Di Marcello Veneziani, su La Verità del 14 Ottobre 2022.
Quando è avvenuto il
passaggio della sinistra da contropotere a potere, da Piazza a Palazzo? Lo
diciamo tante volte, ma sfugge il passaggio chiave. Gli indizi di superficie
sono molteplici e fin troppo noti: a est il fallimento delle esperienze
comuniste, a ovest il collasso dello statalismo assistenziale; sul piano
intellettuale il tramonto di Marx e dell’idea di rivoluzione e sul piano
sociale l’inclusione di militanti, agenti e funzionari di sinistra
nell’apparato pubblico, nel settore privato e nella magistratura, nella scuola,
nell’università, nell’editoria, nello spettacolo. Inclusione che, oltre gli
effetti politici e ideologici ben noti, ha comportato anche l’inevitabile
imborghesimento del ceto progressista e l’upgrade nell’establishment. Possiamo
anche periodizzare questo processo: è avvenuto dopo il’68, lungo gli anni
settanta, poi espandendosi negli anni seguenti fino a integrarsi e
compenetrarsi coi poteri e le istituzioni. Il vantaggio è reciproco: al
capitale ha dato una “buona coscienza” etica e una legittimazione sul piano
dell’emancipazione e della difesa dei diritti umani e civili; e alla sinistra
ha dato un potere di influenza e di interdizione, e la direzione culturale e
civile.
Ma tutto questo ancora non
spiega il motivo centrale del connubio tra sinistra e capitale, la saldatura di
due egemonie, tra potere economico e potere culturale. Cosa ha determinato
quella convergenza? E’ il comune proposito di sostituire il mondo comune
fondato sulla realtà con il mondo uniforme fondato sui desideri indotti; il
desiderio di un mondo nuovo per la sinistra e di nuovi mercati per il capitale.
Come avviene questo cambio? Cancellando, disprezzando e spezzando i legami, i
confini, i limiti. Quel che a sinistra chiamano emancipazione, liberazione,
progresso; e in gergo capitalistico chiamano sviluppo, consumo,
modernizzazione. La parola chiave di ambedue è sradicamento, l’identità si
dissolve: è ritenuto uomo libero chi non ha legami né appartenenze, fluido in
un mondo liquido, proiettato nei suoi desideri anziché ormeggiato alle sue
eredità e alla sua natura; connesso al suo tempo e al web, ma sconnesso dal suo
luogo e dai suoi legami comunitari. In tal modo diventa cittadino del mondo,
uomo senza confini (anche sessuali), individuo emancipato e globale,secondo il
sogno convergente dell’internazionalismo di sinistra e della globalizzazione
capitalista.
Il mondo da abbattere non
viene denominato per quel che è – la realtà dei legami religiosi e civili,
familiari e comunitari – ma viene ribattezzato in negativo come razzismo,
fascismo, omotransfobia, antifemminismo.
Questa convergenza ha una
precisa ricaduta sociale: dichiarare guerra ala mondo comune, alla realtà, alla
natura, al contesto in cui vive l’uomo da sempre, significa rompere con i
popoli e ripartire dalle elites. Oligarchie economiche e finanziarie ,
politiche e intellettuali, nemiche del comune sentire, delle radici popolari e
dei legami. E’ La Ribellione delle Elite, di cui scrisse nel 1994 un
lucido sociologo americano, Cristopher Lasch, che faceva il verso a La
ribellione delle masse di Ortega y Gasset (1930).
Nelle sue opere Lasch notava
quel che acuti osservatori nostrani di opposta estrazione come Augusto del Noce
e Pier Paolo Pasolini avevano già colto: i contestatori, i rivoluzionari, la
sinistra radicale dichiaravano guerra al capitalismo, ma poi combattevano il
patriottismo, la religione, la famiglia tradizionale, ritenendo così di colpire
il cuore e le retrovie del capitalismo. La loro lotta, invece, era del tutto
funzionale al capitalismo, che voleva abbattere proprio quegli argini e
disfarsi di quei legami che si opponevano all’instaurazione di una società
completamente sradicata di individui soli, facile preda del consumismo. Anche
Karl Marx, nel Manifesto, aveva spiegato che con il capitalismo “si
dissolvono tutti i rapporti sociali stabili e fissi, con il loro seguito di
concezioni tradizionali e venerabili”. Per ottusità, presunzione o malafede la
sinistra ha ignorato il Manifesto di Marx (non un autore reazionario) ed
è diventata sicario della società tradizionale con la benedizione del capitale…
Cancellando i credenti, i familiari, i patrioti, restano solo i consumatori: di
merci e di ideologie. “Ci si libera dalla tradizione solo per piegarsi alla
tirannia della moda”, nota Lasch nel saggio Contro la cultura di massa
(edito ora da Eleuthera).
La libertà consiste nello
scegliere tra marchi, prodotti, “opinioni preconfezionate e ideologie
progettate da opinion makers; il processo avverrà, notava trent’anni fa
Lasch, “distruggendo la memoria collettiva, sostituendo un’autorità
responsabile con un nuovo star system”, oggi diremmo con gli influencer
e le fabbriche del consenso manipolato. Resterà come illusoria gratifica quel
“narcisismo di massa” di cui scrisse Larsch ne La cultura del narcisismo:
è il nuovo oppio dei popoli, ridotti a formato single davanti allo specchio
(alias uno smartphone).
Lasch auspicava un’alleanza
per resistere all’assimilazione, allo sradicamento e alla modernizzazione
forzata. Per Simone Weil “lo sradicamento sradica tutto, salvo il bisogno di
radici”.
Ecco dov’è il punto di fusione
fra sinistra e capitale, nella dissoluzione dei legami naturali, eligiosi e
comunitari spacciata per emancipazione e liberazione dai mostri. Ti tolgono
tutto, poi ti dicono: hai meno pesi e vincoli, ora sei libero di correre. Poi
ti dicono dove andare, cosa comprare e che strada percorrere.
Fonte il web
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