mercoledì 18 novembre 2015

Papa Bergoglio a Firenze, col popolo contro le strutture





Quella che segue è un'analisi critica del discorso papale – e di questo pontificato – fatta da un cattolico fiorentino di lunga esperienza ecclesiale, molto ferrato in teologia e storia della Chiesa, Pietro De Marco, professore emerito di sociologia della religione all'Università di Firenze e alla Facoltà teologica dell'Italia centrale, già autore il 2 ottobre 2013 di una preveggente nota sull'avvio del pontificato di papa Bergoglio.




di Pietro De Marco


Nel discorso che papa Francesco ha pronunciato il 10 novembre scorso, a Firenze, nella cattedrale di Santa Maria del Fiore, ai partecipanti al quinto convegno ecclesiale nazionale italiano, ritroviamo tre momenti della sua strategia comunicativa: il teologico-spirituale, l’intra-ecclesiastico e l’indirizzo pastorale esplicito, prescrittivo.

Tutti e tre sono stati puntualmente percorsi dal papa, tra applausi ripetuti, interessanti per la loro diversa intensità di fronte ai contenuti e ai toni diversi del discorso. Mi permetto di osservare, perché non è estraneo a quanto dirò, che il papa avrebbe potuto evitare, più che sollecitare gli applausi, a loro modo "politici".

A una TV cattolica che mi chiedeva impressioni ho sinceramente lodato la forza del richiamo missionario di Jorge Mario Bergoglio, il grande dono che questo pontificato fa alla Chiesa universale – cioè al mondo, alla storia –, se si considera che l’uscire alla ricerca degli altri era divenuto estraneo ai gusti di molte chiese-comunità postconciliari.

Ma ho dovuto sottolineare anche gli equivoci del passo del suo discorso sulle "tentazioni" della Chiesa – ovvero il pelagianesimo (ricordo: l'antica eresia secondo cui per percorrere le tappe della salvezza basta un idoneo sforzo umano, indipendentemente dalla grazia divina) e la gnosi –, con cui papa Bergoglio ha indurito la sua "querelle" intra-ecclesiastica.

La polemica antipelagiana contro la fiducia nelle strutture – quali poi esattamente? – e l’eccesso di organizzazione c'era già nella stagione postbellica e preconciliare della Chiesa cattolica. Sappiamo che bersaglio di Francesco è la troppa fiducia nella norma; ma quando egli afferma che è la “norma che dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso”, e che questo tipo di deviazione assume “uno stile di controllo, di durezza, di normatività”, come nei "fondamentalismi" e nei "conservatorismi", vediamo meglio a chi mirano le sue parole ma non vediamo più il pelagianesimo vero, piuttosto qualche traccia di quello che fu un suo nemico, il giansenismo.

Pelagio non c’entra né con la grande Chiesa di Pio XII né con quel poco di organizzazione, istituzione e norma che resta vivo oggi. Dovrebbe la Chiesa preoccuparsi del più plausibile pelagianesimo teologico e pastorale di coloro che ignorano e di fatto cancellano il peccato e la grazia. Ma se, per l'attuale papa, pelagiano è chi fa il contrario, perdiamo il discernimento di ciò che è realmente grave.

Inquietante è anche l’uso del riferimento fatto da papa Francesco allo gnosticismo, una tentazione, ci ha detto, “che porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro”. Anche qui per additare all'esecrazione del popolo quella parte della Chiesa che colpevolmente curerebbe intelletto e dottrina – un po’ come san Tommaso d'Aquino e infiniti altri? –, restando infine “chiusa nell’immanenza”.

Le spiritualità gnostiche antiche e moderne non sono ovviamente nulla di questo. Una più recente e geniale estensione della nozione – come ci ha indicato Eric Voegelin – riguarda l’agire rivoluzionario che, in nome di una Causa, con una dottrina e una retorica semplificate in bocca, persegue una Realtà oltre la realtà vera. Qualcosa del genere, ma post-ideologico, papa Francesco potrebbe trovarlo, in questi anni, dove meno se lo aspetta.

Ho già scritto quanto disorientante sia questo impiego arbitrario di parole teologicamente delicate. Il loro uso errato, senza criterio se non quello di delineare bersagli estesi a piacere, non corrisponde al retto esercizio della giustizia nella Chiesa. In più, genera dubbi se questo stile sia accettabile nella persona di un papa. Rivolgersi al consenso di popolo, in cattedrale, per strapazzare i vescovi – perché questo ha capito la gente comune – sarebbe in sé, per lo scienziato politico, ricerca "demagogica" di legittimazione.

Demagogo è un termine che non deve dispiacere: Max Weber lo usava per i profeti dell’antico Israele nella loro azione mobilitante, che compivano da privati, esterni al Tempio. Ma, appunto, Bergoglio non è un predicatore o un carismatico privato, non predica rivelazioni private, è papa. Si riveste invece del duplice ruolo ora di vertice istituzionale, ora di carismatico anti-istituzionale, che si volge contro una “parte” della Chiesa. Se come capo della Chiesa ha tutti i poteri che ne conseguono, come carismatico esercita, quali che siano le sue intenzioni, una obiettiva azione antagonistica ai ceti istituzionali.

Direbbe lo studioso che egli opera come un "capoparte" alla conquista del proprio partito, che è anche il partito dominante: colpisce i vecchi vertici, non bada alle vittime. Per questo il suo discorso di Santa Maria del Fiore ha l’aspetto di una relazione da congressi politici di storica e recente memoria.

Frequente e ammirata in politica, questa prassi non lo è nella Chiesa, dove l’applauso dei fedeli non legittima alcunché, non aggiunge uno iota alla potestà di un papa e al valore delle sue decisioni; dove la sanzione di errori di ortodossia e di prassi deve essere condotta non per slogan ma sotto il segno della dottrina e del diritto; dove i vescovi non sono i membri di un comitato centrale o i dirigenti di un apparato in balia di un vertice politico "democratico".

Il convegno ecclesiale nazionale dei giorni scorsi a Firenze ha fatto trasparire l’impegno sincero di adeguamento della Chiesa italiana allo stile, pesante di effetti, di questo pontificato. Basti pensare che nella formula delle "cinque vie" sature di pastoralismo che il convegno ha adottato (uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare), non abita san Tommaso ma molto papa Francesco.

In linguaggio "ecclesialese" dovrei parlare di una "lieta, gioiosa, riconoscente fatica" della Chiesa italiana. Ma non è certo che per tutti sia così.








chiesa.espresso.repubblica.it

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