Di Silvio Brachetta 28 OTT 2022
Luca Gino Castellin, docente all’Università cattolica del Sacro Cuore, fa un sunto del «realismo cristiano» e del «realismo politico», su L’Osservatore Romano del 24/10/2022 [qui]. Ne nasce una teoria politica del compromesso che, da un decennio, cerca di farsi largo – e certamente si è fatta largo – nella Dottrina sociale e nel magistero della Chiesa, fino a scendere tra i fedeli cattolici.
Per provare le sue tesi, Castellin fa riferimento ai soli autori della modernità. Nell’articolo, egli cita il teologo protestante Reinhold Niebuhr, equidistante dal «realismo cinico» e dall’«idealismo sentimentale». Il discorso sembra filare: il cattolico (dunque anche il cattolico in politica) non può cedere né al nudo corso dei fatti storici, né all’idealismo inconcludente e romantico, che non realizza nulla. E porta ad esempio l’Evangelii gaudium di Papa Francesco, secondo cui «la realtà è superiore all’idea».
Ma il discorso fila sino a un certo punto. Se s’intende che il politico debba (o tenti di) tradurre la teoria in pratica, o se l’idea è null’altro che la ricerca speculativa del mezzo normativo attraverso cui si vuole raggiungere il fine del bene comune, la realtà è certamente superiore all’idea. Se, al contrario, l’idea è qualcosa di assai più elevato del semplice pensiero (se cioè è l’ideale che muove il politico, se è il suo orizzonte di pensiero o se è la fede che muove il cristiano), allora Castellin cade nell’equivoco, che separa dottrina e realtà.
Quando l’idea è un semplice prodotto cartesiano del pensiero umano, si coglie in che misura la realtà fattuale sovrasta ogni opinione. Ma se l’idea è la sostanza o la forma metafisica che regge e governa le cose – proprio nel senso teologico del termine – intuita per via filosofica o comunicata per rivelazione divina, allora è un errore porre una distanza tra le idee e la realtà, perché si potrebbe fraintendere e credere che la dottrina (che procede dalle idee sostanziali) non sia a fondamento della realtà medesima.
E si giunge appunto al rigetto tout court dell’idea, della dottrina, ridotta a puro materiale opinabile, da usare solo per un dialogo di compromesso. Niente più, allora, «principi non negoziabili», dogmi, punti fermi e conoscenze di fede: il politico cattolico – secondo la visione di Castellin – si dovrebbe limitare alla concretezza della storia e all’accordo (opportuno, opportunista) tra le idee in gioco.
Non è strano giungere a conclusioni di questo tipo. Nel Dizionario di DSC (online, dell’Università cattolica, qui), alla voce «Realismo politico e realismo cristiano», Castellin comincia a declinare il realismo politico dalle speculazioni di Tucidide, Machiavelli, e Hobbes, avversate da Gerhard Ritter e da Jacques Maritain. La conclusione del realismo politico aconfessionale è scontata: «Tradizionalmente, il realismo politico viene interpretato come una dottrina pragmatica di compromesso con – o di adeguamento a – le ‘regole’ del potere».
Con Niebuhr e con il suo «realismo cristiano» – che Castellin ritiene scontato – il pessimismo machiavellico e hobbesiano nei confronti della natura umana viene sì contrastato, ma fino ad un certo punto: l’uomo resta con una natura «piuttosto flessibile», tra l’«amor proprio» (cattivo e predominante) e gli «impulsi sociali» (buoni e mortificati), che impongono comunque la ricerca del compromesso, sia verso gli altri che verso se stessi.
Il realismo cristiano, però, è altro da quello proposto (e coniato) da Niebuhr. Se fosse quello di Niebuhr, sarebbe sovrapponibile al «buon senso» inglese e degli anglicani. Ovvero: le cose vanno così e mi adatto. La vocazione del cristiano è ben altra: quando le cose vanno male, non mi adatto, ma cerco di ricondurle a Dio, alla sua verità.
Niebuhr e Castellin trascurano o non comprendono che il realismo cristiano nasce con Cristo e con la rivelazione: per intuirne l’essenza non dobbiamo affidarci ai moderni, ma al pensiero teologico degli autori maggiori, vissuti assai prima di Niebuhr o Maritain e decisamente più autorevoli. Non posso cioè definire il realismo cristiano sulle idee di Niebuhr o di Maritain, ma su quelle di Agostino d’Ippona o di Tommaso d’Aquino.
San Tommaso è chiaro sul realismo, che propone come commento al dato rivelato: l’eternidea è prima delle cose, nelle cose e (solo alla fine) dopo le cose, ovvero nel pensiero umano. La vocazione dell’uomo, cioè, deve prescindere dal fatto di una più o meno grave ferita della sua natura (a seguito del peccato adamitico) e guardare unicamente all’obbedienza alla fede e alla retta ragione. La ferita della natura non può mai essere il pretesto per la discesa nei compromessi, ma il penitente deve invece chiedere a Dio la restaurazione della natura – per via di grazia – ed è comunque tenuto ad agire secondo la sua credenza, che coincide con la fede.
Castellin, poi, confonde quanto legge nel Compendio di DSC (n. 183), a proposito degli sforzi umani per sconfiggere la povertà. Il Compendio – osserva Castellin – «mette anche in guardia “da posizioni ideologiche e da messianismi che alimentano l’illusione che si possa sopprimere da questo mondo in maniera totale il problema della povertà”». E, difatti, è un’utopia di tipo socialista il ritenere che la politica possa sconfiggere la povertà.
È sbagliato però concludere, da questo esempio, che «la realtà è superiore all’idea», poiché va distinta l’idea dall’ideologia e la dottrina dall’opinione. Fare leggi contro la povertà è un’idea in accordo con il principio della destinazione universale dei beni, del tutto conforme all’eternidea di Dio, mentre il volere eliminare la povertà è un’opinione ideologica. La prima è un’idea rivelata, il secondo è un pensiero privato e rivoluzionario.
Non si può quindi concludere, così come fa indirettamente Castellin, che bisogna cercare un accordo con altre opinioni, circa la destinazione universale dei beni, e giungere a leggi di compromesso.
Tanto meno è lecito cercare un compromesso sulle scelte politiche e sociali legate alla vita umana e alla famiglia. In questo caso siamo fuori tanto dal realismo cristiano, quanto dal realismo politico. L’immoralità dell’omicidio o dell’adulterio non dovrebbero prevedere alcuna prospettiva di compromesso tra il bene e il male.
Eppure, è proprio a causa di questa nuova teologia fasulla, la quale attecchisce nelle curie e nelle facoltà universitarie, che il realismo cristiano (non quello di Niebuhr e Castellin) e la politica conseguente sono etichettati come «visione perfettista», quasi che il cattolico dovesse essere «anti-perfettista» per definizione.
Di natura debole, di pensiero debole, di fede debole, anti-perfettista, anti-identitario: questo il nuovo profilo del cristiano e del politico «realista», secondo questa subdola teologia del compromesso.
Silvio Brachetta
Nessun commento:
Posta un commento