Giuliano Guzzo
Ci sono almeno due aspetti singolari in “Separazioni e divorzi in Italia”, report Istat divulgato ieri e contenente un’analisi dei dati per l’anno 2012. Il primo riguarda, per la prima volta dopo tanti anni, un deciso rallentamento dell’instabilità coniugale. «Nel 2012, infatti – nota l’Istat - per la prima volta le separazioni diminuiscono (-0,6%) mentre i divorzi già da qualche anno stanno registrando un calo (-5,8% in tre anni)». La ragione di questo con ogni probabilità deriva, più che da un’improbabile riscoperta del valore dell’indissolubilità matrimoniale, dall’impoverimento generale conseguente alla crisi economica. Tuttavia vale anche il ragionamento opposto, e cioè che l’idea che non pochi, fra le separazioni ed i divorzi conteggiati negli anni precedenti, fossero se non determinati quanto meno agevolati, per così dire, da una disponibilità finanziaria oggi fortemente ridimensionata. In questo senso, perché escludere che, fra tanti effetti negativi quando non disastrosi, la crisi non possa incoraggiare ripensamenti positivi sulla rottura coniugale, positivi soprattutto laddove vi è la presenza di figli?
Il secondo aspetto rilevante fotografato dall’Istat riguarda la straordinaria tenuta del matrimonio religioso rispetto a quello civile. «Mettendo a confronto i matrimoni del 1995 con quelli del 2005 – è scritto nel report - si osserva come la propensione a separarsi nei matrimoni celebrati con il rito religioso sia molto inferiore e molto più stabile nel tempo rispetto a quella nelle nozze civili. Dopo sette anni i matrimoni religiosi sopravviventi sono praticamente gli stessi per le due coorti di matrimonio considerate (rispettivamente 933 e 935 su 1.000). I matrimoni civili sopravviventi scendono a 897 per la coorte del 1995 e a 880 per quella del 2005» (p.3). Intendiamoci: tra gli addetti ai lavori il ruolo protettivo – e non solo protettivo, ma anche in termini di equilibro ed appagamento – esercitato dal fattore religioso sulla stabilità coniugale è noto da tempo e, fra l’altro, è già emerso con chiarezza anche da metanalisi che hanno considerato quasi cento studi effettuati in proposito (Cfr. Journal of Family Psychology2001;Vol.15(4):559-96).
Tuttavia è forse la prima volta che l’Istat – e per di più in una fase culturalmente così critica per la cosiddetta famiglia tradizionale – effettua una sottolineatura tanto convinta come quella ricordata. Questo non può non stimolare una riflessione circa l’effettiva solidità che la famiglia, nella sua versione considerata più antiquata, assicura. In questo senso, anziché introdurre il divorzio breve – evento che, anche fosse ridotto a pratica istantanea, rimarrebbe per chi lo sperimenta un fallimento – si dovrebbe fare possibile per arginare quelli che già si verificano. Chiaramente la religiosità non si può diffondere per decreto né può, in uno Stato laico, essere oggetto di promozione. Il fatto però che taluni matrimoni rispetto ad altri durino significa che lo scioglimento del vincolo coniugale non è, anche se spesso viene percepito come tale, un evento sempre inevitabile. Se quindi, al posto di velocizzare le procedure di fallimento matrimoniale, s’iniziassero a predisporre sostegni concreti per le coppie in crisi, si potrebbe davvero fare del bene. Il punto è che oggi manca totalmente la volontà politica di agire in tal senso. Purtroppo.
giulianoguzzo.wordpress.com
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