Benedetto XVI - Catechesi
Il santo Vescovo Ambrogio – del quale vi parlerò quest’oggi – morì a Milano nella notte fra il 3 e il 4 aprile del 397. Era l’alba del Sabato santo. Il giorno prima, verso le cinque del pomeriggio, si era messo a pregare, disteso sul letto, con le braccia aperte in forma di croce. Partecipava così, nel solenne Triduo pasquale, alla morte e alla risurrezione del Signore. «Noi vedevamo muoversi le sue labbra», attesta Paolino, il diacono fedele che su invito di Agostino ne scrisse la Vita, «ma non udivamo la sua voce».
A un tratto, la situazione parve precipitare. Onorato, Vescovo di Vercelli, che si trovava ad assistere Ambrogio e dormiva al piano superiore, venne svegliato da una voce che gli ripeteva: «Alzati, presto! Ambrogio sta per morire…». Onorato scese in fretta – prosegue Paolino – «e porse al Santo il Corpo del Signore. Appena lo prese e deglutì, Ambrogio rese lo spirito, portando con sé il buon viatico. Così la sua anima, rifocillata dalla virtù di quel cibo, gode ora della compagnia degli angeli» (Vita 47). In quel Venerdì santo del 397 le braccia spalancate di Ambrogio morente esprimevano la sua mistica partecipazione alla morte e alla risurrezione del Signore. Era questa la sua ultima catechesi: nel silenzio delle parole, egli parlava ancora con la testimonianza della vita.
Ambrogio non era vecchio quando morì. Non aveva neppure sessant’anni, essendo nato intorno al 340 a Treviri, dove il padre era prefetto delle Gallie. La famiglia era cristiana. Alla morte del padre, la mamma lo condusse a Roma quando era ancora ragazzo, e lo preparò alla carriera civile, assicurandogli una solida istruzione retorica e giuridica. Verso il 370 fu inviato a governare le province dell’Emilia e della Liguria, con sede a Milano. Proprio lì ferveva la lotta tra ortodossi e ariani, soprattutto dopo la morte del Vescovo ariano Aussenzio. Ambrogio intervenne a pacificare gli animi delle due fazioni avverse, e la sua autorità fu tale che egli, pur semplice catecumeno, venne acclamato dal popolo Vescovo di Milano.
Fino a quel momento Ambrogio era il più alto magistrato dell’Impero nell’Italia settentrionale. Culturalmente molto preparato, ma altrettanto sfornito nell’approccio alle Scritture, il nuovo Vescovo si mise a studiarle alacremente. Imparò a conoscere e a commentare la Bibbia dalle opere di Origene, il maestro indiscusso della «scuola alessandrina». In questo modo Ambrogio trasferì nell’ambiente latino la meditazione delle Scritture avviata da Origene, iniziando in Occidente la pratica della lectio divina. Il metodo della lectio giunse a guidare tutta la predicazione e gli scritti di Ambrogio, che scaturiscono precisamente dall’ascolto orante della Parola di Dio.
Un celebre esordio di una catechesi ambrosiana mostra egregiamente come il santo Vescovo applicava l’Antico Testamento alla vita cristiana: «Quando si leggevano le storie dei Patriarchi e le massime dei Proverbi, abbiamo trattato ogni giorno di morale – dice il Vescovo di Milano ai suoi catecumeni e ai neofiti – affinché, formati e istruiti da essi, voi vi abituaste ad entrare nella via dei Padri e a seguire il cammino dell’obbedienza ai precetti divini» (I misteri 1,1). In altre parole, i neofiti e i catecumeni, a giudizio del Vescovo, dopo aver imparato l’arte del vivere bene, potevano ormai considerarsi preparati ai grandi misteri di Cristo. Così la predicazione di Ambrogio – che rappresenta il nucleo portante della sua ingente opera letteraria – parte dalla lettura dei Libri sacri («i Patriarchi», cioè i Libri storici, e «i Proverbi», vale a dire i Libri sapienziali), per vivere in conformità alla divina Rivelazione.
E’ evidente che la testimonianza personale del predicatore e il livello di esemplarità della comunità cristiana condizionano l’efficacia della predicazione. Da questo punto di vista è significativo un passaggio delle Confessioni di sant’Agostino. Egli era venuto a Milano come professore di retorica; era scettico, non cristiano. Stava cercando, ma non era in grado di trovare realmente la verità cristiana. A muovere il cuore del giovane retore africano in ricerca e a spingerlo alla conversione definitivamente, non furono anzitutto le belle omelie (pure da lui assai apprezzate) di Ambrogio.
Fu piuttosto la testimonianza del Vescovo e della sua Chiesa milanese, che pregava e cantava, compatta come un solo corpo: una Chiesa capace di resistere alle prepotenze dell’imperatore e di sua madre, che nei primi giorni del 386 erano tornati a pretendere la requisizione di un edificio di culto per le cerimonie degli ariani. Nell’edificio che doveva essere requisito – racconta Agostino –«il popolo devoto vegliava, pronto a morire con il proprio Vescovo». Questa testimonianza delle Confessioni è preziosa, perché segnala che qualche cosa andava muovendosi nell’intimo di Agostino, il quale prosegue: «Anche noi, pur ancora spiritualmente tiepidi, eravamo partecipi dell’eccitazione di tutto il popolo» (Confessioni 9,7).
Dalla vita e dall’esempio del Vescovo Ambrogio, Agostino imparò a credere e a predicare. Possiamo riferirci a un celebre sermone dell’Africano, che meritò di essere citato parecchi secoli dopo nella Costituzione conciliare Dei Verbum: «E’ necessario – ammonisce infatti la Dei Verbum al n. 25 – che tutti i chierici e quanti, come i catechisti, attendono al ministero della Parola, conservino un continuo contatto con le Scritture, mediante una sacra lettura assidua e lo studio accurato, “affinché non diventi – ed è qui la citazione agostiniana – vano predicatore della Parola all’esterno colui che non l’ascolta di dentro”». Aveva imparato proprio da Ambrogio questo «ascoltare di dentro», questa assiduità nella lettura della Sacra Scrittura in atteggiamento orante, così da accogliere realmente nel proprio cuore ed assimilare la Parola di Dio.
Cari fratelli e sorelle, vorrei proporvi ancora una sorta di «icona patristica» che, interpretata alla luce di quello che abbiamo detto, rappresenta efficacemente «il cuore» della dottrina ambrosiana. Nel sesto libro delle Confessioni Agostino racconta del suo incontro con Ambrogio, un incontro certamente di grande importanza nella storia della Chiesa. Egli scrive testualmente che, quando si recava dal Vescovo di Milano, lo trovava regolarmente impegnato con catervae di persone piene di problemi, per le cui necessità egli si prodigava. C’era sempre una lunga fila che aspettava di parlare con Ambrogio per trovare da lui consolazione e speranza.
Quando Ambrogio non era con loro, con la gente (e questo accadeva per lo spazio di pochissimo tempo), o ristorava il corpo con il cibo necessario, o alimentava lo spirito con le letture. Qui Agostino fa le sue meraviglie, perché Ambrogio leggeva le Scritture a bocca chiusa, solo con gli occhi (cfr Confessioni 6,3). Di fatto, nei primi secoli cristiani la lettura era strettamente concepita ai fini della proclamazione, e il leggere ad alta voce facilitava la comprensione pure a chi leggeva. Che Ambrogio potesse scorrere le pagine con gli occhi soltanto, segnala ad Agostino ammirato una capacità singolare di lettura e di familiarità con le Scritture. Ebbene, in quella «lettura a fior di labbra», dove il cuore si impegna a raggiungere l’intelligenza della Parola di Dio – ecco «l’icona» di cui andiamo parlando –, si può intravedere il metodo della catechesi ambrosiana: è la Scrittura stessa, intimamente assimilata, a suggerire i contenuti da annunciare per condurre alla conversione dei cuori.
Così, stando al magistero di Ambrogio e di Agostino, la catechesi è inseparabile dalla testimonianza di vita. Può servire anche per il catechista ciò che ho scritto nella Introduzione al cristianesimo, a proposito del teologo. Chi educa alla fede non può rischiare di apparire una specie di clown, che recita una parte «per mestiere». Piuttosto – per usare un’immagine cara a Origene, scrittore particolarmente apprezzato da Ambrogio – egli deve essere come il discepolo amato, che ha poggiato il capo sul cuore del Maestro, e lì ha appreso il modo di pensare, di parlare, di agire. Alla fine di tutto, il vero discepolo è colui che annuncia il Vangelo nel modo più credibile ed efficace.
Come l’apostolo Giovanni, il Vescovo Ambrogio – che mai si stancava di ripetere: «Omnia Christus est nobis! – Cristo è tutto per noi!» – rimane un autentico testimone del Signore. Con le sue stesse parole, piene d’amore per Gesù, concludiamo così la nostra catechesi: «Omnia Christus est nobis! Se vuoi curare una ferita, Egli è il medico; se sei riarso dalla febbre, Egli è la fonte; se sei oppresso dall’iniquità, Egli è la giustizia; se hai bisogno di aiuto, Egli è la forza; se temi la morte, Egli è la vita; se desideri il cielo, Egli è la via; se sei nelle tenebre, Egli è la luce … Gustate e vedete come è buono il Signore: beato è l’uomo che spera in Lui!» (La verginità 16,99). Speriamo anche noi in Cristo. Saremo così beati e vivremo nella pace.
© Copyright 2007 – Libreria Editrice Vaticana
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