbiamo riconosciuto che alcuni pregiudizi non sono validi, dal che però si deduce che altri invece lo sono. E abbiamo aggiunto che l’elemento per definire tale validità ha a che fare con il testo, cioè con la realtà verso cui l’interprete (colui il quale giudica) sta guardando. Quindi i pregiudizi sono il punto di partenza, ma non possiamo fermarci a essi. “Ci si impone il compito di non presupporre semplicemente come ovvio che il testo parli il nostro linguaggio” e dunque ci si impone di metterci in discussione, di interrogare maggiormente il testo e di vagliare i nostri pregiudizi. Tale esperienza, a detta dell’autore si impone in modo forte: “quello che ci costringe a riflettere e richiama la nostra attenzione sulla possibilità di un uso diverso del linguaggio che ci è familiare è l’esperienza di un urto che si verifica di fronte a un testo”.
Fin qui siamo in parte d’accordo e in parte in contrasto col pensiero dominante. Siamo certamente d’accordo sul fatto che i pregiudizi vadano scossi, a fronte dell’urto che il testo (la realtà) ci impone. Credo che siamo d’accordo sul fatto che essi rappresentino il punto di partenza del giudizio, che il nostro giudicare sia intriso di pregiudizi. Probabilmente non siamo d’accordo se diciamo – con Gadamer – che i pregiudizi sono un elemento originario e peraltro buono (buono, perché di fatto rappresenta la realtà insormontabile e il meccanismo universale del nostro comprendere); immagino che i sostenitori del trend contemporaneo stimino i pregiudizi come un ostacolo e un incidente non originario e non necessario (se non è necessario e non è originario, allora è un male esservi incappati). Facilmente non siamo d’accordo se affermiamo che la realtà (il testo che stiamo interpretando) offre dei criteri oggettivi alla cui luce vagliare i nostri pregiudizi; mi pare che il discorso mediatico-politico sottolinei piuttosto l’assenza di un simile testo e della relativa oggettività.
Esemplifico quest’ultimo aspetto, riferendomi agli esempi narrati in apertura di articolo.
Primo esempio. Per Gadamer il sesso/genere femminile porta con sé degli elementi oggettivi che hanno storicamente concorso a tenere le donne lontane dalle discipline STEM (gli studi tecno-scientifici); per il discorso predominante invece tale gap è dipeso solo da strumenti culturali non originari e non necessari (i pregiudizi, gli stereotipi) che ora abbiamo smascherato e dobbiamo combattere. Preciso: per Gadamer ci sono elementi oggettivi che segnano il divario tra donne e STEM, ma siamo esortati a vagliare sempre più approfonditamente di che natura siano tali elementi, se e come possano essere rinnovati, in quale misura potrebbe darsi un incontro donne-STEM (io stesso sopra avevo posto una domanda/proposta a riguardo).
Secondo eempio. Per Gadamer la disabilità e il disturbo sono elementi oggettivi che affaticano la partecipazione scolastica; per il discorso predominante invece tale fatica dipende da un’impostazione stereotipata del percorso didattico. Nuovamente: Gadamer ci invita a vagliare se nell’evoluzione dei metodi, delle cure e del concetto sociale di istruzione possa esserci un significativo modello di inclusione scolastica.
In tale ottica, chi scrive è promotore attivo sia dell’inclusione che dell’istruzione scientifica femminile, senza con ciò sposare le linee-guida prevalenti, che reputo ideologiche.
Bensì dialogo con gli sviluppi più recenti del pensiero occidentale. Proprio tali sviluppi obbligano a prendere le distanze da altre letture dogmatiche. È dogmatico, alla luce delle argomentazioni di Gadamer, ignorare la lezione sui pregiudizi e reiterare l’imperativo contro di essi. Per la precisione siamo di fronte a un dogma illuminista e positivista: paradossalmente anti-scientifico (perché ignora gli sviluppi delle teorie epistemologiche e della conoscenza più aggiornate) pur nella pretesa di essere scientifico (perché Illuministi e Positivisti si ersero a suo tempo a paladini di tale sapere). Quest’ultima proposizione spiega anche in che senso io giudichi ideologiche le linee guida mainstream.
Ma lasciamo che sia lo stesso Gadamer a spiegarcelo. “L’illuminismo ha un suo pregiudizio fondamentale e costitutivo: questo pregiudizio che sta alla base dell’Illuminismo è il pregiudizio contro i pregiudizi in generale e quindi lo spodestamento della tradizione”. Al contrario, una volta denunciata tale contraddizione radicale e invincibile (esser contro i pregiudizi è il primo dei pregiudizi), ha senso recuperare un retto concetto di tradizione come forma di sapere e di agire, non per un culto della tradizione in se stessa (tradizionalismo), ma per una accettazione della realtà antropologica fondamentale con tutti i suoi limiti e le sue condizioni di possibilità:
“È proprio vero che stare dentro a delle tradizioni significhi anzitutto sottostare a pregiudizi e subire una limitazione della libertà? O piuttosto non è la stessa esistenza umana, anche la più lbera, che è limitata e condizionata in maniera molteplice? Se questo è vero, allora l’ideale di una ragione assoluta non costituisce una possibilità per l’umanità storica”.
Il tutto sempre rimarcando la distinzione fondamentale, “quella cioè della distinzione tra pregiudizi veri, alla luce dei quali comprendiamo, e pregiudizi falsi, che conducono al fraintendimento”.
È pregiudizio falso l’idea che il gap donne-STEM non esista e ogni suo residuo sia il prodotto di una civiltà machista. È pregiudizio vero il fatto che tale gap abbia un fondamento – nella natura psichica e biologica, nei compiti sociali materni – tale però da poter essere superato in specifici casi – caratteri brillanti, personalità spiccatamente propense e dotate, scelte familiari non impedienti, dinamiche storico-sociali particolari. Casi pur lodevoli, aggiungerei.
Mancano ancora un paio di tasselli a chiudere la riflessione gadameriana, in fondo impliciti nelle pagine precedenti: i pregiudizi sono indomiti e ineliminabili. Il destino del sapere e del convivere umano non sta nello sterminio dei pregiudizi, ma nella capacità di valorizzare quelli veri e di usarli per procedere nella propria esperienza buona. “I pregiudizi e le tendenze che occupano la coscienza dell’interprete non sono qualcosa di cui egli possa liberamente predisporre. Egli non è in grado, di per sé, di separare preliminarmente i pregiudizi produttivi che rendono positivamente possibile la comprensione da quelli che invece la intralciano”. I pregiudizi ci precedono, ci sovrastano e ci sfidano: a distinguere quelli utili da quelli nocivi, per esempio. I pregiudizi sono ineliminabili, perché la conoscenza della realtà nella sua grandezza non si riduce mai a etichette semplificate.
Termino qui l’accenno al pensiero gadameriano – complesso, certo, ma utile a scardinare le banalità teoriche che reggono la propaganda diffusa.
Un’ermeneutica degli stereotipi
E ora torno a un livello più immediato della riflessione. Gadamer insiste sui pregiudizi, ma che dire degli stereotipi? Da un punto di vista teorico, le due questioni combaciano. Dovremo ammettere che gli stereotipi sono una forma di conoscenza, ma ugualmente dovremo dire che essi devono essere sottoposti a vaglio.
Generalmente forse con stereotipo si intende qualcosa di più gretto di un pregiudizio. In certo senso dire stereotipo significa dire: un pregiudizio fossilizzato e infondato.
E allora, senza inseguire l’utopia di voler eliminare gli stereotipi, dovremmo però stare attenti almeno a questi due aspetti: primo, che nessuno stereotipo sia assunto in modo fisso e immodificabile; e secondo, quale sia il fondamento reale e rispettabile di uno stereotipo.
Ora, e tornando per l’ultima volta sugli esempi sopra citati, quanto al primo aspetto, dovremo accettare che il ruolo della donna e del diversamente abile muti nel tempo e non si configuri rigidamente su modelli passati – questo errore di irrigidimento può darsi, questo errore ha subito una forte spinta (a volte scomposta) a mutare grazie al pensiero rivoluzionario illuminista, sul valore di tale svolta possiamo complessivamente concordare (soprassedendo sui dettagli attuativi e suoi principi teorici della stessa).
Quanto al secondo aspetto, dovremo valutare quali sono i fondamenti degli stereotipi sulla donna e sul diversamente abile, e scoprire che la disabilità e il sesso/genere comportano dei confini e dei limiti evidenti e intrascendibili, così come ugualmente essi presentano uno spettro di variabili che potrebbero essere maggiormente esplorate e valorizzate a beneficio dei soggetti e della comunità.
Dunque, ora possiamo rispondere alla domanda iniziale: cosa sono gli stereotipi? Un tipo di pregiudizio, socialmente diffuso, con un fondamento oggettivo nella realtà biologica e culturale, e un margine di evoluzione politico-pedagogico significativo, ma anche con una certa tendenza a fossilizzarsi e ad assumere presupposti falsi.
Dal che discende la conclusione: che fare davanti agli stereotipi? Studiare. E così vincere la tendenza a fossilizzarsi e ad assumere presupposti falsi, sapendo al contrario distinguere il fondamento oggettivo degli stessi dal loro margine di adattabilità e rinnovabilità storico-sociale.
Questo mi sembra l’avvio di una buona riflessione sugli stereotipi, di una attenzione alla dignità delle persone, di un lavoro utile al bene comune. Le medesime attenzioni, se edificate su di un fondamento culturale dogmatico illuminista, nutrito dal Paradosso del Pregiudizio (la pregiudiziale lotta ai pregiudizi), reputo che possano fare dei danni tanto ai singoli quanto alla collettività.
Tutta la retorica sui diritti umani e in particolare gli aggiornatissimi tormentoni LGBTQP e Woke dovrebbero essere vagliati alla luce della prospettiva oggi introdotta.
II PARTE
Assolutizzazione delle differenze ed egualitarismo applicato ai generi.
Abbiamo introdotto la questione degli stereotipi. La abbiamo ampiamente trattata alla luce delle riflessioni di H. G. Gadamer attorno al valore epistemologico dei pregiudizi. Abbiamo così raccolto un dato prezioso: la conoscenza umana non può mai sbarazzarsi definitivamente di pregiudizi e stereotipi, dovrà dunque trovare un modo intelligente di usarli.
L’idea di condannare qualsiasi ricorso agli stereotipi risulta quindi infondata, errata e nociva.
Abbiamo anche accennato a un secondo elemento, il fatto che i pregiudizi e gli stereotipi trovino un fondamento oggettivo nella realtà. Questo secondo appunto non è stato approfondito nel precedente articolo. Per farlo si potrebbero citare vari testi, ma non sarà il mio obiettivo odierno. Tanti sono i lavori già pubblicati, tra gli altri ricordo il saggio divulgativo ma puntuale di Giuliano Guzzo …
Una ripresa su veri e falsi stereotipi
Oggi preferisco toccare l’argomento con parole mie e limitarmi a definire genericamente gli stereotipi come delle realtà verosimili che hanno un fondamento statisticamente comprovato nella natura e/o nella natura. Anzitutto, e facendo un passo indietro, richiamiamo la tesi di Gadamer, secondo cui esistono due tipi di pregiudizi, quelli veri e quelli falsi. Quelli falsi vanno smascherati e superati. Quelli veri si tengono e guidano la crescita del sapere. Lo stesso, dicevamo, vale per gli stereotipi. Quindi proviamo a dire cosa possiamo intendere con stereotipi veri. Considero stereotipi veri quelli che hanno un fondamento oggettivo, una base che si riferisce a dati solidi, come per esempio gli elementi biologici. Per esempio, se ci riferiamo alle narrazioni LGBTP, e trattiamo la questione dei sessi e dei generi, i dati biologici saranno quelli dei cromosomi, degli ormoni, delle reti neurali, delle strutture fisiche. Ma per l’appunto, e seguendo la mia definizione, uno stereotipo dice di un certo andamento statistico e dunque ha a che vedere con una variabilità. Sempre sostando sull’esempio dato, la variabilità si incontrerà a più livelli: già a livello biologico si può dare uno sviluppo maggiore o minore dei caratteri maschili o femminili del soggetto; in più a livello psicologico e sociologico possono intervenire differenti stimoli, tali da rimodulare ulteriormente il ruolo della variabile biologica; infine, a livello spirituale si incontrano ulteriori variabili, legate al senso dell’esistere e alle scelte di libertà. Per cui generalmente dal maschio ci attendiamo alcuni caratteri, che però potremmo non trovare a motivo delle variabili – biologiche, psicologiche o spirituali – in atto nei singoli soggetti. Il pregiudizio che esprimiamo sui maschi, riferendoci ai caratteri stabili presupposti e prevedibili, è uno stereotipo. Se esso è consapevole del proprio limite e quindi è pronto ad essere revisionato alla luce delle singole situazioni, diviene un pregiudizio vero, uno stereotipo sano. Se esso si illude di rappresentare una conoscenza universale, risulta uno stereotipo nocivo. Ugualmente nociva e assurda sarà però la pretesa di giudicare le persone quasi fossero il prodotto di pure variabili soggettive, prescindendo da quegli elementi che le definiscono oggettivamente.
Quanto alle variabili, aggiungo due brevi incisi. Il primo è che lo spettro di variabilità non è infinito e non è arbitrario, bensì è legato alle possibilità di variazione proprie dell’ambito considerato. In campo sessuale, possono darsi significative variazioni, per esempio legate al livello di ormoni o alla plasticità celebrale, ma esse rimangono all’interno di limiti scientificamente rilevabili, altrimenti si finisce nella patologia fisica (ermafroditismo) o mentale (follia). Esiste anche una patologia spirituale? Sì, e questo ci introduce al secondo inciso. Vi è una variabilità legata alla componente spirituale: essa è potenzialmente più ampia di quella psico-fisica – lo spirito effettivamente può sporgersi ben al di là di ciò che gli permette il sostrato corporeo e psichico -, ma non dimentichiamo che a questo livello spirituale si intreccerà sempre e intrinsecamente la dimensione morale: certe pretese posizioni dello spirito sono cioè possibili ma cattive. Non mi dilungo oltre perché qui si tratta di materia nota e già affrontata da moralisti e teologi nelle debite sedi.
Alla luce di queste considerazioni nuovamente affermo: gli stereotipi presentano una verosimiglianza con un fondamento statisticamente comprovato. Il problema, dunque, non sono gli stereotipi (ineliminabili), ma il loro utilizzo (da monitorare). A questo punto avevamo concluso l’articolo precedente. Offrendo un richiamo genericista al compito di studiare. Si potrebbe approfondire ulteriormente tale via? Certamente, ma non sarà la mia preoccupazione.
Una pagina di Romano Guardini
Anziché scavare nel tema degli stereotipi preso in se stesso, preferisco spostare il focus della riflessione ed esplorare in che modo si potrebbe purificare il nostro sguardo sugli stereotipi. Per fare questo, mi lascerò guidare da una pagina illuminata di Romano Guardini.
Riporto integralmente la pagina, che poi commenteremo:
“Non è vero che tutti gli uomini siano uguali; sono diversi secondo le loro nature, diversi secondo il modo e la natura delle loro doti. L’uguaglianza non consiste in ciò, che tutti siano e valgano lo stesso, ma in ciò che uno sia se stesso e possa raggiungere il posto che gli compete tra gli altri. Questa è vera democrazia. È un modo di sentire plebeo quello che afferma che tutti siano uguali. L’invidia non vuole che alcuno valga di più e vuole abbattere chi si alza sopra gli altri. Dove essa domina, non nasce il ricco, intenso, unitario comportamento del popolo nello Stato. Atteggiamento politico significa che si vede e si riconosce la differenza delle doti. Se si lascia arrivare il singolo al posto che gli compete, le forze e le doti maggiori raggiungeranno i compiti e le maggiori responsabilità, anche se così resteremo noi stessi nell’ombra. E, per converso, Stato significa che colui che si trova in una situazione di comando compie la sua opera nel tutto come lo richiedono le circostanze e in favore della comunità; significa che ci comanda lascia che gli altri partecipino, capiscano e collaborino, e fa sentire attraverso tutto il suo modo di agire come egli lavori per loro. Così, l’unità diventa l’unità di chi guida e di chi è guidato; di chi va avanti e di chi segue; del creatore e dello scopritore e del collaboratore” (R. Guardini, Lettere sull’autoformazione, Morcelliana, Brescia 1994, 181).
Commentiamo dunque questa intensa citazione. Anzitutto la contestualizziamo: il testo è tratto dalla “Lettere sull’autoformazione”, raccolta di brevi scritti che l’autore indirizza alla gioventù tedesca degli anni Trenta. In particolare, la nostra citazione compare nella “Lettera Nona. Lo Stato siamo noi”.
L’egualitarismo come ideologia
Perché ci interessa tale citazione? Perché il motto sull’uguaglianza richiama una classica visione illuminista. Gli illuministi, al grido di Egalité!, ci hanno inculcato che è ragionevole riconoscere l’uguaglianza di tutti e che sarebbe pregiudiziale misconoscerla. Commentando tale paragrafo, avverso all’egualitarismo, troviamo preziose indicazioni per vincere quei classici assunti e possiamo trarne utili suggerimenti per superare anche i più moderni assunti, essi pure di matrice illuministica (cfr. i commenti di Gadamer nel precedente articolo).
Guardini esordisce seccamente enunciando la tesi: “non è vero che tutti gli uomini sono uguali”. E subito aggiunge un rilievo fenomenologico, cioè una evidenza accessibile a tutti: “son diverse le nature, sono diversi i modi di darsi di esse”. Se dunque diamo voce all’evidenza, anche noi dobbiamo riconoscere che si danno delle nature, che esse hanno caratteri netti, che poi si danno modi differenti in cui tali nature e tali caratteri possono essere vissuti. L’aggressus di Guardini tocca il mito dell’uguaglianza, ma la cultura LGBTP rappresenta la posizione uguale e contraria dell’egualitarismo, l’altra faccia della medesima medaglia ideologica: affermare che tutti siamo uguali o che tutti siamo diversi, in assoluto e senza distinguo rispettosi della realtà, significa compiere il medesimo errore. E quanto più tale errore viene cavalcato, tanto più si fa evidente che la Gender Theory va sempre più configurandosi come una Gender Ideology, intendendo con ideologia una struttura di pensiero disobbediente ai criteri di realtà e recalcitrante al rapporto con la realtà stessa.
Prosegue l’autore: “L’uguaglianza non consiste in ciò, che tutti siano e valgano lo stesso, ma in ciò, che uno sia se stesso e possa raggiungere il posto che gli compete tra gli altri”. La fenomenologia di Guardini ha sempre un marcato riferimento antropocentrico con significativi approfondimenti sul valore della coscienza e dell’identità soggettiva. Anche in questo caso troviamo simili agganci. Qual è dunque secondo Guardini il criterio capace di sciogliere il nodo dell’egualitarismo (e per noi del genderismo?): tornare alla verità sull’uomo. E questo quali elementi comprende? Ne include almeno tre, anzitutto si chiede una riflessione sull’autenticità del soggetto (“che uno sia se stesso”), quindi ricorda che l’identità personale si definisce nella relazione con gli altri individui (“il posto che gli compete tra gli altri”), e infine si riconosce che tale identità va conquistata, si pone come meta di un cammino rigoroso e non come emersione spontanea, chiede dunque disciplina e fatica (“possa raggiungere” è un’esortazione e non un dato di fatto). Tutte le “Lettere” di Guardini sono poste sotto tale prospettiva, ai giovani si propongono alti ideali che però sono presentati come meta di un cammino rigoroso, in alternativa a spontaneismi e facilitazioni che hanno come pegno una vita di basso profilo o anche il fallimento del proprio essere.
Aspetti politici dell’egualitarismo
“Questa è vera democrazia”, chiosa il Guardini. Fuori da tale prospettiva, fuori di una assunzione responsabile e impegnata per trovare la propria autenticità nella società, adempiendo il compito che la natura ci ha dato, fuori di tutto ciò non avremo democrazia, ma anarchia e dispotismo. Ricordiamo che Guardini ragiona alla luce della disfatta della Prima Grande Guerra e nel clima di instabilità politica nella Germania degli anni Trenta, e questo fa di lui un teste autorevole sull’argomento, da non sottostimare.
Il passaggio successivo introduce elementi scomodi per la cultura attuale: “È un modo di sentire plebeo quello che afferma che tutti siano uguali”. Guardini mette in guardia proprio dal rischio che il nostro modo di sentire sia vile e sprovveduto. Nuovamente, tra le righe si cela una forte consapevolezza: si danno diversi livelli di sapere, di sentire e di volere. Alcuni di essi sono nobili e ricchi, altri mediocri, altri plebei. Non c’entra nulla con ciò la classe o la provenienza, c’entra invece la serietà con cui ciascuno assume il compito di ricerca della verità. L’affermazione dell’egualitarismo corrisponde a una lettura semplificata e grossolana delle dinamiche antropologiche e quindi merita il titolo di concezione plebea. Sembra una diagnosi pulita della nostra epoca, che ha evidentemente banalizzato il sapere e l’informazione; l’era dei social ha reso tutti in apparenza opinionisti ed esperti, ma generalmente ci troviamo solo più banali e instupiditi.
Guardini poi precisa. Le ideologie non risultano plebee unicamente per la loro fragilità teoretica, bensì perché si appoggiano su un senso morale compromesso, spesso loro motore è l’invidia personale: “L’invidia non vuole che alcuno valga di più e vuole abbattere chi si alza sopra gli altri”. Dietro le teorie egualitariste si cela dunque un’opzione esistenziale; oltre alle difficoltà teoretiche e prima di esse incontriamo delle bassezze comportamentali e personali. L’animo invidioso, proprio perché è tale, si trova accecato nel riconoscere la verità delle differenze che arricchiscono; l’animo invidioso nega le differenze e impone l’egualitarismo perché non accetta che qualcuno possa differire da lui in meglio. La viltà alimenta l’ideologia. E quindi dovremmo chiederci anche circa le Gender Theory: l’assolutizzazione delle differenze e l’egualitarismo applicato ai generi nascondono una fragilità esistenziale di chi non accetta che altri siano migliori di sé? Durissima questa domanda, inaccettabile per i contemporanei, ma genuina. Vi risponderemo in un articolo a venire. E un altro interrogativo si pone circa il grave problema di affidare scelte politiche a uomini moralmente corrotti ed esistenzialmente compromessi. Se la verità e il potere dipendono da persone spiritualmente schiave, lo Stato non potrà che trarne danno. Se le leggi vengono fatte dal governo dei peggiori, saranno leggi pessime. Ne parleremo nel prossimo articolo.
Guardini prosegue nella denuncia delle derive conseguenti agli atteggiamenti plebei, dove essi dominano “non nasce il ricco, intenso, unitario comportamento del popolo nello Stato”. Ma allora quale atteggiamento è richiesto per promuovere un senso statale ricco e fecondo? La risposta chiesta per essere autentici uomini e cittadini è molto esigente e si fonda sull’appello a una magnanimità senza mediocrità. Per essere buoni cittadini bisogna essere personalità di una rettitudine superiore, sacrificata addirittura. Scrive l’autore: “lascia arrivare il singolo al posto che gli compete, le forze e le doti maggiori raggiungeranno i compiti e le maggiori responsabilità, anche se così resteremo noi stessi nell’ombra”. La verità e la civiltà chiedono al singolo uno spirito di autenticità, umiltà e oblazione. Riconoscere dove sta il meglio e promuoverlo, anche a costo di dovermi mettere io stesso in disparte – e questo per il beneficio di tutta la comunità e non di un gruppo ristretto.
Lo stesso atteggiamento si richiede al ‘migliore’ assurto ai posti di comando, il quale è chiamato ad agire in modo che “gli altri partecipino, capiscano e collaborino, e fa sentire attraverso tutto il suo modo di agire come egli lavori per loro. Così l’unità diventa l’unità di chi guida e di chi è guidato; di chi va avanti e di chi segue; del creatore e dello scopritore e del collaboratore”.
Il testo di Guardini non approfondisce la definizione degli stereotipi e non esemplifica la loro catalogazione o evoluzione. Fa qualcosa di diverso, e di grandemente importante per noi: getta luce sulle qualità umane richieste al singolo e alla comunità al fine di costruire insieme una politica giusta, imperniata sulla verità. Nel precedente articolo ho lasciato un richiamo generico al compito di studiare, per meglio comprendere il portato dei diversi stereotipi in base alle situazioni e alle aumentate conoscenze scientifiche. Ora, grazie al filosofo italo-tedesco, siamo andati oltre. Abbiamo visto che è necessario lavorare anche e soprattutto su se stessi, sul proprio sguardo, sul proprio senso morale, sul proprio modo di vedere, sulla propria disponibilità nei confronti della verità e della giustizia, sulla forza di superare l’egoismo e di sottomettersi alla realtà anche quando essa non è generosa con noi, o almeno lo è di più con gli altri. Tutte queste attitudini hanno a che fare radicalmente con la capacità di confrontarsi con gli stereotipi, di sciogliere quelli falsi, di proporzionare quelli veri e di fuggire le ideologie.
Le prossime tappe della nostra ricerca
A questo punto potremmo aprire un grosso capitolo relativo alla formazione personale e magari addentrarci nello studio complessivo delle “Lettere” di Guardini. Ma questo ci porterebbe fuori tema. Però nel prossimo articolo sosteremo ancora un momento a commentare la struttura della Lettera Nona, dedicandoci alla questione della Comunanza nel suo complesso. Essa ci offrirà ricchissimi spunti per riflettere sul senso della politica e su come rispondere virtuosamente alle sue crisi moderne. La debacle sugli e degli LGBTP sta mostrando infatti, tra gli altri aspetti, anche un lato di profondo decadimento nel senso statale e democratico. La visione politica rappresenta dunque un ulteriore punto di vista sul problema, la chiarificazione del quale potrà darci istruzioni notevoli attorno al problema stesso. Così prosegue il nostro cammino, che appunto vuole essere non un’analisi dell’oggetto LGBTP, quanto una critica del contesto e dei presupposti che a tale oggetto stanno dando linfa e protagonismo.
Don Marco Begato
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