martedì 25 ottobre 2022

Dovremmo scusarci con i martiri nordamericani




Phil Lawler, Catholic culture 

Ogni anno, in questa data – in cui ricorre la festa dei martiri nordamericani – mi ritrovo a pormi lo stesso tipo di domande. I missionari gesuiti del XVII secolo erano colpevoli di proselitismo? Rispettavano le culture indigene? San Jean de Brebeuf avrebbe chiesto la benedizione di uno sciamano irochese? Sant’Isacco Jogues cos'avrebbe risposto alla venerazione della Pachamama?
Veneriamo i martiri missionari, che volontariamente hanno dato la vita per portare le anime a Cristo. Ma oggi rifuggiamo dall’opera che si prefissavano. Erano loro a sbagliare o siamo noi?


Quando le autorevoli gerarchie cattoliche si scusano per il mancato rispetto delle culture indigene, ci stiamo forse scusando per questi martiri? Se è così, perché manteniamo i loro nomi nel nostro calendario liturgico? E se non ci scusiamo – se davvero onoriamo la loro opera, cerchiamo la loro intercessione e crediamo che abbiano ottenuto la più preziosa delle vittorie – perché siamo riluttanti a imitarli?


Per i martiri gesuiti, il lavoro missionario non era solo una questione di vita o di morte; riguardava qualcosa di ancor più importante, la salvezza e la dannazione. Perciò potevano sopportare la tortura e la morte, sicuri che ciò che offrivano ai nativi americani valeva il prezzo – un prezzo che loro stessi erano pronti a pagare, per amore di persone che li disprezzavano. Potevano accettare di vivere in condizioni primitive, rinunciando alle comodità della loro Francia nativa, per conquistare la fiducia di questo popolo. Ma non potevano accettare le religioni primitive dei nativi.


Naturalmente questi missionari gesuiti non erano unici. Venivano da una lunga serie di eroici testimoni della fede, che non mostravano alcuna remora ad abbattere miti e santuari pagani. San Bonifacio abbatté la quercia di Thor. Il profeta Elia mise in difficoltà i sacerdoti di Baal e poi li eliminò. Questi uomini, che oggi onoriamo, non celebravano la diversità. Erano critici. Ed erano santi.


A meno che qualcosa di fondamentale della nostra fede non sia cambiato nel corso degli anni, le credenze e le azioni che hanno reso santi i missionari gesuiti francesi qualche centinaio di anni fa dovrebbero produrre santi oggi. Ciò che era giusto e virtuoso allora deve essere giusto e virtuoso anche oggi. Che cosa è successo, allora, che ci fa esitare a dire che la nostra fede cristiana è superiore alla fede dei pagani – superiore; il che è la verità, mentre le loro credenze sono false?


Il mio vecchio amico, il defunto padre Paul Mankowski, anch’egli gesuita, una volta ha osservato che alla fine del XVII secolo, in America, il martirio era la principale causa di morte tra i gesuiti; alla fine del XX secolo è l’AIDS. Nello stesso giorno in cui rifletto sui martiri nordamericani, vedo la notizia che l’Università di Georgetown, un’istituzione con un’orgogliosa tradizione gesuita, sta ora insegnando agli studenti di medicina come aiutare i giovani a negare la loro vera identità sessuale, data da Dio [vedi anche]. Quanta strada ha fatto la Compagnia di Gesù!


Oggi è di moda scusarsi per gli audaci missionari che hanno portato la fede in terre in cui non era benvenuta – di moda, direi, perché il cristianesimo, oggi, è ancora una volta non gradito. Per quanto mi riguarda, dico che sì, dovremmo scusarci, ma non per i missionari martiri. Dovremmo scusarci con loro, per la timidezza e l’ipocrisia che, mentre ci permettono di celebrare la loro santità, ci consentono di rifuggire dal loro esempio.





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