sabato 29 febbraio 2020

Il Papa che si dimise





di Marcello Veneziani, 28-02-2020

Come oggi [28 febbraio ndr], sette anni fa Benedetto XVI lasciava il pontificato ed entrava nella penombra del papato emerito. Ero presente in San Pietro quella mattina. C’era il sole, la piazza era gremita e il Papa citava più volte il cuore per suscitarlo; ma invano. Mi era accaduto altre volte di tagliare con gli occhi un’atmosfera tesa, partecipe e dolente come fu alla morte di Giovanni Paolo II o in altre occasioni liturgiche e visite pastorali. Altre volte ho sentito sfiorare l’aura che per i credenti è il soffio dello Spirito Santo. Quella volta il clima radioso sembrava rubare l’attenzione al rito e l’autunno di un pontificato veniva sopraffatto da un sorprendente annuncio di primavera. Girando tra la gente non vedevo commossa partecipazione, piuttosto turismo e qualche amarezza, forse un filo di delusione e un’onda di umana simpatia, più tanta curiosità. Al di là dell’immagine che ne dava la tv, la gente era spaesata di fronte a un evento inedito. Stava lì a salutare il congedo del Pensionato Eccellente. Una cerimonia mesta e festosa. Il Papa si dilungò nei ringraziamenti come un vecchio preside che va in pensione e ringrazia gli studenti, i bidelli e il corpo docente e poi si sofferma a ricordare che i presidi passano ma la scuola resta, è viva. Ratzinger ripeté tante volte che la Chiesa è viva, anzi “è un corpo vivo” e quell’insistenza tradiva il timore inverso: che quel corpo avesse subito ferite difficilmente sanabili. Ora che sono passati sette anni possiamo ben dirlo.


Il menage tra i due papi è entrato nella crisi del settimo anno e i segni si vedono tutti. Quello speciale “concubinato” è andato via via logorandosi fino al gesto autoritario di Bergoglio di congedare Padre George Ganswein che ha segnato un punto di non ritorno nella relazione tra il papa emerito e il papa in carica. Sette anni fa si pensava che un papa malandato che si dimetteva per ragioni di salute non avrebbe fatto ombra a lungo al papa in carica; e la sua discrezione, la sua schiva timidezza e la sua deliberata scelta di farsi da parte, lasciavano pensare che i papi non si sarebbero mai sovrapposti. Ma le posizioni assunte da Bergoglio, l’enfasi mediatica che le ha moltiplicate, le tifoserie opposte e la nostalgia di un pontificato nel segno della tradizione e della civiltà cristiana, oltre che il piglio dispotico assunto dal pontefice in carica nei confronti di chi dissente dalla sua linea, hanno reso quella coabitazione davvero problematica e sempre a un passo dallo scisma. Ratzinger non ha intenzione di capeggiare alcuna fronda e nemmeno di fomentarla; non ha l’età, il temperamento, la volontà di farlo. Ma resta simbolicamente imbarazzante il bipapismo divergente che rispecchia, al di là delle intenzioni, la divaricazione radicale nella Chiesa e nella Cristianità.


Quando fu eletto quindici anni fa Ratzinger apparve il papa della continuità, non solo rispetto a Woytila ma alla tradizione cattolica. La sua elezione rispecchiava la centralità geopolitica tedesca nell’Europa unita. Sul piano pastorale, l’avvento di un teologo come Ratzinger indicava una strada e una sfida: affrontare il nichilismo, il relativismo e l’ateismo pratico partendo dalla testa. Cioè dal pensiero, ma anche dal luogo cruciale in cui era sorto, l’Europa cristiana. Ma la sordità dell’Europa, i pregiudizi verso la Chiesa e il Papa della Tradizione, il suo linguaggio impervio, i temi bioetici e la pedofilia, le maldicenze contro di lui, l’inimicizia dei poteri che contano, portarono Ratzinger alla ritirata. La Chiesa allora preferì puntare sul cuore anziché sulla testa e ripartire dalle periferie del mondo, a sud, anziché dall’epicentro della crisi, a nord. Con Francesco, il papulista, nacque la parrocchia globale, ecosolidale, l’interclub delle religioni, con una spiccata predilezione verso gli islamici, soprattutto migranti. Restò il disagio di vedere due papi vestiti di bianco che vivono a poca distanza e talvolta s’incrociano ingenerando smarrimento ottico e pastorale.


Le sue dimissioni pronunciate in latino in quel febbraio di sette anni fa, sancirono con asciutto lindore il fossato incolmabile che lo separava dal suo tempo. Il latino le scolpì nel marmo del passato, le rese lapidarie e indelebili. Si avvertiva nella voce di Ratzinger l’affanno dei secoli e nei suoi occhi che evitavano di incrociare lo sguardo del mondo sembrava celarsi un segreto. Forse la percezione della catastrofe spirituale del nostro tempo, la sordità alla missione religiosa e alle aspettative della fede. Nel suo invecchiare si rifletteva la tremenda vecchiezza della Sposa di Cristo: chiese svuotate, vocazioni calanti, sacerdoti vacillanti nella fede. Il cinismo che cresce. Ma con Bergoglio le cose anziché migliorare precipitarono.


Ratzinger fu lacerato dal conflitto tra fede e inquietudine, poco compreso dal mondo. Per la sua lievità era più amabile del suo predecessore e del suo successore, ma fu meno amato di ambedue. Le sue dimissioni da Santo Padre furono la testimonianza più alta e sofferta della nostra società senza padre.


Non si dimenticano i suoi sguardi di spaventata dolcezza, di trattenuta mestizia, la sua scarsa dimestichezza con le cose del mondo, il suo disagio di vivere nello splendore regale, le sue delicate maniere, le sue pantofole rosse. A volte Ratzinger si abbandonava ai sorrisi serafici, anche quando fu scaraventato per terra (quanta differenza…); occhieggiava all’umorismo degli angeli o si atteggiava a un’affabile severità che lo faceva somigliare a Paolo Stoppa nel ruolo del Papa Re nel Marchese del Grillo. Il suo sguardo si scusava col mondo e suggeriva agli astanti: siate indulgenti, sono un pensatore che regge il Pontificato. Aveva “quel non so che di angelico”, come diceva Petrarca di Celestino V, il papa che abdicò, “inesperto di cose umane”. Fragile come un cristallo, ma splendente di luce. Quella luce che ora non vediamo.


MV, La Verità 28 febbraio 2020











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