Aldo Maria Valli 20/05/2019
In questi giorni, dopo che in Alabama è stata approvata la legge più restrittiva d’America in materia di aborto, viene spesso evocata la “Roe contro Wade”, la sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti (1973) che, avendo legalizzato l’aborto negli Usa, è presentata come un caposaldo dei diritti delle donne.
Pochi sanno però che la storia di Jane Roe, ovvero colei che passò come paladina della libertà della donna, non è affatto in linea con la vulgata progressista.
Intanto Jane Roe non è Jane Roe, nel senso che questo è solo uno pseudonimo, utilizzato in occasione del processo per tutelare la privacy del vero soggetto, cioè Norma McCorvey. Ma ciò che conta è chi è Norma McCorvey.
Norma Leah nasce il 22 settembre 1947 in Louisiana, ma cresce in Texas. Infanzia e adolescenza sono tormentate. La relazione tra i genitori, di origini Cherokee e Cajun, è burrascosa. Il padre se ne va quando Norma ha otto anni e le conseguenze sono pesanti: la bambina non prosegue negli studi e già a dieci anni lavora come barista. Dopo essere scappata da casa, a soli sedici anni sposa Woody McCorvey, un uomo violento. Divorzia e, con uomini diversi, ha due figli, entrambi dati in affidamento. Alcol e droga diventano il suo rifugio, anche perché soffre di attacchi di depressione suicida. Conosce un altro uomo, resta di nuovo incinta e alcuni amici la convincono ad andare in tribunale per chiedere di abortire dicendo che è stata stuprata. All’epoca infatti il Texas consente l’aborto per vie legali in caso di stupro e di incesto.
Norma tuttavia non riesce a presentare prove sufficienti per sostenere l’accusa di stupro, e così la sua richiesta è respinta. È a questo punto che entrano in scena due avvocatesse, Linda Coffee e Sarah Weddington, le quali, pur sapendo che Norma ha mentito circa lo stupro, decidono di sfruttare il caso pietoso (tecnica ampiamente usata per legittimare l’aborto) e di presentare ricorso alla Corte distrettuale del Texas a sostegno di una causa che, andando al di là della vicenda di Norma, vuole affermare la libera scelta, da parte di ogni donna, di abortire.
Siamo nel 1970 e a rappresentare lo Stato del Texas contro Norma McCorvey (divenuta Jane Roe per ragioni di privacy) è chiamato il procuratore distrettuale di Dallas Henry Wade, noto perché sette anni prima, nel 1963, ha accusato Jack Ruby per l’omicidio di Lee Harvey Oswald, ritenuto l’assassino del presidente John F. Kennedy. È così che il procedimento prende il nome di “Roe contro Wade”.
In base a un’interpretazione di un emendamento costituzionale, il diciannovesimo, secondo il quale l’elenco dei diritti individuali può essere integrato da altri diritti non specificamente menzionati nella Costituzione, la Corte distrettuale dà ragione a Norma McCorvey. Il procuratore Wade presenta quindi ricorso in appello alla Corte suprema, e questa, dopo tre anni di dibattito, nel 1973, con il voto di sette giudici contro due, dà di nuovo ragione a Norma McCorvey (alias Jane Roe). Ma con quale argomentazione? In base a una nuova interpretazione di un emendamento, questa volta il quattordicesimo, circa il diritto alla privacy inteso come diritto di prendere decisioni riguardanti la propria sfera intima, senza che lo Stato possa agire illimitatamente nei confronti della persona in questione.
Nel 1989 Norma è agganciata da un’altra avvocatessa, Gloria Allred, che ne fa un personaggio pubblico, trasformandola in una paladina della causa femminista e abortista. Anni dopo Norma ricorderà: “Ero ignorante, bestemmiavo, non mi sapevo vestire, non potevo appartenere al mondo delle giovani laureate di Harvard che durante una marcia per l’aborto, a Washington, mi tennero nascosta tra la folla. Scandivano il nome di Jane Roe ma preferivano che io restassi nella retroguardia”.
Se il nome di Jane Roe diventa un marchio di fabbrica da sfruttare a fini ideologici, di Norma McCorvey non importa nulla a nessuno. Le femministe le trovano un posto da tuttofare in una clinica per aborti, e qui Norma, ormai tossicodipendente, dà il suo contributo alla causa dicendo alle donne in attesa che quello che portano in grembo non è un bambino “ma solo una mestruazione mancata”.
Il lavoro nella clinica per gli aborti però diventa presto insopportabile. “Quando andavo nella cella frigorifera e vedevo i pezzi, le gambe e le teste dei feti conficcati a quattro o cinque in una giara, tornavo a casa e mi ubriacavo”.
È il 1995 quando per Norma (come racconterà nel suo libro Won by Love) arriva la svolta: “Ero seduta in un ufficio, quando notai un poster che mostrava lo sviluppo fetale. La crescita del feto era così evidente, gli occhi erano così dolci! Il mio cuore mi faceva male solo a guardali. Corsi fuori dalla stanza e mi dissi: Norma, hanno ragione. Qualcosa in quel poster mi fece mancare il respiro. Continuavo a vedere l’immagine di quel piccolo embrione di dieci settimane, e non potei fare a meno di dire: questo è un bambino! Fu come se un paraocchi mi fosse caduto. Mi sentii schiacciata. Si trattava di bambini uccisi nel grembo della madre. In tutti quegli anni mi ero sbagliata. Tutto il mio lavoro nella clinica abortista era sbagliato. Divenne chiaro, dolorosamente chiaro”.
Proprio nel 1995 il reverendo Philip Benham trasferisce la sede di Operation Rescue, organizzazione antiabortista, nei pressi della clinica nella quale lavora Norma, e la donna resta colpita dagli attivisti pro-life che con tanta dedizione e generosità difendono la vita nascente e si prendono cura delle donne.
È così che Norma viene battezzata nella Chiesa metodista e poi, qualche anno dopo, divenuta cattolica, dirà: “Sono pro-life al cento per cento. Non credo nell’aborto, nemmeno in casi estremi. Se una donna resta incinta per uno stupro, comunque si tratta di un bambino. Non puoi comportarti come se fossi il Dio di te stesso”.
Quando, il 18 febbraio 2017, a sessantanove anni, Norma Leah McCorvey muore, il New York Times la ricorda affermando che nel corso di quarantaquattro anni, dal 1973 in poi, negli Stati Uniti ci sono stati oltre cinquanta milioni di aborti legali. Una strage immane, nata in modo paradossale da una battaglia nella quale la sua principale protagonista, strumentalizzata suo malgrado, non si è mai veramente riconosciuta.
In Won by Love (Vinta dall’Amore) Norma scrive: “Questo libro è dedicato a tutti i bambini che sono stati fatti a pezzi con l’aborto. Chiedo scusa a voi perché non siete più qui, ma ora siete in Paradiso con nostro Padre, e a tutte le donne che, a causa dell’aborto, hanno avuto le loro vite cambiate. La Grazia meravigliosa può guarire il vostro cuore e anche voi potete essere vinte dall’amore”.
Ah, dimenticavo: il terzo figlio di Norma, quello che lei, confusamente, pensava di non volere, venne poi alla luce: una bambina. Che, come gli altri, fu data in affidamento.
Aldo Maria Valli
In questi giorni, dopo che in Alabama è stata approvata la legge più restrittiva d’America in materia di aborto, viene spesso evocata la “Roe contro Wade”, la sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti (1973) che, avendo legalizzato l’aborto negli Usa, è presentata come un caposaldo dei diritti delle donne.
Pochi sanno però che la storia di Jane Roe, ovvero colei che passò come paladina della libertà della donna, non è affatto in linea con la vulgata progressista.
Intanto Jane Roe non è Jane Roe, nel senso che questo è solo uno pseudonimo, utilizzato in occasione del processo per tutelare la privacy del vero soggetto, cioè Norma McCorvey. Ma ciò che conta è chi è Norma McCorvey.
Norma Leah nasce il 22 settembre 1947 in Louisiana, ma cresce in Texas. Infanzia e adolescenza sono tormentate. La relazione tra i genitori, di origini Cherokee e Cajun, è burrascosa. Il padre se ne va quando Norma ha otto anni e le conseguenze sono pesanti: la bambina non prosegue negli studi e già a dieci anni lavora come barista. Dopo essere scappata da casa, a soli sedici anni sposa Woody McCorvey, un uomo violento. Divorzia e, con uomini diversi, ha due figli, entrambi dati in affidamento. Alcol e droga diventano il suo rifugio, anche perché soffre di attacchi di depressione suicida. Conosce un altro uomo, resta di nuovo incinta e alcuni amici la convincono ad andare in tribunale per chiedere di abortire dicendo che è stata stuprata. All’epoca infatti il Texas consente l’aborto per vie legali in caso di stupro e di incesto.
Norma tuttavia non riesce a presentare prove sufficienti per sostenere l’accusa di stupro, e così la sua richiesta è respinta. È a questo punto che entrano in scena due avvocatesse, Linda Coffee e Sarah Weddington, le quali, pur sapendo che Norma ha mentito circa lo stupro, decidono di sfruttare il caso pietoso (tecnica ampiamente usata per legittimare l’aborto) e di presentare ricorso alla Corte distrettuale del Texas a sostegno di una causa che, andando al di là della vicenda di Norma, vuole affermare la libera scelta, da parte di ogni donna, di abortire.
Siamo nel 1970 e a rappresentare lo Stato del Texas contro Norma McCorvey (divenuta Jane Roe per ragioni di privacy) è chiamato il procuratore distrettuale di Dallas Henry Wade, noto perché sette anni prima, nel 1963, ha accusato Jack Ruby per l’omicidio di Lee Harvey Oswald, ritenuto l’assassino del presidente John F. Kennedy. È così che il procedimento prende il nome di “Roe contro Wade”.
In base a un’interpretazione di un emendamento costituzionale, il diciannovesimo, secondo il quale l’elenco dei diritti individuali può essere integrato da altri diritti non specificamente menzionati nella Costituzione, la Corte distrettuale dà ragione a Norma McCorvey. Il procuratore Wade presenta quindi ricorso in appello alla Corte suprema, e questa, dopo tre anni di dibattito, nel 1973, con il voto di sette giudici contro due, dà di nuovo ragione a Norma McCorvey (alias Jane Roe). Ma con quale argomentazione? In base a una nuova interpretazione di un emendamento, questa volta il quattordicesimo, circa il diritto alla privacy inteso come diritto di prendere decisioni riguardanti la propria sfera intima, senza che lo Stato possa agire illimitatamente nei confronti della persona in questione.
Nel 1989 Norma è agganciata da un’altra avvocatessa, Gloria Allred, che ne fa un personaggio pubblico, trasformandola in una paladina della causa femminista e abortista. Anni dopo Norma ricorderà: “Ero ignorante, bestemmiavo, non mi sapevo vestire, non potevo appartenere al mondo delle giovani laureate di Harvard che durante una marcia per l’aborto, a Washington, mi tennero nascosta tra la folla. Scandivano il nome di Jane Roe ma preferivano che io restassi nella retroguardia”.
Se il nome di Jane Roe diventa un marchio di fabbrica da sfruttare a fini ideologici, di Norma McCorvey non importa nulla a nessuno. Le femministe le trovano un posto da tuttofare in una clinica per aborti, e qui Norma, ormai tossicodipendente, dà il suo contributo alla causa dicendo alle donne in attesa che quello che portano in grembo non è un bambino “ma solo una mestruazione mancata”.
Il lavoro nella clinica per gli aborti però diventa presto insopportabile. “Quando andavo nella cella frigorifera e vedevo i pezzi, le gambe e le teste dei feti conficcati a quattro o cinque in una giara, tornavo a casa e mi ubriacavo”.
È il 1995 quando per Norma (come racconterà nel suo libro Won by Love) arriva la svolta: “Ero seduta in un ufficio, quando notai un poster che mostrava lo sviluppo fetale. La crescita del feto era così evidente, gli occhi erano così dolci! Il mio cuore mi faceva male solo a guardali. Corsi fuori dalla stanza e mi dissi: Norma, hanno ragione. Qualcosa in quel poster mi fece mancare il respiro. Continuavo a vedere l’immagine di quel piccolo embrione di dieci settimane, e non potei fare a meno di dire: questo è un bambino! Fu come se un paraocchi mi fosse caduto. Mi sentii schiacciata. Si trattava di bambini uccisi nel grembo della madre. In tutti quegli anni mi ero sbagliata. Tutto il mio lavoro nella clinica abortista era sbagliato. Divenne chiaro, dolorosamente chiaro”.
Proprio nel 1995 il reverendo Philip Benham trasferisce la sede di Operation Rescue, organizzazione antiabortista, nei pressi della clinica nella quale lavora Norma, e la donna resta colpita dagli attivisti pro-life che con tanta dedizione e generosità difendono la vita nascente e si prendono cura delle donne.
È così che Norma viene battezzata nella Chiesa metodista e poi, qualche anno dopo, divenuta cattolica, dirà: “Sono pro-life al cento per cento. Non credo nell’aborto, nemmeno in casi estremi. Se una donna resta incinta per uno stupro, comunque si tratta di un bambino. Non puoi comportarti come se fossi il Dio di te stesso”.
Quando, il 18 febbraio 2017, a sessantanove anni, Norma Leah McCorvey muore, il New York Times la ricorda affermando che nel corso di quarantaquattro anni, dal 1973 in poi, negli Stati Uniti ci sono stati oltre cinquanta milioni di aborti legali. Una strage immane, nata in modo paradossale da una battaglia nella quale la sua principale protagonista, strumentalizzata suo malgrado, non si è mai veramente riconosciuta.
In Won by Love (Vinta dall’Amore) Norma scrive: “Questo libro è dedicato a tutti i bambini che sono stati fatti a pezzi con l’aborto. Chiedo scusa a voi perché non siete più qui, ma ora siete in Paradiso con nostro Padre, e a tutte le donne che, a causa dell’aborto, hanno avuto le loro vite cambiate. La Grazia meravigliosa può guarire il vostro cuore e anche voi potete essere vinte dall’amore”.
Ah, dimenticavo: il terzo figlio di Norma, quello che lei, confusamente, pensava di non volere, venne poi alla luce: una bambina. Che, come gli altri, fu data in affidamento.
Aldo Maria Valli
Nessun commento:
Posta un commento