mercoledì 19 febbraio 2020

«Dottore, mi aiuti a guarire». «Perché non chiede l’eutanasia?»





Manon non è stanca di vivere ma i medici si sono stancati di quelli come lei. Malati psichiatrici e mentali, candidati a forza alla “buona morte” in Olanda




Caterina Giojelli, 19 febbraio 2020

«Che ne dici di chiedere l’eutanasia?». Manon era allibita: a suggerirle di farla finita era stato il suo nuovo psichiatra, l’ultimo di una lunga serie a cui la donna olandese era andata con fatica e speranza a chiedere aiuto. «Possono qualificartiۛ», le aveva spiegato, assicurandole che aveva già tentato tutto quello che si poteva tentare per convivere con una diagnosi di disturbo da stress post-traumatico complesso come la sua, «ma io chiedo un aiuto per guarire, non per morire», aveva pensato la donna arrabbiata, stupefatta.

«IO VOGLIO VIVERE. NON VOGLIO MORIRE»

«Questo accadeva circa sette anni fa», quando l’eutanasia per i malati psichiatrici non era ancora a regime e i sofferenti come Manon potevano dar vita a una domanda di cura a mezzo “buona morte” dei disturbi mentali. Tre anni dopo Manon era a pezzi e le venne proposto di tentare la terapia elettrocompulsiva, «e se non mi aiutasse?», aveva chiesto al nuovo medico che l’aveva in cura, «allora potremo virare sulla traiettoria dell’eutanasia» le fu risposto. Oggi Manon continua a soffrire. Non è affatto contraria all’eutanasia e non esclude di prenderla in considerazione un giorno ma non oggi, «io voglio davvero vivere. Il mondo gira al contrario» dice di un mondo in cui lei non è stanca di vivere ma i medici sono stanchi di lei. E presentano l’ipotesi letale come unica via d’uscita da sofferenze come la sua.

LA BUONA MORTE PER LE DONNE

Da quando è legale per i malati psichiatrici, nei Paesi Bassi le richieste di eutanasia stanno aumentando. E “informare” le persone della possibilità che viene loro offerta, far sapere che accanto a una medicina che cura ce n’è un’altra che “aiuta” in un altro modo, sta diventando il pallino di molti medici. Una recentissima indagine commissionata dal Ministero della sanità pubblica all’Euthanasia Expertise Center ha dimostrato che la nuova falange di pazienti psichiatrici (oltre 3.500 dal 2012) che negli ultimi anni ha rivendicato la “buona morte” è composta al 60 per cento da donne, e che tre quarti dei pazienti psichiatrici che ne ha poi beneficiato erano donne. Età media cinquant’anni, tra le cause di sofferenza “senza speranza” più riscontrate nelle pazienti figuravano la depressione, il bullismo, abusi sessuali, disturbi da stress post traumatico. Come Manon.

PURCHÉ SI PARLI DI MORIRE

Lo studio approda anche a conclusioni bizzarre, come sostenere che siccome solo il 9,5 per cento delle domande sono state esaudite, non solo per inammissibilità al protocollo, ma perché nella metà dei casi i pazienti hanno deciso spontaneamente di ritirare la richiesta di eutanasia e optare per vivere, «ciò dimostra quanto sia importante prenderla in considerazione e avviare un discorso sulla morte che non finisce sempre con la morte» sostiene il direttore del centro Steven Pleiter. Peccato che tra il dovere prendere in considerazione l’eutanasia, presentata appunto come panacea di tutte le sofferenze possibili e patibili, e il farla finita una correlazione esiste lo stesso: chi non viene ammesso al protocollo o riceve tempi di attesa troppo lunghi o ancora si trova a discutere questa scelta con gli psichiatri finisce per risolvere la faccenda da solo, tentando quel gesto estremo, il suicidio, che si è rivelato fatale per sessanta dei pazienti oggetto di studio.

DEPRESSI E PEGGIO ISTRUITI

Ogni anno l’Euthanasia Expertise Center dà la “buona morte” a una sessantina di persone come Manon. Separare il desiderio di morire da una sofferenza psicologica è difficile, giocare con la morte è spesso parte dei disturbi borderline, ma come non temere che una maggiore offerta crei ulteriore domanda tra pazienti psichiatrici per definizione sprovvisti di quell’esercizio di libertà e autodeterminazione che sta alla base della retorica eutanasica? Sarebbe come non riflettere su un’altra caratteristica emersa dallo studio: il 40 per cento di chi aveva avanzato richiesta di eutanasia aveva un grado di istruzione notevolmente basso e al di sotto della media olandese. Secondo i ricercatori, le persone istruite dispongono di maggiori risorse per affrontare le conseguenze della loro malattia e sono più in grado di richiedere e ricevere aiuto. Curioso che proprio dalla società di intellettuali e meglio istruiti sia disceso al “popolo” quel principio per cui i difettosi è meglio eliminarli e gli inguaribili pietosamente sopprimerli. Curioso che a fare le spese del laboratorio eutanasia nei paesi più progrediti nei diritti civili siano sempre i più sprovveduti.

Foto Ansa










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