Aldo Maria Valli, 28-02-2020
Tutti abbiamo sentito parlare dei pastorelli di Fatima. Molti di noi hanno letto libri sulle apparizioni e, almeno grosso modo, conosciamo i fatti. Ma chi erano i tre bambini? Come vivevano e, soprattutto, come vissero quei giorni? Che cosa pensavano mentre erano protagonisti di una vicenda tanto eccezionale? E che cosa ci insegna la loro storia?
Con Giacinta (Etabeta, 136 pagine, 12 euro) padre Serafino Tognetti ci accompagna nel mondo piccolo di una di quei tre bimbi: Giacinta Marto, che all’epoca delle apparizioni aveva sette anni, due meno del fratello Francisco e tre meno della cugina Lucia dos Santos, l’unica dei tre che raggiunse l’età adulta e anzi morì molto anziana, a novantotto anni.
Perché proprio Giacinta? Padre Serafino spiega che è stata una questione di sguardi. Osservando la foto dei pastorelli, è rimasto colpito dal volto di Giacinta, da quel cipiglio, da quegli occhi da grande in un viso di bambina. “Un piccolo generale in gonnella”, così la definisce l’autore. Una bimba che, se fosse andata a scuola (ma non ci andava) avrebbe fatto solo la seconda elementare, eppure capì al volo il significato soprannaturale di ciò che le stava succedendo e prese tremendamente sul serio le richieste della Vergine.
Francesco era più delicato e timido, quasi mesto. Lucia, la cugina, con i suoi dieci anni era già quasi un’adolescente in quel tempo in cui si cresceva molto in fretta. Giacinta invece colpisce perché, pur così piccola, è consapevole. Fin da subito sa che il destino non solo suo, ma di tante persone, è nelle sue mani. “Si sente mediatrice” e, proprio perché bambina, priva di malizia e con il cuore puro, non ha mai un ripensamento, né sta a interrogarsi su se stessa, ma si lascia riempire dalla potenza divina e ne diviene strumento.
Il terzetto conduceva una vita segnata dalla semplicità e dall’essenzialità. Nata l’11 marzo del 1910 (lo stesso anno in cui padre Pio fu ordinato sacerdote e il papa san Pio X promulgò il Giuramento della fede a cui erano tenuti i membri del clero per combattere il modernismo), Giacinta aveva nella cugina Lucia l’amatissima compagna di giochi. E quando a Lucia la famiglia affidò il compito di occuparsi del piccolo gregge di pecore, chiese ai suoi di poterla seguire. Il papà di Giacinta diede il permesso, a patto che tenessero con loro anche il taciturno Francisco. Fu così che tra la fine del 1915 e i primi mesi del 1916, mentre in Europa infuriava la guerra, si formò il gruppetto.
Circa il carattere deciso di Giacinta, padre Serafino scrive: “Una volta cresciuta e cominciando a manifestarsi in lei le caratteristiche dominanti del suo temperamento, apparve chiara in lei una virtù che sarà fondamentale per rendere credibile nella sua casa, a suo tempo, la veridicità delle future apparizioni: la sincerità”. Giacinta era una di quelle rare persone che hanno un istinto radicato per la verità e non sopportano alcun inganno o bugia. Anche per questo divenne, nonostante l’età, una testimone autorevole e combattiva, per niente disposta a lasciarsi manipolare o condizionare.
Difetti? Certo, anche lei ne aveva. Lucia racconta che se la prendeva facilmente e, durante i giochi, capitava che mettesse il muso. Era permalosa e anche ostinata, molto. Un concentrato di energia in un corpicino minuscolo e quasi insignificante. Quanto alla preparazione religiosa, non si può proprio dire che fosse eccelsa. Giacinta non andava a scuola, non sapeva né leggere né scrivere, non andava al catechismo, non aveva fatto la prima comunione. Però in famiglia aveva imparato le preghiere ed era stata educata alle virtù cristiane, al rispetto degli altri e al culto di Dio.
Dopo la prima apparizione, il 13 maggio del 1917, Lucia impone a Giacinta e a Francisco di non raccontare niente a nessuno. Ma Giacinta non ci riesce. Proprio perché incapace di dissimulazione, riferisce tutto alla mamma, ed è così che la notizia incomincia a diffondersi e Giacinta diventa, di fatto, la prima apostola di Fatima.
Non bisogna mai dimenticare, e padre Serafino lo sottolinea, che i tre bambini ebbero la visione dell’inferno. E ovviamente ne furono terrorizzati. In questi nostri tempi di politicamente corretto, e di religione ridotta a sentimentalismo consolatorio, è qualcosa di inconcepibile. Ma i tre furono messi di fronte all’orrore del castigo divino riservato ai peccatori. E lo furono perché era necessario. “Molti vanno all’inferno – disse la Vergine parlando ai tre bambini – perché non c’è nessuno che preghi e si sacrifichi per loro”. Dunque, i bambini capirono subito quale fosse il loro dovere: sacrificarsi per limitare il numero dei dannati. E Giacinta da quel momento non smise più di prendere sul serio il compito affidatole da Maria.
Come può sacrificarsi una bambina di sette anni che vive in un luogo sperduto e povero e passa le sue giornate badando a un gregge di trenta pecore? Semplice: per esempio, rinunciando alla merenda, oppure a un bicchier d’acqua sotto il sole cocente, oppure recitando il rosario quando invece sarebbe il momento di giocare.
Nel mondo piccolo di Giacinta anche i sacrifici, ai nostri occhi, sembrano piccoli. Ma per lei di certo non lo erano. Dare la merenda alle pecore (ma l’idea, in verità, venne a Francisco) può far sorridere, ma bisogna immaginare che cosa significava quel gesto per bambini che non avevano quasi nulla.
Fatima, il fenomeno Fatima, nacque così, all’insegna della piccolezza. E del sacrificio. La cui espressione più semplice e immediata è il digiuno.
Dobbiamo anche immaginare il trambusto nel cuore e nell’anima di Giacinta. La Madonna non solo le fece vedere l’inferno, ma le disse che il Santo Padre avrebbe molto sofferto. Ma che ne poteva sapere la piccola Giacinta del Santo Padre? A stento sapeva che esisteva il papa e che stava a Roma, ma era come parlare di un marziano. Eppure, subito si mise a fare sacrifici anche per questo misterioso Santo Padre, per evitargli le sofferenze.
Avrete già capito che il libro di padre Serafino, pur essendo essenzialmente una cronaca, è anche un’opera di alta teologia. E non solo perché l’autore di tanto in tanto inserisce riflessioni di don Divo Barsotti, il fondatore della Comunità dei Figli di Dio di cui padre Serafino è stato il primo successore, ma perché nella vicenda ci sono tutte le componenti tipiche della presenza e dell’azione di Dio: la piccolezza, la semplicità, la marginalità, l’obbedienza. E la sofferenza.
Alla fine del 1918, dopo poco più di un anno dalle apparizioni ufficiali, Francisco e Giacinta si ammalarono, quasi contemporaneamente. E le pagine che padre Serafino dedica agli ultimi tempi sono le più struggenti. Giacinta prima assiste alla morte del fratello, poi sale lei stessa sul Calvario. All’influenza spagnola, la pandemia che tra il 1918 e il 1920 fece milioni di vittime in Europa e nel mondo intero, si aggiunse una broncopolmonite con un doloroso ascesso nella pleura. Fu deciso il ricovero in ospedale e Giacinta, pur consapevole che non sarebbe servito a conservarle la vita, lasciò fare. Sapeva benissimo che la sua sofferenza rientrava in quel piano divino di cui le aveva parlato la Vergine: soffrire per sottrarre anime all’inferno e per aiutare il Santo Padre. Ne era totalmente consapevole, al punto che disse: “Soffro molto, ma per la conversione dei peccatori e per il Santo Padre. Mi piace tanto soffrire per amore di Gesù e di Maria. Essi sono molto contenti di chi soffre per la conversione dei peccatori”. E quando pronunciò queste parole aveva otto anni!
Sono tante le riflessioni di Giacinta che andrebbero riportate. Poiché non aveva frequentato il catechismo, non poteva ricevere l’Eucaristia, ma la desiderava tanto. Invidiava la cugina Lucia, che poteva comunicarsi e ricevere il “Gesù nascosto”, e le chiedeva di starle vicina. Esclamava: “Oh Gesù nascosto! Se potessi riceverlo in chiesa. Se in Cielo si farà la comunione, io mi comunicherò tutti i giorni!”. E padre Serafino commenta: “Non so se si possa esprimere con un linguaggio più ingenuo, ma più corretto, il rapporto intimo della creatura con il Creatore nel dono della santa Eucaristia. In Cielo non si fa la comunione perché si è comunione”.
Prima della morte a Giacinta non fu risparmiato neppure un trasferimento a Lisbona, con relativo strappo dalla mamma e dalla famiglia. “Non ci pensare”, le disse Lucia nel tentativo di consolarla, ma Giacinta, prontissima, rispose: “Lascia che ci pensi, perché più ci penso e più soffro, e io voglio soffrire per amore del Signore e per i peccatori. E poi non m’importa: la Madonna verrà a prendermi per portarmi in Cielo”.
Giacinta muore alle dieci e mezza di sera del 20 febbraio 1920. Non ha ancora compiuto dieci anni. Nel pomeriggio chiese con insistenza di poter ricevere il viatico. Il parroco venne e la confessò, ma non le diede la comunione.
Giacinta fu composta con un abito bianco e una fascia azzurra ai fianchi. Lei stessa aveva chiesto di essere vestita così. Beatificata da Giovanni Paolo II il 13 maggio 2000, la bambina, come il fratello Francisco, è stata proclamata santa il 13 maggio 2017 da papa Francesco in occasione del centenario della prima apparizione della Madonna di Fatima. Santi non perché videro la Madonna, ma per come vissero, e morirono, dopo averla vista.
In un bel capitolo, intitolato Alla scuola dei bambini, padre Serafino unisce alla storia di Giacinta quelle di altri piccoli santi: Antonietta Meo detta Nennolina, Laura Vicuña, Mari Carmen, Simone Sassi, José Luis Sanchez del Rio, Odette Vidal Vieira, Giuseppe Ottone, Nellie Organ, Manuel Foderà. Padre Serafino lo chiama “l’esercito dei bambini”, un plotone di testimoni della fede che Gesù pone in mezzo a noi dicendoci: “Siate come loro. Altrimenti non entrerete”.
Aldo Maria Valli
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