Sul caso Cappato si veda anche l’intervento del giurista Marco Ferraresi: leggi qui
Stefano Martinolli, 16-01-2020
Il 18 febbraio 1975 la Corte Costituzionale ha pronunciato una sentenza (n. 27/1975) con la quale è stato legalizzato l’aborto in Italia. La Corte ha affermato allora che il concepito partecipa dei diritti fondamentali della nostra Costituzione, ma che la donna gode di una specie di «diritto di precedenza», una sorta di superiorità giuridica sul figlio, per il fatto che solo lei sarebbe da considerarsi «persona». Con un linguaggio squisitamente tecnico la Corte ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 546 c.p. che prevedeva la reclusione da due a cinque anni per chiunque cagionasse aborto di una donna, con il consenso di lei. I concetti di «delitto contro l’integrità della stirpe» (libro II Titolo X c.p.), «l’interesse demografico dello Stato» e l’idea dell’aborto fra «i delitti contro la persona» sono pertanto stati superati da questa sentenza, basandosi sull’idea che l’interesse costituzionalmente protetto del concepito può entrare in collisione con altri beni che godano di una tutela costituzionale, come la condizione di salute della donna gestante. E’ prevalso, pertanto, il concetto dell’autodeterminazione della persona che sarebbe quasi svincolata da vincoli decisionali della Comunità e dello Stato.
Alle ore 12.37 del 10 luglio 1976, un caldo sabato d’estate a Seveso (Monza), si verifica la fuoriuscita accidentale, da un reattore dello stabilimento chimico Icmesa, di una nube di diossina, un potente e velenoso diserbante che va a contaminare un’area di alcuni chilometri. Molte famiglie vengono allontanate dalle loro abitazioni, l’area viene delimitata dall’esercito e personale specializzato con tute bianche inizia l’opera di bonifica. In pochi giorni la notizia dell’evento si diffonde a molti Paesi che lo descrivono come «uno dei più gravi disastri ambientali di tutti i tempi». Inizia allora un poderoso lavoro mediatico, informativo e culturale per allarmare ulteriormente la popolazione di quella zona e, in particolare, le donne in stato di gravidanza, creando un clima di psicosi collettiva. Vengono descritte malattie gravissime, dalla cloroacne fino ai tumori o alla nascita di bambini con gravi malformazioni. Alcune donne (Susanna Agnelli, Giancarla Codrignani ed Emma Bonino) chiedono al Governo che alle donne di Seveso e dintorni sia consentito l’aborto. Da tutti i mass media si leva un coro di consensi unanime. Vengono persino appesi alcuni manifesti con la scritta «O mostro o aborto». Il Ministro della Sanità Dal Falco, quello della Giustizia Bonifacio e il Presidente del Consiglio dei Ministri Giulio Andreotti autorizzano l’interruzione delle gravidanze. Indro Montanelli su Il Giornale e il Cardinale di Milano Giovanni Colombo prendono coraggiosamente posizione. I giornali dileggiano l’Arcivescovo, rilanciando con maggiore vigore la campagna per la legalizzazione dell’aborto. Alla Clinica Mangiagalli di Milano e all’Ospedale di Desio vengono quindi praticati i primi aborti. Peccato però che tutti i bambini mai nati sono risultati, alle analisi autoptiche, perfettamente normali, che i figli nati godano di buona salute, che i casi di cloroacne siano stati 193, non si siano registrate vittime umane, e che, alle analisi epidemiologiche condotte in questi anni, non siano state segnalate particolari incidenze di malattie. Francesco Rocca, ex-sindaco della città, nel libro «I giorni della diossina» (Ed. Fede e Cultura 2013) ha descritto quell’evento come terreno di sperimentazione per allargare la casistica dell’aborto definito come «terapeutico» ma, in realtà, rivelatosi «eugenetico». La campagna abortista innescata dal caso Seveso ha prodotto gli effetti desiderati, fino all’approvazione della Legge 194 nel 1978. Le tecniche utilizzate sono state semplici: depenalizzare, attraverso la Corte Costituzionale, la procedura d’aborto, creare il caso estremo, allarmando la collettività e inserendo i concetti di «pietà», «compassione», «libertà di scelta» per le donne che devono vivere questa esperienza dolorosa, fino a generare e consolidare l’idea di un diritto ad abortire, contro il potere della vecchia società maschilista, dove conta solo la decisione della singola donna, svincolata dalle relazioni familiari, dal partner e dal mondo che la circonda; una sorta di «dogma di fede», da non toccare né tantomeno mettere in discussione; argomento imbarazzante, divisivo e pertanto «oscurato», nascosto e quasi dimenticato, oggi espulso dalle scuole, dai dibattiti pubblici, dai mass media, persino dalle parrocchie.
E così siamo arrivati ai nostri giorni. Il 25 settembre 2019 la Corte Costituzionale ha pronunciato una sentenza (n.242/2019) in cui, di fatto, è stata approvata la possibilità di ricorrere, da parte dei malati gravi, al suicidio assistito. L’iter è identico a quello dell’aborto e persino i termini utilizzati sono pressoché identici a quelli della sentenza del 1975. E’ dichiarato parzialmente illegittimo l’art. 580 c.p. nella parte in cui è prevista la punibilità di chi aiuta al suicidio una persona. La sentenza è partita dal procedimento penale a carico di Marco Cappato che si era autodenunciato alle autorità, dopo aver accompagnato in Svizzera Fabiano Antoniani (noto come DJ Fabo), tetraplegico dopo un incidente stradale, per morire mediante suicidio assistito. La Corte ha ripercorso, con dovizia di particolari, la vicenda di Antoniani, esaltando la gravità dei sintomi e la chiara e lucida volontà di porre fine alla sua esistenza, descritta come «priva di valore e di dignità», fino a giungere all’epilogo del 27 febbraio 2017. Il quadro finale emerso, è quello di una situazione senza via d’uscita, dove si doveva esercitare solo la pietas umana, la solidarietà e la comprensione. La Corte, anche in questo caso, ha «reinterpretato» la Giurisprudenza, contrapponendo quella del regime fascista, in cui era preminente il principio di sacralità e indisponibilità della vita in correlazione agli obblighi sociali dell’individuo, a quella attuale, in cui il bene giuridico protetto andrebbe identificato non già nel diritto alla vita, ma nella libertà e consapevolezza della decisione del soggetto passivo di porvi fine, evitando influssi che alterino la sua scelta.
Richiamando alcuni articoli della Costituzione Italiana (2, 3, 13, 25,27 e 117), della CEDU [Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali] (2 e 8) e della Legge 217/2019 (Dichiarazioni anticipate di trattamento), è sottolineato come il bene vita dovrebbe essere riguardato unicamente in una prospettiva personalistica, come interesse del suo titolare volto a consentire il pieno sviluppo della persona (!). Sono stati poi ricordati i casi Welby ed Englaro.
Ancor di più, la Corte afferma che l’articolo 580 c.p. vulnerebbe la funzione rieducativa della pena (!), poiché si basa su una anacronistica visione statalista del bene giuridico della vita. Tale norma creerebbe poi una violazione del principio di eguaglianza, discriminando chi è fisicamente impossibilitato a porre fine alla propria vita da solo, per la gravità delle proprie condizioni patologiche (!). Simile discriminazione avverrebbe in caso di condotta attiva se confrontata con quella passiva.
È interessante notare come la Corte abbia rigettato, in maniera decisa e autoritaria, qualsiasi obiezione, anche se avanzata da organismi autorevoli, rifiutando qualsiasi confronto culturale e giuridico: sono stati i casi del Centro Studi Rosario Livatino (costituito da eminenti avvocati, magistrati, docenti e giuristi) e del Movimento per la Vita italiano, liquidati rapidamente.
Il documento conclude chiedendo che l’art. 580 c.p. sia dichiarato costituzionalmente illegittimo in caso di persone che hanno inteso porre fine alla propria vita, affette da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, tenute in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma capaci di prendere decisioni libere e consapevoli.
Il percorso culturale, iniziato nel 1975 con l’aborto, trova qui il suo compimento: è stata approvata una Legge che, con la scusa della «autodeterminazione» (Dichiarazioni Anticipate di Trattamento) e del consenso informato, apre di fatto all’eutanasia (L. 217/2019), sono stati presentati casi limite, i mass media hanno creato, nell’opinione pubblica, attraverso una martellante campagna disinformativa, l’idea che esistono vite «non degne», alle quali è giusto moralmente porre fine. Ancor più grave è il fatto che sia esaltata la sfera privata decisionale ad ogni costo e non sia fatta menzione delle relazioni, delle persone che ci circondano, degli inevitabili equilibri della società, del concetto di valore della vita umana, della riflessione sul significato ultimo della sofferenza, della malattia e della morte, considerate come «disvalori» inaccettabili.
Il caso Cappato è l’epilogo di un lungo ed astuto lavoro culturale, iniziato con l’interruzione della vita che nasce e concluso con l’interruzione della vita che volge al declino, in cui l’individuo è spinto a decidere per sé, avulso da qualsiasi relazione esterna, in maniera assoluta e quasi «dogmatica», sulla propria esistenza. Si tratta di una visione «personalistica», ma priva della persona, svuotata della sua essenza metafisica e di valori che non sono da lei controllabili e misurabili, ridotta ad un guscio vuoto, facile da riempire con nuove idee o comportamenti che altri possono imporre a scopo utilitaristico, una monade nel suo perfetto mondo asettico. Solo l’individuo che riconosce la propria finitezza, la propria miseria e debolezza (errori, malattia e morte), di fronte ad un Dio che si rende uomo e si fa crocifiggere, può riscoprire la sua grandezza e decidere realmente, in piena libertà e consapevolezza, per il suo Bene e per quello dell’intera umanità. Il film Schindler’s List si conclude con una frase del Talmud: chi salva una vita, salva il mondo intero.
Stefano Martinolli
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