Traduzione dall’inglese, a cura di Corrispondenza Romana, del testo di un importante intervento, pubblicato da Sua Eccellenza mons. Athanasius Schneider, vescovo ausiliario di Astana, sul sito Rorate Caeli.
2 novembre 2015
+ Athanasius Schneider, Vescovo Ausiliare dell’Arcidiocesi di Santa Maria ad Astana
Nella Relazione Finale del Sinodo porta aperta ad una prassi neo-mosaica
La XIV Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi (4-25 ottobre 2015), dedicata al tema “La vocazione e la missione della Famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”, ha pubblicato una Relazione Finale con alcune proposte pastorali ora sottoposte al discernimento del Papa. Lo stesso documento è solo di natura consultiva e non possiede alcun formale valore magisteriale.
Eppure, durante il Sinodo, sono apparsi autentici neo-discepoli di Mosé e neo-farisei, che ai numeri 84-86 della Relazione Finale hanno aperto una porta secondaria o collocato bombe ad orologeria a scoppio ritardato circa l’ammissione dei divorziati risposati alla Santa Comunione. Contemporaneamente, chi tra i Vescovi ha intrepidamente difeso «la fedeltà propria della Chiesa a Cristo ed alla Sua Verità» (Papa Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica Familiaris Consortio, 84), è stato ingiustamente etichettato da alcuni media come fariseo.
I nuovi discepoli di Mosé ed i nuovi farisei durante le ultime due Assemblee del Sinodo (2014 e 2015) hanno nascosto il fatto d’aver negato nella prassi l’indissolubilità del matrimonio e di aver come sospeso il sesto Comandamento sulla base del “caso per caso”, sotto un apparente concetto di misericordia, usando espressioni come “via del discernimento”, “accompagnamento”, “orientamenti del Vescovo”, “dialogo col sacerdote”, “foro interno”, “un’integrazione più piena nella vita della Chiesa”, per indicare una possibile eliminazione dell’imputabilità per i casi di convivenza all’interno di unioni irregolari (cfr. Relazione Finale, nn. 84-86).
Questi brani della Relazione Finale contengono infatti tracce di una nuova prassi di divorzio di stampo neo-mosaico, benché i redattori abbiano abilmente e scaltramente evitato qualsiasi mutamento esplicito della Dottrina della Chiesa. Pertanto, tutti gli attori in gioco, tanto i promotori della cosiddetta agenda Kasper quanto i loro avversari, possono apparentemente dirsi soddisfatti: “E’ tutto OK. Il Sinodo non ha cambiato la Dottrina”. Quest’opinione però è del tutto ingenua, poiché ignora la porta secondaria e le incombenti bombe ad orologeria presenti nei brani sopra citati che si rendono evidenti se si esamina attentamente il testo alla luce di criteri interpretativi interni.
Anche quando, parlando di una “via del discernimento”, si fa riferimento al “pentimento” (Relazione Finale, n. 85), il testo rimane comunque carico di ambiguità. Infatti, secondo le reiterate affermazioni del Card. Kasper e degli uomini di Chiesa che la pensano allo stesso modo, tale pentimento riguarderebbe i peccati commessi in passato contro il coniuge del primo matrimonio, quello valido, mentre non si riferirebbe in alcun modo al fatto della convivenza coniugale col nuovo partner, sposato civilmente.
Resta ambigua l’assicurazione contenuta nel testo ai numeri 85 ed 86 della Relazione Finale secondo cui tale discernimento debba essere fatto in accordo con l’insegnamento della Chiesa ed essere formulato secondo un retto giudizio. Infatti, il Card. Kasper ed i prelati che ne condividono la posizione, hanno ripetutamente e vigorosamente garantito che l’ammissione alla Santa Comunione dei divorziati e risposati civilmente non intaccherebbe il dogma dell’indissolubilità e della sacramentalità del matrimonio, ma hanno anche sostenuto che un giudizio secondo coscienza in tali casi sarebbe da considerarsi corretto quand’anche i divorziati risposati continuassero a convivere in modo coniugale, senza che sia richiesta loro una vita di completa continenza, come fratelli e sorelle.
Citando il famoso punto n. 84 dell’Esortazione Apostolica Familiaris Consortio di papa Giovanni Paolo II all’interno del n. 85 della Relazione Finale, i redattori ne hanno censurato il testo, tagliando la seguente formulazione, decisiva: «L’Eucarestia può essere concessa solo a quanti facciano proprio l’impegno di vivere in piena continenza, cioè astenendosi dagli atti propri dei coniugi».
Tale prassi della Chiesa è fondata sulla Divina Rivelazione della Parola di Dio, scritta e trasmessa attraverso la Tradizione. E’ espressione di un’ininterrotta Tradizione, che dagli Apostoli è rimasta immutata ed immutabile in tutti i tempi. Già Sant’Agostino affermava: «Chi respinge la moglie adultera e sposa un’altra donna, vivente la prima moglie, si trova in perpetuo stato di adulterio. Costui non compie alcuna penitenza davvero efficace, qualora si rifiutasse di abbandonare la nuova moglie. Se è catecumeno, non può essere ammesso al Battesimo, poiché la sua volontà resta radicata nel male. Se è penitente (battezzato), non può ricevere la riconciliazione (ecclesiastica), finché non interrompa la propria condotta negativa» (De adulterinis coniugiis, 2, 16). Di fatto, la parte dell’insegnamento della Familiaris Consortio, intenzionalmente censurata al n. 85 della Relazione Finale rappresenta, per qualsiasi sana ermeneutica, la vera chiave interpretativa per la comprensione del brano sui divorziati risposati (nn. 84-86).
Ai nostri giorni viene esercitata una pressioni ideologica permanente ed onnipresente da parte dei mass-media, allineati al pensiero unico imposto da poteri mondiali anti-cristiani, con l’obiettivo di abolire la verità sull’indissolubilità del matrimonio – banalizzando il carattere sacro di questa divina istituzione mediante la diffusione di un’anti-cultura del divorzio e del concubinato. Già 50 anni fa, il Concilio Vaticano II affermò che i tempi moderni sono infettati dalla piaga del divorzio (cfr. Gaudium et Spes, 47). Lo stesso Concilio avvertì come il matrimonio cristiano in quanto Sacramento di Cristo non debba «mai venire profanato dall’adulterio o dal divorzio» (Gaudium et Spes, 49).
La profanazione del «grande Sacramento» (Ef 5, 32) del matrimonio tramite adulterio e divorzio ha assunto proporzioni enormi ed un ritmo di crescita allarmante non soltanto nella società civile, ma anche tra i cattolici. Quando i cattolici, attraverso il divorzio e l’adulterio, ripudiano, nella teoria o nella prassi la volontà di Dio espressa nel sesto Comandamento, si pongono in uno stato di grave pericolo spirituale : quello di perdere la salvezza eterna.
L’atto più misericordioso da compiersi come Pastori della Chiesa è quello di richiamare l’attenzione su questo rischio con un chiaro – ed allo stesso tempo amorevole – monito sulla necessità di accettare pienamente il sesto Comandamento di Dio. Essi devono chiamare le cose col loro giusto nome, ammonendo : “il divorzio è divorzio”, “l’adulterio è adulterio” e “chi commette consapevolmente e liberamente peccati gravi contro i Comandamenti di Dio – ed in questo caso contro il sesto Comandamento – e muore impenitente riceverà la condanna eterna e verrà escluso per sempre dal Regno di Dio”.
In questo monito ed in quest’esortazione consiste la vera azione dello Spirito Santo, come Cristo ha insegnato: «Convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia ed al giudizio» (Gv 16, 8). Spiegando l’azione dello Spirito Santo nel «convincere circa il peccato», papa Giovanni Paolo II ha affermato: «Ogni peccato, dovunque ed in qualsiasi momento commesso, viene riferito alla Croce di Cristo – e, dunque, indirettamente anche al peccato di coloro che “non hanno creduto in Lui”, condannando Gesù Cristo alla morte di Croce» (Enciclica Dominum et Vivificantem, 29). Coloro che conducono una vita coniugale con un partner, che non sia il legittimo sposo, come nel caso delle persone divorziate e civilmente risposate, rigettano la volontà di Dio. Convincere costoro del proprio peccato è opera mossa dallo Spirito Santo e comandata da Gesù Cristo, il che lo rende un’opera eminentemente pastorale e misericordiosa.
La Relazione Finale del Sinodo, sfortunatamente, omette di convincere i divorziati risposati in merito al loro peccato. Al contrario, col pretesto della misericordia e di un falso senso della pastoralità, i Padri Sinodali, che hanno sostenuto le teorie formulate nei numeri 84-86 della Relazione, hanno tentato di occultare la condizione di pericolo spirituale in cui si trovano i divorziati risposati.
Difatti, gli si dice che il loro peccato di adulterio non è un peccato e non può essere definito adulterio. O quanto meno non è un peccato grave e la loro condizione di vita non comporta alcun pericolo spirituale. Un atteggiamento di questo tipo da parte dei Pastori è direttamente in contrasto con l’azione dello Spirito Santo ed è pertanto anti-pastorale, opera di falsi profeti cui si possono applicare le seguenti parole della Sacra Scrittura: «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro» (Is 5, 20) e «I tuoi profeti hanno avuto per te visioni di cose vane e insulse, non hanno svelato le tue iniquità per cambiare la tua sorte; ma ti han vaticinato lusinghe, vanità e illusioni» (Lam 2, 14). A questi Vescovi l’Apostolo Paolo senza alcun dubbio rivolgerebbe oggi queste parole: «Questi tali sono falsi apostoli, operai fraudolenti, che si mascherano da apostoli di Cristo» (II Cor 11, 13).
Il testo della Relazione Finale del Sinodo non solo omette di convincere senza ambiguità coloro che sono divorziati e risposati civilmente circa la realtà adultera e quindi il carattere gravemente peccaminoso della loro condizione di vita. Esso la giustifica indirettamente collocando la questione, in definitiva, nell’area della coscienza individuale ed applicando, in modo improprio, il principio morale dell’imputabilità al caso della convivenza tra divorziati risposati. Tuttavia, l’applicazione di tale principio ad uno stato stabile, permanente e pubblico di adulterio è inappropriata ed ingannevole.
La diminuzione della responsabilità soggettiva si dà solo nel caso in cui i partner abbiano la ferma intenzione di vivere in completa continenza e di compiere per questo sforzi sinceri. Finché persistono intenzionalmente in un’esistenza peccaminosa, non può esservi alcuna sospensione d’imputabilità. La Relazione Finale dà invece l’impressione di voler suggerire che una condizione pubblica di adulterio – come nel caso di quanti si siano risposati civilmente – non violi alcun vincolo di matrimonio sacramentale indissolubile oppure che non rappresenti in ogni caso un peccato mortale o grave ed, in ultimo, che si tratti di una questione di coscienza privata. In questo modo la si può definire una situazione più vicina al principio protestante del giudizio soggettivo in materia di fede e di disciplina ed una prossimità intellettuale all’erronea teoria dell’“opzione fondamentale” già condannata dal Magistero (cfr. papa Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis Splendor, 65-70).
I Pastori della Chiesa non dovrebbero in alcun modo promuovere una cultura del divorzio tra i fedeli. Anche il più piccolo cenno di cedimento alla prassi o alla teoria del divorzio dovrebbe essere evitato. La Chiesa nel suo insieme dovrebbe dare una testimonianza convincente e forte circa l’indissolubilità del matrimonio. Papa Giovanni Paolo II ha definito il divorzio «una piaga che va, al pari delle altre, intaccando sempre più largamente anche gli ambienti cattolici, il problema dev’essere affrontato con premura indilazionabile» (Familiaris Consortio, 84).
La Chiesa deve aiutare i divorziati risposati con amore e pazienza a riconoscere il loro peccato ed a convertirli con tutto il cuore a Dio, obbedendo alla Sua Santa volontà, come dice il sesto Comandamento. Finché proseguono nel dare una pubblica contro-testimonianza sull’indissolubilità del matrimonio e finché contribuiscono a diffondere una cultura divorzista, essi non possono esercitare nella Chiesa quei ministeri liturgici, catechetici ed istituzionali, che richiedono per loro stessa natura una vita pubblica conforme ai Comandamenti di Dio.
E’ ovvio che i pubblici trasgressori, ad esempio, del quinto e del settimo Comandamento, come i titolari di una clinica abortista o i membri di una rete di corruzione, non solo non possono ricevere la Santa Comunione, ma non possono evidentemente neanche essere ammessi ai pubblici servizi liturgici e catechetici. In modo analogo, anche i trasgressori pubblici del sesto Comandamento, quali i divorziati risposati, non possono essere ammessi agli uffici di lettore, padrino o catechista. Naturalmente, occorre distinguere in termini di gravità il male provocato da chi promuova pubblicamente l’aborto e la corruzione da quello dell’adulterio proprio delle persone divorziate. Non si possono porre sullo stesso piano. Sostenendo però l’ammissione dei divorziati risposati al ruolo di padrini e catechisti, in ultima analisi, non si fa il vero bene spirituali dei bambini, ma sembra invece essere la strumentalizzazione di un preciso programma ideologico. E’ un atteggiamento disonesto ed una presa in giro dell’istituzione di padrini o catechisti i quali, tramite una promessa pubblica, si sono assunti il compito di educare alla fede.
Se i divorziati risposati facessero i padrini o i catechisti, la loro vita contraddirebbe in continuazione le loro parole, per cui dovrebbero rispondere all’ammonizione dello Spirito Santo per bocca dell’Apostolo San Giacomo: «Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi» (Gc 1, 22). Purtroppo, il n. 84 della Relazione Finale invoca l’ammissione dei divorziati risposati agli uffici liturgici, pastorali ed educativi. Tale proposta rappresenta un supporto indiretto alla cultura divorzista, nonché la negazione pratica di uno stile di vita oggettivamente peccaminoso. Papa Giovanni Paolo II, al contrario, ha indicato loro solo le seguenti possibilità di partecipazione alla vita della Chiesa, con l’obiettivo di agevolare un’autentica conversione: «Siano esortati ad ascoltare la Parola di Dio, a frequentare il sacrificio della Messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità ed alle iniziative della comunità in favore della giustizia, ad educare i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere di penitenza per implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio» (Familiaris Consortio, n. 84).
Deve restare una salutare area di esclusione (non ammissione ai Sacramenti ed agli uffici pubblici liturgici e catechetici), per ricordare alle persone divorziate la loro reale condizione spirituale, grave e pericolosa, ed allo stesso tempo per promuovere nelle loro anime un atteggiamento di umiltà, di obbedienza e di anelito ad un’autentica conversione. Umiltà significa coraggio verso la verità e solo coloro che umilmente si sottomettono a Dio possono ricevere le Sue grazie.
I fedeli, non ancora disposti a porre termine alla propria condizione di adulteri e privi della volontà necessaria per farlo, devono essere aiutati spiritualmente. Il loro stato è simile ad una sorta di “catecumenato” riguardo al Sacramento della Penitenza. Possono ricevere il Sacramento della Confessione, chiamato nella Tradizione della Chiesa “secondo Battesimo” o “seconda penitenza”, solo quanti siano decisi a por fine alla convivenza adultera e ad evitare il pubblico scandalo in una modalità analoga a quanto fanno i catecumeni, i candidati al Battesimo. La Relazione Finale omette di richiamare i divorziati risposati all’umile riconoscimento del proprio stato di peccato oggettivo ed evita d’incoraggiarli ad accettare con spirito di fede la loro non ammissione ai Sacramenti ed agli uffici pubblici, liturgico e catechetico. Senza tale riconoscimento realistico ed umile della propria condizione spirituale, non v’è progresso effettivo verso un’autentica conversione cristiana, che nel caso dei divorziati risposati consiste in una vita di piena continenza, cessando di peccare contro la santità del Sacramento del matrimonio e di disobbedire pubblicamente al sesto Comandamento di Dio.
I Pastori della Chiesa e soprattutto i testi pubblici del Magistero devono parlare in modo estremamente chiaro, poiché questo è ciò che caratterizza essenzialmente il compito proprio di coloro che ufficialmente esercitano l’insegnamento. Cristo richiede a tutti i Suoi discepoli di agire così: «Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» (Mt 5, 37). Ciò vale tanto più quando i Pastori della Chiesa predichino o quando il Magistero si esprima in un documento.
Nei brani 84-86, la Relazione Finale rappresenta, purtroppo, un grave distacco da questo comando divino. Infatti, nei passaggi citati, non si chiede direttamente di legittimare l’ammissione dei divorziati risposati alla Santa Comunione, ed evita addirittura di parlare di “Santa Comunione” o di “Sacramenti”. Il testo, attraverso strumenti tattici diretti a confondere, ricorre ad espressioni ambigue come «una partecipazione più piena alla vita della Chiesa» e «discernimento e integrazione».
Con tali metodi la Relazione Finale di fatto piazza bombe ad orologeria ed apre una porta secondaria, con cui ammettere i divorziati risposati alla Santa Comunione, profanando i due grandi Sacramenti del Matrimonio e dell’Eucaristia, nonché contribuendo, almeno indirettamente, ad una cultura divorzista – a diffondere cioè la «piaga del divorzio» (Concilio Vaticano II, Gaudium et Spes, 47).
Una lettura attenta dell’equivoca sezione intitolata “Discernimento e integrazione” nella Relazione Finale, suscita l’impressione di un’ambiguità elaborata con finezza ed abilità. Vengono alla mente le seguenti parole di S. Ireneo in Adversus Haereses: «Così chi conserva salda in sé stesso la regola della Verità, che ha ricevuto per mezzo del Battesimo, riconoscerà bensì le parole, le frasi e le parabole delle Scritture, ma non riconoscerà il blasfemo insegnamento che gli uomini ne fanno. Perché, se anche riconoscerà le pietre preziose, non accetterà la volpe fatta con esse al posto dell’immagine del re. Poiché però a questa rappresentazione manca l’atto finale, che cioè qualcuno riveli la loro farsa dandole il colpo di grazia, crediamo necessario mostrare in primo luogo quelle cose sulle quali i padri di questa favola siano in disaccordo tra loro, tributari come sono di diversi spiriti erronei. In tal modo si potrà scoprire perfettamente, anche prima della dimostrazione, la saldezza della verità predicata dalla Chiesa e la falsità delle favole inventate da loro» (I, 9, 4-5).
La Relazione Finale sembra lasciare alle autorità della Chiesa locale la risoluzione della questione relativa all’ammissione dei divorziati risposati alla Santa Comunione: «l’accompagnamento dei sacerdoti» e «gli orientamenti del Vescovo». La materia è in ogni caso connessa essenzialmente al deposito della fede, cioè alla Parola di Dio rivelata. La non ammissione dei divorziati, che vivano in stato di pubblico adulterio, discende dalla verità immutabile della Legge propria della fede cattolica e, di conseguenza, anche dalla Legge della prassi liturgica cattolica.
La Relazione Finale sembra inaugurare una cacofonia dottrinale e disciplinare nella Chiesa Cattolica, che contraddice l’essenza propria del Cattolicesimo. Si devono ricordare le parole di Sant’Ireneo circa la forma autentica della Chiesa in ogni tempo ed in ogni luogo: «In realtà, la Chiesa, sebbene diffusa in tutto il mondo fino alle estremità della terra, avendo ricevuto questa predicazione e questa fede, le conserva con cura, come se abitasse un’unica casa. Crede anche in uno stesso identico modo, come se avesse una sola anima ed un cuore solo, e predica le verità della fede, le insegna e le trasmette con voce unanime, come se avesse una sola bocca. Infatti, anche se le lingue nel mondo sono varie, il contenuto della Tradizione è però unico e identico. E non hanno altra fede o altra Tradizione né le Chiese che sono in Germania, né quelle che sono in Spagna, né quelle che sono in Gallia, né quelle dell’Oriente, dell’Egitto, della Libia, né quelle che si trovano al centro del mondo (Italia). Ma come il sole, creazione di Dio, è uno e lo stesso in tutto il mondo, così anche la predicazione della Verità risplende ovunque e illumina tutti gli uomini disposti a conoscere la Verità medesima. Né alcuno dei capi delle Chiese, per quanto dotato di grande talento nell’eloquenza, insegna dottrine diverse da questa (poiché nessuno è più grande del Maestro); né, d’altra parte, chi manchi in capacità espressiva può infliggere ferite alla tradizione. Per la fede che è sempre stata una e la stessa, nessuno è tanto abile da discorrerne a lungo, aggiungendovi o togliendovi alcunché» (Adversus haereses, I, 10, 2).
La Relazione Finale nella sezione relativa ai divorziati risposati evita sistematicamente di ammettere il principio immutabile dell’intera tradizione cattolica ovvero che quanti vivano un’unione coniugale invalida possono essere ammessi alla Santa Comunione solo a condizione di promettere di vivere in piena continenza e di evitare il pubblico scandalo. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno confermato con forza tale principio cattolico. Evitare intenzionalmente di menzionarlo e di riaffermarlo nel testo della Relazione Finale può essere paragonato alla programmatica elusione dell’espressione “homoousios” da parte degli avversari del dogma del Concilio di Nicea nel IV secolo – gli Ariani formali ed i cosiddetti semi-Ariani –, che hanno inventato, una dopo l’altra, altre espressioni per non riconoscere direttamente la consustanzialità del Figlio di Dio a Dio Padre.
Tale allontanamento da un’aperta professione cattolica da parte di una maggioranza dell’episcopato nel IV secolo provocò una febbrile attività ecclesiastica con continui incontri sinodali ed una proliferazione di nuove formule dottrinali aventi quale comune denominatore quello di evitare la chiarezza terminologica dell’espressione “homoousios”. Allo stesso modo, ai nostri giorni i due Sinodi sulla Famiglia hanno evitato di nominare e di ammettere con chiarezza il principio proprio dell’intera tradizione cattolica per il quale, chi vive un’unione coniugale invalida può essere ammesso alla Santa Comunione solo a condizione che prometta di vivere una completa continenza e di evitare il pubblico scandalo.
Ciò è provato anche dall’inequivocabile ed immediata reazione avuta dai media secolarizzati, nonché dai principali fautori della nuova pratica non-cattolica di ammettere i divorziati risposati alla Santa Comunione, pur permanendo la loro condizione di pubblico adulterio. Il Card. Kasper, il Card. Nichols e l’Arcivescovo Forte, ad esempio, hanno apertamente dichiarato che, secondo la Relazione Finale, si può supporre che una porta in qualche modo sia stata aperta alla Comunione ai divorziati risposati. V’è anche un considerevole numero di Vescovi, sacerdoti e laici, che gioiscono di fronte alla prospettiva di questa “porta aperta”, trovata nella Relazione Finale. Anziché guidare i fedeli ad una Dottrina chiara ed in sommo grado inequivocabile, la Relazione Finale ha provocato una situazione di oscurità, di confusione, di soggettivismo (il giudizio di coscienza sul divorzio ed il foro interno) ed un particolarismo dottrinale e disciplinare, a sua volta non cattolico, in una materia essenzialmente collegata al deposito della fede trasmesso dagli Apostoli.
Coloro che ai nostri giorni difendono strenuamente la santità dei Sacramenti del Matrimonio e dell’Eucaristia vengono etichettati come farisei. Tuttavia, dal momento che il principio logico di non contraddizione è valido ed il senso comune funziona ancora, è vero il contrario.
Son più simili ai farisei coloro che offuscano la Verità divina nella Relazione Finale. Pur di conciliare una vita adultera con la ricezione della Santa Comunione, si sono abilmente inventati nuovi significati, una nuova legge di «discernimento e integrazione», introducendo nuove tradizioni umane contro il cristallino Comandamento di Dio. Ai sostenitori della cosiddetta agenda Kasper sono rivolte queste parole di Verità incarnata: «Avete fatto decadere la Parola di Dio con la tradizione che voi avete tramandato» (Mc 7, 13). Coloro che per duemila anni han parlato incessantemente e con la massima chiarezza dell’immutabilità della Verità divina, spesso a costo della propria vita, oggi verrebbero pertanto etichettati come farisei: così San Giovanni il Battista, San Paolo, Sant’Ireneo, Sant’Atanasio, San Basilio, San Tommaso Moro, San Giovanni Fisher, San Pio X, solo per citarne gli esempi più luminosi.
Il vero risultato del Sinodo nella percezione tanto dei fedeli quanto dell’opinione pubblica secolarizzata è l’impressione che, in pratica, si sia focalizzata soltanto la questione dell’ammissione delle persone divorziate alla Santa Comunione. Si può affermare che il Sinodo in un certo senso si sia rivelato agli occhi dell’opinione pubblica come il Sinodo dell’adulterio, non della Famiglia. In effetti, tutte le belle affermazioni della Relazione Finale sul matrimonio e sulla famiglia vengono poste in ombra dalle dichiarazioni ambigue dei brani sui divorziati risposati, argomento peraltro già definito e risolto dal Magistero degli ultimi Pontefici Romani in fedele conformità all’insegnamento bimillenario ed alla prassi della Chiesa. E’ pertanto una vera vergogna che i Vescovi cattolici, i successori degli Apostoli, abbiano utilizzato le assemblee sinodali per attentare alla costante ed immutabile prassi della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio ovvero sulla non ammissione ai Sacramenti dei divorziati, che vivano un’unione adulterina.
Nella sua lettera a papa Damaso, San Basilio ha tracciato un quadro realistico della confusione dottrinale provocata all’epoca da quegli ecclesiastici alla ricerca di un vacuo compromesso e di un accomodamento allo spirito del mondo: «Le tradizioni non sono fissate a nulla; i piani degli innovatori sono di moda nelle chiese; vi son più ideatori di astuti meccanismi che teologi; la sapienza di questo mondo conquista i riconoscimenti più alti e rifiuta la gloria della Croce. Gli anziani si rammaricano, quando confrontano il presente al passato. Ancor più v’è da compatire i più giovani, poiché non sanno nemmeno di cosa siano stati privati» (Ep. 90, 2).
In una lettera a papa Damaso ed ai Vescovi occidentali, San Basilio descrisse così la confusa situazione vigente nella Chiesa: «Le leggi della Chiesa sono preda della confusione. L’ambizione degli uomini, che non hanno timore di Dio, li fa balzare ai posti più elevati e chi magnifica il rito è ora conosciuto da tutti come preda dell’empietà. L’esito è che più un uomo bestemmia, più la gente pensa che sia un vescovo. La dignità clericale è una cosa del passato. Non vi è alcuna conoscenza precisa dei Canoni. Vi è totale immunità nel peccare; chi ha raggiunto un determinato incarico col favore degli uomini, è obbligato a restituirlo, mostrandosi in continuazione indulgente verso i trasgressori. Anche il retto giudizio è una cosa del passato ed ognuno procede secondo le brame del proprio cuore. Chi detiene l’autorità ha paura di parlare, chi ha raggiunto il potere in virtù dell’umano interesse è schiavo di coloro ai quali deve la propria affermazione. Ed ora rivendicare l’autentica ortodossia viene visto in taluni ambienti come l’opportunità per attaccarsi reciprocamente; gli uomini occultano nell’intimo la loro cattiva volontà e pretendono che il loro atteggiamento ostile tragga interamente motivo dall’amore della verità. Mentre i miscredenti ridono, gli uomini deboli nella fede restano scossi, il credere è incerto, le anime sono immerse nell’ignoranza, poiché chi adultera le parole imita la verità. I migliori tra i laici evitano le chiese come cattedre di empietà e levano le loro mani al cielo nel deserto con sospiri e lacrime rivolti al loro Signore. La fede ricevuta dai Padri, quella che sappiamo segnata col simbolo degli Apostoli, a questa fede noi diamo il nostro assenso, così come a tutto quanto in passato era stato promulgato canonicamente e legalmente» (Ep. 92, 2).
Ogni periodo di confusione nella storia della Chiesa è allo stesso tempo un periodo in cui è possibile ricevere grandi grazie di forza e di coraggio, nonché un’opportunità di mostrare il proprio amore per Cristo, Verità incarnata. A Lui ogni battezzato, ogni sacerdote ed ogni Vescovo ha promesso fedeltà inviolabile, ciascuno nel proprio stato: mediante le promesse battesimali, quelle sacerdotali e quella solenne dell’ordinazione episcopale: «Io manterrò puro ed integro il deposito della fede, secondo la tradizione sempre ed ovunque preservata nella Chiesa». L’ambiguità contenuta nella sezione divorziati risposati della Relazione Finale contraddice il solenne giuramento episcopale sopra riportato. Nonostante ciò, tutti nella Chiesa – dal semplice fedele ai detentori del Magistero – dovrebbero dire:
“Non possumus!”. Io non accetterò un discorso nebuloso né una porta secondaria abilmente occultata per profanare il Sacramento del Matrimonio e dell’Eucaristia. Allo stesso modo, non accetterò che ci si prenda gioco del sesto Comandamento di Dio. Preferisco esser io ridicolizzato e perseguitato piuttosto che accettare testi ambigui e metodi non sinceri. Preferisco la cristallina «immagine di Cristo Verità all’immagine della volpe ornata con pietre preziose» (S. Ireneo), perché «conosco ciò in cui ho creduto», «Scio cui credidi» (II Tm 1, 12).
(Fonte: Rorate Caeli. Trad. it. di Mauro Faverzani per Corrispondenza Romana 04 novembre 2015 )
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