Stefano Fontana, 14-01-2020
Vorrei chiedermi se il concetto di rivoluzione trovi ospitalità nella Dottrina sociale della Chiesa, tenendo conto che per molto tempo i pontefici, nelle loro encicliche sociali, hanno condannato l’uso dell’espressione.
La rivoluzione è contraria al concetto di ordine. Nel senso che la rivoluzione comporta sempre la distruzione di un ordine. Sia che si tratta di una rivoluzione dottrinale o politica o di altro genere, la rivoluzione fa piazza pulita dell’ordine precedente a cui, talvolta, vuole sostituirne uno nuovo. Perché dico “talvolta” e non sempre? Perché nella rivoluzione c’è un elemento che le impedisce di fermarsi ad un qualche ordine nuovo, ma la obbliga a distruggere qualsiasi ordine. Una rivoluzione coerente con la propria logica non si sazia mai. La rivoluzione infatti non è contraria a questo ordine, ma all’ordine. La rivoluzione non ha dei motivi sensati per distruggere questo ordine, perché essendo esso – pur nelle sue deficienze – pur sempre un ordine, contiene in sé qualcosa di logico, di sensato, di razionale, di giusto. Non esiste un ordine completamente sbagliato perché allora sarebbe un disordine. La rivoluzione, invece, lo considera completamente sbagliato, privo di senso, illogico: ogni rivoluzione è contro la logica e la verità e, quindi, si oppone ad ogni ordine, all’ordine in quanto tale. Il rifiuto della natura umana, come è in voga oggi, non è rifiuto di un certo ordine antropologico, ma dell’ordine antropologico in quanto tale.
L’ordine ci sta dietro e regola il nostro cammino in avanti ponendosi quindi anche come fine. Negare che un ordine ci stia dietro comporta anche negare che un fine ci stia davanti. L’ordine da raggiungere in avanti non può contraddire l’ordine che ci sta dietro, perché da quello riceve l’indirizzo per poter essere a sua volta un ordine. La rivoluzione rompe il rapporto tra l’ordine che ci precede e l’ordine che ci sta davanti: distrugge il primo e così facendo riduce il secondo a puro arbitrio. Ma all’arbitrio non c’è limite, ed infatti non esistono rivoluzioni che non siano state tradite. La rivoluzione non instaura quindi un nuovo ordine ma un nuovo ordine arbitrario, stabilito dai suoi capi, artificiale, pretestuoso e destinato ad essere a sua volta distrutto. I regimi nati dalla rivoluzione crollano tutti come un castello di carte da gioco.
In ogni rivoluzione c’è un’anima gnostica. La gnosi, infatti, presenta anche e soprattutto questo carattere: non accetta nessun ordine che la preceda perché limiterebbe la libertà e quindi vuole distruggere ogni principio di realtà per riplasmarlo secondo autodeterminazione. La gnosi non accetta la creazione e la natura e vuole dar vita ad una nuova creazione e ad una nuova natura. Tutti i movimenti millenaristici, chiliastici, messianici lungo la storia sono stati rivoluzionari in questo senso. Tutte le eresie sono alla fine rivoluzioni gnostiche. Tutti i messianismi politici hanno un’anima religiosa gnostica. Tutta la politica moderna risponde a questi criteri.
Il concetto di rivoluzione ha un suo simile apparentemente più moderato: il progressismo. Questo non vuole cambiare l’ordine tutto in un colpo, ma pian piano. La sua anima è comunque la stessa della rivoluzione. Anche il progressismo fonda il cambiamento sul rifiuto di un ordine che preceda e finisce per considerare migliore il nuovo, cronologicamente inteso. Il progressismo è cronolatrico, perché non ammettendo un ordine che dia senso ai nostri interventi e che sia quindi precedente e finalistico, ogni singolo momento è come una piccola rivoluzione: il progressismo è una successione di micro-rivoluzioni il cui senso non sta nel costruire un ordine ma nel distruggere l’ordine precedente e ogni ordine in quanto precedente. Il che comporta anche la distruzione di ogni fine, dato che il fine nasce da un ordine precedente. Il fine non nasce lungo il percorso, come tutte le forme di storicismo vorrebbero, ma deve essere contenuto nell’ordine precedente e da esso indicato. Pensare che il fine emerga lungo il percorso è l’anima stessa del progressismo, ma anche la sua principale confutazione: il progressismo non sa giudicare quando un passo in avanti sia veramente un passo in avanti e quando no. Piuttosto lo impara strada facendo in base però a criteri solamente operativi. La prassi come verità è quindi l’ultima ragione (non-ragione) del progressismo.
Non c’è dubbio che nella teologia cattolica l’idea di rivoluzione sia ampiamente penetrata, come pure il progressismo. Oggi questa presenza è soprattutto concentrata sulla priorità della pastorale rispetto alla dottrina. Con tutti i pericoli che ne possono conseguire. Credo si possa essere certi che il concetto di rivoluzione non può trovare ospitalità nella Dottrina sociale della Chiesa.
Stefano Fontana
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