Di Stefano Fontana, 6 SET 2023
Un articolo di Elizabeth A. Johnson
La teologa americana Elizabeth A. Johnson ha pubblicato un articolo sulla rivista dei gesuiti statunitensi America, poi ripreso in forma ridotta in lingua italiana da “Aggiornamenti sociali”, la rivista dei gesuiti del Centro San Fedele di Milano, con il seguente titolo: Cosa significa credere in un Dio ecologico?.
La teologa americana, oggi ottantunenne, lamenta che anche i cattolici oggi non riescono a capire che l’amore di Dio creatore non è destinato esclusivamente all’uomo ma a tutte le creature, comprese le più insignificanti: “tutte le creature formano una sola, amata comunità di creazione”. Per la Johnson “esiste una sola comunità di vita sulla Terra. In termini scientifici, c’è una sola biosfera. In termini teologici, c’è una sola comunità di creazione”.
Per capire queste novità, secondo la teologa americana, bisogna superare la concezione della “gerarchia dell’essere”. La nostra autrice segue qui la linea della de-ellenizzazione: la teologia cristiana avrebbe assorbito dalla filosofia greca la gerarchizzazione del mondo in materia e spirito, corpo e anima, con la conseguente classificazione delle creature: “In fondo si trova la materia inerte, come le rocce; più sopra le piante, che sono vive e generano semi; quindi gli animali, contraddistinti dalla loro capacità di movimento; al vertice si collocano gli esseri umani, dotati di anima razionale e corpo; ancora più in alto gli angeli, spiriti puri senza corpo”. L’idea della Johnson è che sia sbagliato pensare che ci sia un più e un meno nell’essere.
L’uomo, collocato in alto, si sentirebbe lo sdegnoso padrone degli animali e delle piante e questo darebbe vita allo sfruttamento colpevole sugli ecosistemi. Questa mentalità, sempre secondo la Johnson, gocciolerebbe poi anche nella vita sociale, per esempio attribuendo agli uomini uno spirito maggiore rispetto alle donne e quindi un certo diritto violento e sfruttatore. Lo stesso schema mentale avrebbe motivato lo sfruttamento delle risorse di altre terre dopo l’epoca delle esplorazioni, l’idea della supremazia dei bianchi sui neri, la schiavitù di milioni di esseri umani. Bisogna recuperare un’altra visione nella quale sia stabilito un egualitarismo ontologico, base per ogni altro tipo di egualitarismo.
La fine dell’eccezione umana e l’antispecismo
Questa posizione della Johnson e dei gesuiti si avvicina molto alla teoria della “fine dell’eccezione umana”. Il nome di questa dottrina deriva dal famoso libro del 2002 di Jean-Marie Shaffer, “La fin de l’exception humaine” (Gallimard). La strada sarebbe quella di non vedere più nell’uomo una qualche superiorità rispetto alle altre specie viventi.
Essa si avvicina anche alla teoria dell’anti-specismo, in Italia propugnata soprattutto da Roberto Marchesini, ma molto diffusa anche nella versione più o meno radicale dell’animalismo. Sia quella della fine dell’eccezione umana, sia quella dell’anti-specismo sono teorie proprie del post-umanesimo. Ambedue, infatti, portano avanti il discorso dei “diritti degli animali” e quello dei “diritti della natura”.
Dall’egualitarismo ontologico a quello sociale e politico
Quello della “gerarchia dell’essere” è un concetto ontologico. Se si accoglie l’egualitarismo a questo livello fondamentale, poi si finisce per essere egualitaristi negli altri livelli. L’ideologia gender, per esempio, è egualitarista perché, fingendo di valorizzare le differenze, considera tutti uguali i cosiddetti “orientamenti sessuali”. Nel concetto di democrazia borghese tutti i cittadini sono uguali. Nella concezione del moderno Welfare State, lo Stato deve abolire le differenze di status tra i cittadini. Il comunismo, anche in tutte le sue forme attuali, è egualitarista perché vorrebbe eliminare le differenze economiche e sociali. Perfino nella Chiesa si rende evidente l’egualitarismo con la tendenza ad abolire la diversità sacramentale tra sacerdoti e laici. L’egualitarismo esprime sempre forme di totalitarismo. La Dottrina sociale della Chiesa non è egualitarista e sia Leone XIII nella Rerum novarum sia Pio X affermano che le diversità all’interno della società sono utili per il bene comune.
La gerarchia dell’essere
La filosofia classica e cristiana e la teologia cattolica hanno sempre fondato e sostenuto la dottrina della gerarchia dell’essere. La creazione degli enti conferisce l’essere in atto in proporzione all’essenza, sicché esiste una gerarchia di esseri perché la loro essenza non è uguale, ma può accogliere più o meno essere. Ci sono esseri che sono di più, ed esseri che sono di meno, pur esistendo tutti. Questa gerarchia va dall’ameba agli Angeli, passando per l’uomo che è l’unico ad essere un’anima incarnata. L’uomo è di più di tutti gli esseri infraumani ed è di meno degli Angeli. Tutto viene dall’amore di Dio, ma non si può dire che Dio ami ugualmente tutte gli esseri, perché è proprio il suo amore a fondare la loro diversità. Dio crea per amore le cose collocandole nel loro ordine. La gerarchia dell’essere ha un senso finalistico. Ogni essere è chiamato dalla provvidenza ad essere se stesso, ma siccome il fine consiste nella realizzazione della propria essenza, chi è di più ha anche un fine più elevato, altrimenti o non ci sarebbero fini o tutte le cose avrebbero lo stesso fine, il che è assurdo. Il fine dell’uomo è trascendente, diversamente da tutti gli altri enti creati. Le disuguaglianze nell’essere servono a mettere meglio in luce da grandezza e la ricchezza della creazione, l’egualitarismo nell’essere invece ne farebbe qualcosa di piatto e di minore significato nell’esprimere la Sapienza di Dio. Se nessuno fosse di più e nessuno fosse di meno, non sarebbe più valido il principio “il più non viene dal meno”, non sarebbe più vero che a muovere l’ente in potenza verso l’atto deve essere un ente che è già in atto, e questo impedirebbe di risalire dalle cose a Dio, come salita, appunto, dal meno al più, dato che il meno presuppone il più.
Stefano Fontana
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