Editoriale Radici Cristiane
Sono teologi o vescovi di origine tedesca, quelli che cercano di influenzare il Sinodo sull’Amazzonia, per realizzare, attraverso un nuovo progetto di Chiesa “dal volto amazzonico”, l’opera incompiuta del Concilio Vaticano II. Così, il Reno si getta nel Rio delle Amazzoni e il Rio delle Amazzoni, inquinato dal Reno, si getta nel Tevere. L’errore di fondo, però, dei popoli primitivi e dell’Instrumentum laboris, che ad essi si richiama, è quello di includere Dio nello spazio e nella natura. Ma, afferma il card. Müller, «gli scenari di fiumi maestosi non possono calmare il desiderio del cuore umano, né le loro acque possono placare la sete di vita eterna».
RC n.146 - ago/set 2019 di Roberto de Mattei
Il Reno si getta nel Tevere è il titolo di uno dei migliori libri sul Concilio Vaticano II, scritto dal sacerdote-giornalista padre Ralph M. Wiltgen (The Rhine Flows into the Tiber: The Unknown Council, Hawthorn Books, New York 1967).
L’autore voleva esprimere con questo
titolo l’influenza della teologia centro-europea, soprattutto
tedesca, sui Padri conciliari riuniti a Roma per il Vaticano II
(1962-1965). Oggi la storia si ripete. Ancora una volta sono teologi
o vescovi di origine tedesca, quelli che cercano di influenzare il
Sinodo sull’Amazzonia, che si svolgerà a Roma tra il 6 e il 27
ottobre, per realizzare, attraverso un nuovo progetto di Chiesa “dal
volto amazzonico”, l’opera incompiuta del Concilio Vaticano II.
Nella Commissione preparatoria del
Sinodo figura il vescovo di origine austriaca mons. Erwin Kräutler,
direttore della Rete Ecclesiale Panamazzonica (REPAM), uno dei
principali promotori delle correnti dette “indigeniste”. Si dice
sia stato proprio lui a proporre a papa Francesco l’idea di un
Sinodo sull’Amazzonia.
Poi c’è mons. Franz-Joseph Overbeck, vescovo di Essen e responsabile dell’organizzazione Adveniat, l’uomo che ha dichiarato: «Il Sinodo sull’Amazzonia sarà un punto di svolta per l’intera Chiesa. Niente sarà come prima».
Adveniat, l’agenzia di soccorso per l’America Latina, e Misereor, l’agenzia per lo sviluppo e l’aiuto all’estero dei vescovi tedeschi, sono le due organizzazioni impegnate a promuovere, anche finanziariamente, il Sinodo. Come ha riferito Edward Pentin sul National Catholic Register del 19 luglio, i dirigenti esecutivi delle due associazioni, in una prefazione congiunta alla traduzione tedesca dell’Instrumentum Laboris, hanno detto che il prossimo incontro «dimostrerà che il cambiamento è possibile nella politica, nell’economia, nella tecnologia e, ultimo ma non meno importante, nella Chiesa».
Anche il cardinale brasiliano Hummes è
di origine tedesca e il suo none si aggiunge a quelli del cardinale
Walter Kasper e del cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di
Vienna, tutti promotori di una riforma radicale nella Chiesa.
Di origine tedesca sono però anche coloro che hanno espresso le più forti critiche all’Instrumentum Laboris come i cardinali Gerhard Müller e Walter Brandmüller, e il vescovo ausiliare di Astana (Kazakistan), mons. Athanasius Schneider.
In una forte dichiarazione rilasciata il 26 luglio, il card. Müller prende di petto i vescovi tedeschi, affermando che «come già accaduto con i Sinodi sulla Famiglia, la “Chiesa Tedesca” rivendica l’egemonia sulla Chiesa Universale e si vanta orgogliosamente e arrogantemente di decidere la direzione che un Cristianesimo in pace con la modernità debba prendere […]. Tuttavia, non è stato spiegato – ed è anche difficile capire per un osservatore interessato – perché, di fronte a uno stato di desolazione della Chiesa nel proprio Paese, essa la si consideri ora chiamata ad essere da modello per le altre».
Se c’è una Chiesa in crisi, afferma il cardinale Müller, questa è proprio quella tedesca. «Questa crisi di una massiccia uscita dalla Chiesa e del declino della vita della Chiesa (una scarsa partecipazione alla Messa, pochi battesimi e cresime, seminari sacerdotali vuoti, il declino dei monasteri) non può essere superata attraverso un’ulteriore secolarizzazione e auto-secolarizzazione della Chiesa».
È vero dunque che il Reno si getta nel Rio delle Amazzoni e il Rio delle Amazzoni, inquinato dal Reno, si getta nel Tevere. Ma perché proprio l’Amazzonia costituisce il nuovo «luogo teologico» dei “riformisti”, come leggiamo nel paragrafo 19 dell’Instrumentum laboris? Perché gli artefici del Sinodo sono convinti che l’Amazzonia sia più di un territorio geografico: essa rappresenterebbe il luogo in cui si vive una spiritualità nuova, che coinvolge tutta la natura.
È la spiritualità «ancestrale» dei popoli indigeni (n. 33), che si esprime nel loro culto della natura. Perciò «è necessario cogliere ciò che lo Spirito del Signore ha insegnato a questi popoli nel corso dei secoli: la fede in Dio Padre-Madre Creatore, il senso di comunione e di armonia con la terra», «la saggezza di civiltà millenarie che gli anziani possiedono e che ha effetti» sul «rapporto vivo con la natura e la ‘Madre Terra’» (n. 121).
C’è in realtà una profonda differenza tra la retta spiritualità cattolica e gli errori dei popoli primitivi, come quelli dell’Amazzonia. Ricordiamo che tra gli attributi di Dio uno dei più belli è l’immensità. L’immensità si riferisce allo spazio, come l’eternità si riferisce al tempo. Dire che Dio è immenso non significa dire che ha un’estensione infinita nello spazio, significa dire che Dio è senza misura, perché Egli è al di fuori dello spazio e del tempo.
Non è possibile immaginare un momento del tempo o un punto dello spazio, che non dipenda da Lui. Però lo spazio non è infinito, ma finito, è limitato, perché è creato da Dio e Dio, che è infinito, non può essere incluso nello spazio, così come Dio che è eterno, non può essere incluso nel tempo.
Dio è ovunque per la sua essenza,
perché tutto ciò che esiste riceve l’essere da Dio. Ma Dio, che
dà l’essere a tutte le cose, non è tutte le cose e tutte le cose
non sono Dio.
Dio è ovunque per la sua presenza
perché Egli è presente a tutto e, dunque, conosce tutto di ogni
cosa; nulla possiamo nascondergli; Egli ci vede, sempre, ovunque noi
siamo, qualsiasi cosa facciamo.
Dio è ovunque per la sua potenza perché ha creato ogni cosa, ogni cosa dipende da lui e ogni cosa gli è sottomessa. In questo senso diciamo di Dio: «In Ipso enim vivimus, movemur et sumus» (Atti 17, 28): in Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo.
Dio però non è la natura, né è contenuto in essa, proprio a causa della sua immensità. I popoli indigeni ammettono l’esistenza di Dio, ma hanno di lui una nozione deforme: lo includono nella natura. Vedono Dio nell’acqua, nella terra, nell’aria, nel fuoco, ma non comprendono che Dio trascende questi elementi. Non hanno l’idea di trascendenza, perché non hanno l’idea di creazione. Perciò confondono Dio con la natura.
Per i popoli indigeni la natura contiene Dio e va adorata, perché si identifica con lui. Dio è contenuto in un albero sacro o in una vacca. L’errore di fondo dei popoli primitivi e dell’Instrumentum laboris, che ad essi si richiama, è quello di includere Dio nello spazio e nella natura: l’Amazzonia diventa un luogo divino, come l’Olimpo per i Greci o il Campidoglio per i Romani.
Il Cristianesimo invece ha spiegato che
Dio ha creato ogni cosa ed è in ogni cosa, ma nessun luogo
geografico può contenerlo. L’immensità di Dio non ha niente di
materiale o di quantitativo. Dio riempie i cieli e la terra, ma i
cieli e la terra non lo contengono.
«È certamente tanto bello essere sul Reno e sognare l’Amazzonia» – afferma il cardinal Müller –. «Ma gli scenari di fiumi maestosi non possono calmare il desiderio del cuore umano, né le loro acque possono placare la sete di vita eterna. Solo l’acqua, che Gesù, Verbo di Dio Incarnato, ci dà, diventa in noi “una sorgente d’acqua che fluisce fino alla vita eterna” (Gv 4,14)».
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