Non vorrei che il sinodo della famiglia passasse senza che fosse fatta una riflessione sul metodo dei suoi documenti e, in particolare, della relatio finalis. Non quindi sul metodo dei lavori, ma sul metodo della redazione dei documenti. La questione è di grande importanza: ecco perché.
di Stefano Fontana
Non vorrei che il Sinodo della famiglia passasse senza che fosse fatta una riflessione sul metodo dei suoi documenti e, in particolare, della Relatio finalis. Non quindi sul metodo dei lavori ma sul metodo della redazione dei documenti.
La Relazione finale inizia con una parte dedicata a “La Chiesa in ascolto della famiglia” a cui segue una seconda parte dal titolo “La famiglia nel piano di Dio”. Il documento non parte dal progetto di Dio sulla famiglia, ma dal contesto di oggi. Nella prima parte, infatti, si fa il quadro della situazione: si esamina il contesto “antropologico-culturale”, poi quello “socio-economico”, poi quello “sociale”.
È un viaggio nella fenomenologia di oggi. Si parla un po’ di tutto, come in una specie di inventario: dalle vedove ai bambini, dalla donna ai migranti, dalle politiche familiari alla povertà, dall’ecologia alle persone con bisogni speciali. È un rincorrere l’attualità, senza riuscire mai a prenderla, perché nel frattempo è già mutata. È tutto un costruire quadri sinottici che non si sa quanto siano attendibili. Una volta fatta questa disamina dell’essere si esamina il dover essere, ossia come stanno le cose nel piano di Dio. Fatto questo, in genere i documenti guardano avanti sulle cose da fare.
Questo è il metodo che da decenni seguono i documenti finali dei consessi ecclesiali. La Gaudium et spes del Vaticano II ne è stato il prototipo. Il documento di Medellin, la prima Conferenza episcopale latinoamericana (1969) ne è stata la prima concretizzazione, la famosa indicazione “vedere-giudicare-agire” della Mater et Magistra di Giovanni XXIII la prima formale teorizzazione. Solitamente viene chiamato metodo induttivo, e viene contrapposto al metodo deduttivo che sarebbe il contrario. Se la Relatio finalis avesse cominciato con “La famiglia nel piano di Dio” per poi passare a “La Chiesa in ascolto della famiglia” sarebbe stata accusata di essere deduttiva. Con questo criterio, tutte le encicliche sociali precedenti il Concilio, compresa la Rerum novarum, sono state accusate di essere deduttive. E come tali abbandonate al proprio destino. Dopo tanti anni, a mio modo di vedere, sarebbe ora di cambiare schema e di uscire da questa insulsa contrapposizione induttivo-deduttivo.
Prima di tutto va notato che, come ha ben chiarito Karl Popper che su questo punto è condivisibile, il metodo induttivo non esiste, è stata un’illusione sbagliata e pericolosa del positivismo. In secondo luogo, è facile porre agli estensori della Relatio finalis del Sinodo sulla famiglia la seguente domanda: l’analisi sociale iniziale è svolta a partire dalla luce della Parola di Dio o dall’analisi delle scienze sociali? Nel primo caso non è induttiva, nel secondo caso non è significativa per la fede. Tutti i dati, presi da soli (ammesso che sia possibile), sono solo stupidi. In terzo luogo, questo metodo assegna un ruolo primario alle scienze sociali che vengono investite, poverette, di un compito superiore alle loro forze. Da esse dipenderebbero la filosofia, la teologia e la stessa Parola di Dio. In quarto luogo, partire dalla Parola di Dio e nel caso specifico da “La famiglia nel piano di Dio” non significa per niente adottare un metodo deduttivo.
La Parola di Dio, infatti, non è un insieme di assiomi o postulati da cui dedurre logicamente delle conclusioni come si fa in geometria. Oggi purtroppo si pensa che la dottrina rivelata, oppure la legge, siano concetti astratti e dedurre da esse delle indicazioni pratiche sarebbe far violenza all’esperienza e ai bisogni concreti delle persone, da cui invece bisognerebbe partire. Ma questa è una visione errata sia della dottrina che della legge cristiane. Si tratta di nozioni di fede che esprimono una realtà e che, soprattutto, sono fattive, creative, orientative, animatrici e in grado di soddisfare i nostri bisogni perché li illuminano e ci fanno conoscere quelli veri da quelli falsi.
Assumendo questo metodo già si concede molto all’idea, oggi molto diffusa e che ha fatto capolino con forza al Sinodo sulla famiglia, che tra la dottrina e la situazione di vita ci sia una lontananza che va colmata o dal compromesso della coscienza o dal discernimento o dal caso per caso, che ormai sono gli slogan con cui avremo a che fare nel prossimo futuro. Anche Kasper aveva tirato in ballo la sapienza, la prudenza, l’epicheia. Ma la legge di Dio non è una premessa di un sillogismo, ossia qualcosa di astratto e vuoto, essa stessa è vita ed è per questo che illumina la vita. È giunto il momento di cambiare metodo e ridare al progetto di Dio il suo posto: il primo. Bisogna uscire dalla tenaglia induttivo-deduttivo.
Anche perché, a ben vedere, questo rovesciamento è frutto di una precisa teologia che ha influenzato talmente la vita della Chiesa da imporre anche un nuovo metodo nei documenti. Essa dice che la recezione della Parola di Dio nel mondo fa parte del Messaggio. All’intelligenza nella fede bisogna ora aggiungere l’intelligenza nei bisogni. Partire dai nostri bisogni farebbe parte essenziale del Messaggio di Dio. Come si vede, qui i pericoli si fanno grossi e non è questo il momento di parlarne. Bastino però questi pochi cenni a far capire che il metodo induttivo non è, come farebbe pensare il suo nome, neutro ma espressione di una teologia non condivisibile, perché toglie a Dio il suo primato.
© La Nuova BQ (04-11-2015)
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