lunedì 30 settembre 2019

La Consulta rafforza il diritto a morire e l’obbligo di uccidere







di Marco Ferraresi, 30 settembre 2019

Lo aveva promesso un anno fa, con l’ordinanza n. 207/2018, e puntualmente la promessa è stata mantenuta: in assenza di una (sollecitata) modifica legislativa della materia, per la Corte costituzionale il diritto non può punire, sempre e comunque, chi agevola il suicidio altrui. Avrebbe dovuto pensarci il legislatore ma, per il giudice delle leggi, la sua inerzia impone una soluzione tramite sentenza, almeno fino a una regolazione legislativa del problema. Regolazione che, in ogni caso, dovrà osservare i principi contenuti nella sentenza.

Con i comunicati del 25 e 26 settembre la Corte costituzionale, in attesa della pubblicazione della decisione, afferma infatti che, a certe condizioni, non è punibile chi commette il reato di cui all’art. 580 del codice penale, secondo cui si applica la pena della reclusione da cinque a dodici anni a chiunque agevola in qualsiasi modo l’esecuzione del suicidio altrui.

Beninteso, era una promessa fin troppo facile da mantenere.

Essa, in primo luogo, risponde infatti alla cultura dominante, particolarmente al rifiuto del carattere indisponibile del diritto alla vita.

In secondo luogo, è coerente con i precedenti della stessa Corte che dissociano vita e persona: così, l’embrione non sarebbe ancora persona (sentenza n. 27/1975, che ha spalancato le porte al diritto di aborto); il bambino in provetta è l’oggetto di un diritto di chi chiede la fecondazione artificiale (v. ad es. la sentenza n. 162/2014); con questa decisione, si ammette che la vita dei malati, più o meno gravi, potrebbe non essere più degna di essere vissuta e passibile perciò di essere soppressa.

In terzo luogo, la decisione sull’aiuto al suicidio porta alle naturali conseguenze i principi contenuti nella legge n. 219/2017, che ha già sancito il diritto alla eutanasia, omissiva e commissiva, sotto forma di diritto di rifiuto, sospensione o interruzione di terapie anche salvavita, così come di idratazione, alimentazione, ventilazione artificiale, con l’obbligo corrispondente del medico – senza eccezioni – di obbedire alla volontà espressa dal paziente attualmente o remotamente (attraverso le DAT).

Nell’ordinanza resa un anno fa, la Corte aveva però avvertito come la legge n. 219/2017 non garantisse in maniera soddisfacente il diritto a morire, in particolare ogni qual volta il decesso consegua a una lenta agonia, causata dalla privazione dei sostegni vitali. Per la Corte, è irragionevole che il diritto non preveda la possibilità di un esito più rapido e meno doloroso. In definitiva, la pecca della legge n. 219/2017 starebbe nell’impossibilità di ottenere dal medico una soluzione letale, che determini direttamente la morte del paziente.

In attesa di leggere la sentenza, dovrebbe essere proprio questa la novità della pronuncia rispetto alla legislazione vigente. Se così non fosse, il recente intervento della Corte sarebbe persino più garantista, per il diritto alla vita, rispetto alla legge n. 219/2017. Infatti, nel comunicato si afferma che la collaborazione al suicidio non sarà punibile solo in presenza di condizioni che, viceversa, la legge oggi non richiede per soddisfare il diritto alla morte, e cioè: 1) il carattere irreversibile della patologia; 2) l’esistenza di sofferenze fisiche o psichiche che il paziente reputa intollerabili; 3) l’intervento di una struttura pubblica del Servizio Sanitario Nazionale; 4) l’acquisizione del parere del comitato etico locale.

Ora, poiché l’ordinanza di un anno fa, come detto, aveva denunciato l’insufficiente garanzia, nella legge n. 219/2017, del diritto di morire e del corrispondente obbligo del medico di cooperare alla morte, è evidente che queste speciali condizioni sono poste al fine, non di restringere l’accesso all’eutanasia, ma di poter ottenere qualcosa in più rispetto al passato. E questa novità non può che essere, appunto, il diritto a ricevere e l’obbligo di somministrare un preparato mortale.

Come tutti i commentatori hanno rilevato, non vi è traccia nel comunicato del possibile diritto all’obiezione di coscienza da parte del personale medico, il quale, in tal caso, sarà chiamato a una resistenza eroica per non tradire la missione della professione. In questa prospettiva, è da lodare il coraggio con cui il Presidente della Federazione degli Ordini dei Medici, Filippo Anelli, ha in sostanza ribadito come compito del medico sia di curare, non di assassinare.

Da ultimo, vanno registrati con favore i plurimi interventi critici sulla pronuncia da parte di autorità ecclesiastiche ed esponenti di associazioni cattoliche. Quale socio dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, mi si permetta solo di evidenziare la stonatura di Francesco D’Agostino, ex Presidente nazionale, con l’intervista rilasciata il 26 settembre a Il Sole 24 Ore. Dopo non aver compreso il contenuto eutanasico già della legge n. 219/2017, egli afferma ora che “la risposta del giudice delle leggi, nella situazione costituzionale italiana di oggi, è stata la migliore possibile”. In vero, la soppressione di una persona fragile, e proprio per questo bisognosa, non di un aiuto a farla finita, ma di maggiore sostegno, non è mai una risposta buona, tantomeno la migliore possibile.

Marco Ferraresi

Presidente Unione Giuristi Cattolici di Pavia “Beato Contardo Ferrini”





















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