BIOETICA | CR 1765
19 Ottobre 2022
di Fabio Fuiano
Lo scorso luglio è stato pubblicato un nuovo libro di ben 528 pagine, a cura di Mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita (PAV), intitolato Etica teologica della vita. Scrittura, tradizione, sfide pratiche (Libreria Editrice Vaticana), che raccoglie gli atti di un seminario di studio promosso dalla medesima Accademia. In esso, tra i vari argomenti trattati, riemerge nuovamente un tema particolarmente ostico, quello della contraccezione. Prendendo spunto dall’enciclica Amoris Laetitia, a p. 304 di questo studio si legge: «La responsabilità nella generazione richiede un discernimento pratico che non può coincidere con l’applicazione automatica e l’osservanza materiale di una norma, come è evidente nella pratica stessa dei metodi naturali. […] Ci sono infatti condizioni e circostanze pratiche che renderebbero irresponsabile la scelta di generare […]».
E quindi prosegue affermando che i due sposi «[…], possono operare un saggio discernimento nel caso concreto, che senza contraddire la loro apertura alla vita, in quel momento, non la prevede. La scelta saggia verrà attuata valutando opportunamente tutte le tecniche possibili in riferimento alla loro specifica situazione ed escludendo ovviamente quelle abortive» (enfasi aggiunta).
Secondo la Teologia Morale, la contraccezione è intesa come una «regolamentazione delle nascite, viziata o per la intenzione di chi la compie o per i mezzi posti in opera per attuarla» (Dizionario di Teologia Morale, Roberti-Palazzini, Editrice Studium, 1955, vol. 1, pp. 449-451). Il male della contraccezione si situa dunque sul piano dei fini e/o dei mezzi. Nonostante siano passati tre mesi, l’argomento non perde la sua attualità. Pertanto, quel che segue vuole essere un umile contributo a dissipare la confusione nell’attuale dibattito, in quanto qui è in gioco direttamente la salvezza delle anime e, come si sa, la salvezza delle anime è la legge suprema della Chiesa.
Lo studio della PAV sottolinea, giustamente, che tra i diversi mezzi contraccettivi, in special modo quelli ormonali (es. pillola del giorno dopo o pillola dei cinque giorni dopo), possono presentarsi dei meccanismi d’azione volti non solo ad impedire l’incontro dei gameti maschile e femminile (effetto contraccettivo strictu sensu), ma talvolta, pur non impedendo tale incontro, anche ad ostacolare l’impianto in utero dell’ovulo già fecondato, essere umano in nuce, provocandone direttamente la morte (effetto abortivo e non più contraccettivo). Ma la posizione manifestata dalla PAV, secondo la quale gli sposi potrebbero valutare “tutte le tecniche possibili escludendo quelle abortive” risulta, in definitiva, difettosa in quanto mette in discussione la possibile abortività di certi contraccettivi ma non la contraccezione in sé. Se ci si trova davanti a contraccettivi che operano solamente secondo effetti contraccettivi, come ad esempio i c.d. “contraccettivi di barriera” (condom sia maschili che femminili) è possibile ammetterne la liceità come questo documento sembra fare? Una volta studiati i mezzi, è fondamentale analizzare i fini dell’atto e capire se sono o meno conformi alla natura dell’uomo. Infatti, come ha ricordato la prof.ssa Giorgia Brambilla in un’intervista del 31 luglio scorso: «La “natura”, in senso fisico-finalistico, esprime l’essenza di una cosa (“ciò che è”) in quanto ordinata al proprio fine, in quanto principio di attività e operazioni che hanno ciascuna un proprio fine e che concorrono, però, al fine complessivo e totalizzante di quell’essere. È la natura di qualcosa che ci indica quando siamo davanti a una assenza di bene-perfezione-essere che è anche “privazione”, cioè “male”. Ed è la sua natura a dirci quando il bene è, in qualche modo, “dovuto”. Quando ci chiediamo cosa è bene o male nell’ambito della sessualità, dobbiamo allora partire dalla considerazione della natura dell’atto sessuale e dunque dal suo fine intrinseco».
Dunque, è necessario ribadire che il tema non può essere compreso a pieno senza un’idea chiara di cosa sia il matrimonio e dei fini che esso si prefigge (senza i quali non c’è matrimonio). Per brevità, si escluderanno dalla trattazione tutti quegli atti effettuati al di fuori del vincolo coniugale che, secondo l’insegnamento perenne della Chiesa, costituiscono sempre un intrinseco disordine e sui quali, dunque, non dovrebbero esserci dubbi circa l’illiceità morale (il condizionale, purtroppo, è d’obbligo).
I suddetti fini sono stati mirabilmente descritti dal papa Pio XII, in un discorso tenuto all’Unione Cattolica Italiana Ostetriche, il 29 ottobre del 1951 (enfasi aggiunta): «[…] la verità è che il matrimonio, come istituzione naturale, in virtù della volontà del Creatore non ha come fine primario ed intimo il perfezionamento personale degli sposi, ma la procreazione e la educazione della nuova vita. Gli altri fini, per quanto anch’essi intesi dalla natura, non si trovano nello stesso grado del primo, e ancor meno gli sono superiori, ma sono ad esso essenzialmente subordinati. Ciò vale per ogni matrimonio, anche se infecondo; come di ogni occhio si può dire che è destinato e formato per vedere, anche se in casi anormali, per speciali condizioni interne ed esterne, non sarà mai in grado di condurre alla percezione visiva».
Per chi ritiene che un tale insegnamento vada a scapito del fine unitivo del matrimonio, il Pontefice risponde, nel medesimo documento: «Si vuole forse con ciò negare o diminuire quanto vi è di buono e di giusto nei valori personali risultanti dal matrimonio? Non certamente, poiché alla procreazione della nuova vita il Creatore ha destinato nel matrimonio esseri umani fatti di carne e di sangue, dotati di spirito e di cuore, ed essi sono chiamati in quanto uomini e non come animali irragionevoli, ad essere gli autori della loro discendenza. A questo fine il Signore vuole l’unione degli sposi».
Questo insegnamento, seppur messo in discussione, rimane sempre valido perché fondato nella Tradizione della Chiesa e nella Sacra Scrittura (cfr. Gen. 1, 27-28 e 2, 18-23). È interessante notare come san Tommaso d’Aquino, ad esempio, paragona il matrimonio alla nutrizione, argomentando che il matrimonio tende di per sé alla procreazione, proprio come la nutrizione ha come fine principale la conservazione della vita (Supplemento della Summa, q. 65, a. 1). E non si ferma qui, ma classifica il male della contraccezione immediatamente dopo l’omicidio, in quanto il primo distrugge la natura umana e il secondo la previene dal venire all’essere (Contra Gentes, 1, 3, c. 122).
Ebbene, la contraccezione è una esplicita contraddizione del fine primario del matrimonio, motivo per cui Pio XI, nella sua enciclica Casti Connubii, del 31 dicembre 1930, affermò: «[…] non vi può esser ragione alcuna, sia pur gravissima, che valga a rendere conforme a natura ed onesto ciò che è intrinsecamente contro natura. E poiché l’atto del coniugio è, di sua propria natura, diretto alla generazione della prole, coloro che nell’usarne lo rendono studiosamente incapace di questo effetto, operano contro natura, e compiono un’azione turpe e intrinsecamente disonesta».
È utile aggiungere che, nelle recenti encicliche Humanae Vitae (25 luglio 1968), di Paolo VI e Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II (22 novembre 1981), si è evidenziato come la contraccezione costituisca anche un attacco al fine secondario del matrimonio. Questi, in definitiva, sono i motivi principali per cui la contraccezione va combattuta in se stessa e non solo in funzione della possibile abortività di determinate tecniche contraccettive. Limitare la discussione a quest’ultimo aspetto risulterebbe miope e non permetterebbe un integrale contrasto del male insito in questi atti e le sue conseguenze più gravi, prima fra tutte una mentalità profondamente edonista (che relega il fine dell’atto coniugale al solo piacere) causa di gravi delitti, come l’aborto procurato, extrema ratio di una contraccezione che, non di rado, fallisce.
di Fabio Fuiano
Lo scorso luglio è stato pubblicato un nuovo libro di ben 528 pagine, a cura di Mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita (PAV), intitolato Etica teologica della vita. Scrittura, tradizione, sfide pratiche (Libreria Editrice Vaticana), che raccoglie gli atti di un seminario di studio promosso dalla medesima Accademia. In esso, tra i vari argomenti trattati, riemerge nuovamente un tema particolarmente ostico, quello della contraccezione. Prendendo spunto dall’enciclica Amoris Laetitia, a p. 304 di questo studio si legge: «La responsabilità nella generazione richiede un discernimento pratico che non può coincidere con l’applicazione automatica e l’osservanza materiale di una norma, come è evidente nella pratica stessa dei metodi naturali. […] Ci sono infatti condizioni e circostanze pratiche che renderebbero irresponsabile la scelta di generare […]».
E quindi prosegue affermando che i due sposi «[…], possono operare un saggio discernimento nel caso concreto, che senza contraddire la loro apertura alla vita, in quel momento, non la prevede. La scelta saggia verrà attuata valutando opportunamente tutte le tecniche possibili in riferimento alla loro specifica situazione ed escludendo ovviamente quelle abortive» (enfasi aggiunta).
Secondo la Teologia Morale, la contraccezione è intesa come una «regolamentazione delle nascite, viziata o per la intenzione di chi la compie o per i mezzi posti in opera per attuarla» (Dizionario di Teologia Morale, Roberti-Palazzini, Editrice Studium, 1955, vol. 1, pp. 449-451). Il male della contraccezione si situa dunque sul piano dei fini e/o dei mezzi. Nonostante siano passati tre mesi, l’argomento non perde la sua attualità. Pertanto, quel che segue vuole essere un umile contributo a dissipare la confusione nell’attuale dibattito, in quanto qui è in gioco direttamente la salvezza delle anime e, come si sa, la salvezza delle anime è la legge suprema della Chiesa.
Lo studio della PAV sottolinea, giustamente, che tra i diversi mezzi contraccettivi, in special modo quelli ormonali (es. pillola del giorno dopo o pillola dei cinque giorni dopo), possono presentarsi dei meccanismi d’azione volti non solo ad impedire l’incontro dei gameti maschile e femminile (effetto contraccettivo strictu sensu), ma talvolta, pur non impedendo tale incontro, anche ad ostacolare l’impianto in utero dell’ovulo già fecondato, essere umano in nuce, provocandone direttamente la morte (effetto abortivo e non più contraccettivo). Ma la posizione manifestata dalla PAV, secondo la quale gli sposi potrebbero valutare “tutte le tecniche possibili escludendo quelle abortive” risulta, in definitiva, difettosa in quanto mette in discussione la possibile abortività di certi contraccettivi ma non la contraccezione in sé. Se ci si trova davanti a contraccettivi che operano solamente secondo effetti contraccettivi, come ad esempio i c.d. “contraccettivi di barriera” (condom sia maschili che femminili) è possibile ammetterne la liceità come questo documento sembra fare? Una volta studiati i mezzi, è fondamentale analizzare i fini dell’atto e capire se sono o meno conformi alla natura dell’uomo. Infatti, come ha ricordato la prof.ssa Giorgia Brambilla in un’intervista del 31 luglio scorso: «La “natura”, in senso fisico-finalistico, esprime l’essenza di una cosa (“ciò che è”) in quanto ordinata al proprio fine, in quanto principio di attività e operazioni che hanno ciascuna un proprio fine e che concorrono, però, al fine complessivo e totalizzante di quell’essere. È la natura di qualcosa che ci indica quando siamo davanti a una assenza di bene-perfezione-essere che è anche “privazione”, cioè “male”. Ed è la sua natura a dirci quando il bene è, in qualche modo, “dovuto”. Quando ci chiediamo cosa è bene o male nell’ambito della sessualità, dobbiamo allora partire dalla considerazione della natura dell’atto sessuale e dunque dal suo fine intrinseco».
Dunque, è necessario ribadire che il tema non può essere compreso a pieno senza un’idea chiara di cosa sia il matrimonio e dei fini che esso si prefigge (senza i quali non c’è matrimonio). Per brevità, si escluderanno dalla trattazione tutti quegli atti effettuati al di fuori del vincolo coniugale che, secondo l’insegnamento perenne della Chiesa, costituiscono sempre un intrinseco disordine e sui quali, dunque, non dovrebbero esserci dubbi circa l’illiceità morale (il condizionale, purtroppo, è d’obbligo).
I suddetti fini sono stati mirabilmente descritti dal papa Pio XII, in un discorso tenuto all’Unione Cattolica Italiana Ostetriche, il 29 ottobre del 1951 (enfasi aggiunta): «[…] la verità è che il matrimonio, come istituzione naturale, in virtù della volontà del Creatore non ha come fine primario ed intimo il perfezionamento personale degli sposi, ma la procreazione e la educazione della nuova vita. Gli altri fini, per quanto anch’essi intesi dalla natura, non si trovano nello stesso grado del primo, e ancor meno gli sono superiori, ma sono ad esso essenzialmente subordinati. Ciò vale per ogni matrimonio, anche se infecondo; come di ogni occhio si può dire che è destinato e formato per vedere, anche se in casi anormali, per speciali condizioni interne ed esterne, non sarà mai in grado di condurre alla percezione visiva».
Per chi ritiene che un tale insegnamento vada a scapito del fine unitivo del matrimonio, il Pontefice risponde, nel medesimo documento: «Si vuole forse con ciò negare o diminuire quanto vi è di buono e di giusto nei valori personali risultanti dal matrimonio? Non certamente, poiché alla procreazione della nuova vita il Creatore ha destinato nel matrimonio esseri umani fatti di carne e di sangue, dotati di spirito e di cuore, ed essi sono chiamati in quanto uomini e non come animali irragionevoli, ad essere gli autori della loro discendenza. A questo fine il Signore vuole l’unione degli sposi».
Questo insegnamento, seppur messo in discussione, rimane sempre valido perché fondato nella Tradizione della Chiesa e nella Sacra Scrittura (cfr. Gen. 1, 27-28 e 2, 18-23). È interessante notare come san Tommaso d’Aquino, ad esempio, paragona il matrimonio alla nutrizione, argomentando che il matrimonio tende di per sé alla procreazione, proprio come la nutrizione ha come fine principale la conservazione della vita (Supplemento della Summa, q. 65, a. 1). E non si ferma qui, ma classifica il male della contraccezione immediatamente dopo l’omicidio, in quanto il primo distrugge la natura umana e il secondo la previene dal venire all’essere (Contra Gentes, 1, 3, c. 122).
Ebbene, la contraccezione è una esplicita contraddizione del fine primario del matrimonio, motivo per cui Pio XI, nella sua enciclica Casti Connubii, del 31 dicembre 1930, affermò: «[…] non vi può esser ragione alcuna, sia pur gravissima, che valga a rendere conforme a natura ed onesto ciò che è intrinsecamente contro natura. E poiché l’atto del coniugio è, di sua propria natura, diretto alla generazione della prole, coloro che nell’usarne lo rendono studiosamente incapace di questo effetto, operano contro natura, e compiono un’azione turpe e intrinsecamente disonesta».
È utile aggiungere che, nelle recenti encicliche Humanae Vitae (25 luglio 1968), di Paolo VI e Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II (22 novembre 1981), si è evidenziato come la contraccezione costituisca anche un attacco al fine secondario del matrimonio. Questi, in definitiva, sono i motivi principali per cui la contraccezione va combattuta in se stessa e non solo in funzione della possibile abortività di determinate tecniche contraccettive. Limitare la discussione a quest’ultimo aspetto risulterebbe miope e non permetterebbe un integrale contrasto del male insito in questi atti e le sue conseguenze più gravi, prima fra tutte una mentalità profondamente edonista (che relega il fine dell’atto coniugale al solo piacere) causa di gravi delitti, come l’aborto procurato, extrema ratio di una contraccezione che, non di rado, fallisce.
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