domenica 31 marzo 2013

FORZA E DEBOLEZZA DEL PAPATO





P. Giovanni Cavalcoli, OP

Ormai appare sempre più chiaro per chi non vive alla superficie della vita ecclesiale, ma vuole essere all’interno della Chiesa o, come diceva S.Teresa di Gesù Bambino, “nel cuore della Chiesa”, “in medio Ecclesiae”, come si diceva di S.Domenico, soprattutto in questi ultimi decenni, si è affermato un episcopato, che impone un modello di Chiesa ispirato a Rahner (anche se non solo), di marca modernistico-protestante-massonica, Chiesa dal basso, Chiesa popolo di Dio, Chiesa pneumatica senza dogmi e senza gerarchia, Chiesa confusa col mondo e quindi mondanizzata[1], Chiesa “trascendentale” ed “atematica” dei cristiani anonimi.

Si tratta di una Chiesa nella Chiesa, dove questa è quella che è governata dal Papa e dai vescovi fedeli al Papa, sulla linea della Scrittura, della Tradizione, dei Padri, dei Concili, di Agostino, di Tommaso sino alla Chiesa del Concilio Vaticano II[2], che però i rahneriani interpretano a proprio uso e consumo.

Infatti questi vescovi recenti sono stati formati da docenti rahneriani non sufficientemente corretti dai vescovi precedenti, già allora troppo indulgenti verso Rahner. Se dunque nei primi anni del postconcilio avevamo per lo più soltanto teologi rahneriani colpevolmente tollerati dai loro vescovi, adesso abbiamo vescovi rahneriani, che sono gli antichi seminaristi di un tempo formati da insegnanti rahneriani. Una situazione incancrenita e pericolosissima. Rahner è diventato un “classico” quasi fosse un Padre della Chiesa o un nuovo S.Tommaso d’Aquino.

E’ dunque avvenuto un salto di qualità: se ai tempi dei teologi rahneriani, costoro influenzavano solo gli ambienti della scuola, adesso che abbiamo vescovi, prelati e superiori rahneriani, i rahneriani hanno acquistato un vero e proprio potere, se è vero come è vero che il potere di governo non spetta ai teologi ma ai vescovi.

Succede così in queste condizioni che l’essenziale apporto del Papato, ben lontano dal sostenere Rahner, giunge faticosamente, scarsamente, precariamente e rischiosamente nelle varie aree della Chiesa, come l’aria in una trachea asmatica o come il cuore in un sistema circolatorio affetto dal colesterolo, e quindi giunge solo in alcuni ambienti ristretti della Chiesa, dove il Papa è rispettato ed obbedito ed ha un vero influsso anche disciplinare.

Ma la maggioranza degli ambienti ecclesiali, la formazione del clero, il clima delle parrocchie, la liturgia, i mass-media, gli istituti religiosi, i movimenti laicali, sono sotto controllo dell’episcopato rahneriano, ribelle o quanto meno indifferente al Papa e quindi si è fatto guida di una Chiesa che si è costituita per conto proprio, indipendentemente dal Papa (se non proprio contro il Papa), sulla linea della teologia e dell’ecclesiologia di Rahner e dei rahneriani. Tutto ciò è frutto di malintesa interpretazione ed attuazione dell’autonomia della Chiesa locale, nonché delle conferenze episcopali nazionali e dei sinodi mondiali.

Dove questo episcopato comanda, è molto difficile e rischioso obbedire al Papa, perché questo episcopato richiede assoluta obbedienza ed avendo in mano il potere, può vessare, diffamare e perseguitare quei cattolici[3], giovani, anziani, laici, docenti, religiosi, preti, seminaristi[4], chiunque, i quali volendo essere integralmente fedeli a Roma, in un modo o nell’altro si pongono in rotta di collisione con i vescovi e i superiori modernisti.

Il potere di questi prelati, essendo immediatamente e spazialmente vicino, conta più di quello del Papa, è più temibile di questo. Disobbedire al Papa in molti ambienti non porta a nessuna conseguenza, anzi si ottiene successo e si passa per moderni ed avanzati, ma disobbedire ai prelati modernisti si paga caro e può compromettere o bloccare la stessa carriera o attività ecclesiastica o sacerdotale, per quanto si possa essere teologi o docenti stimati e di lunga esperienza.

In tal modo il Papato con i pochi collaboratori fedeli che gli restano tra i vescovi e tutti i buoni cattolici, è una specie di stato maggiore di un esercito dove però l’esercito si è costituito capi per conto suo, i quali non seguono affatto le direttive dello stato maggiore, ma vanno per conto proprio con una loro politica ecclesiastica, una loro teologia ed una loro pastorale che non riflette la vera concezione cattolica, ma quella concezione ereticale di cui sopra.

E i Papato ha le mani legate, non può far quasi nulla dal punto di vista del governo, del controllo della dottrina e delle nomine ecclesiastiche. Queste ultime sono per lo più imposte od ottenute con raggiri dai modernisti, sicchè il Papa deve, come si suol dire, “far buon viso a cattivo gioco”, si trova ad avere a che fare con “collaboratori” finti o di facciata che non sono affatto copertamente o scopertamente veri collaboratori, ma che gli remano contro se non in modo plateale e sfacciato, certo comunque in modo reale e come un tarlo che corrode ogni giorno il sistema del Papato.

Il Papa è così sottoposto ad uno stillicidio quotidiano, ad una vita logorante difficilmente sopportabile[5], se non fosse che abbiamo avuto in questi decenni Papi santi che hanno saputo offrire la loro vita per la Chiesa in unione con la croce di Cristo. Con tutto ciò è chiaro che il Papa ha i suoi buoni collaboratori, presenti grazie a Dio in tutti i settori della Chiesa in tutto il mondo, ma in scarsissimo numero, e tutto quello che possono fare, oltre a soffrire insieme col Vicario di Cristo, è la proclamazione della sana dottrina, peraltro sistematicamente ed immediatamente criticata, fraintesa, derisa e contestata dai potenti mezzi propagandistici dei modernisti. E’ possibile dunque sapere, in linea di principio, che cosa pensa il Magistero, ma è assai difficile metterlo in pratica a causa degli ostacoli, delle minacce, delle seduzioni e delle persecuzioni provenienti dal potere modernista.

Questa situazione di debolezza e di impotenza sorge col papato di Paolo VI e si protrae sino ai nostri giorni. Essa certamente è all’origine delle dimissioni di Benedetto XVI[6]. Il Papato con Paolo VI non è più Cristo che guida le folle[7], che compie prodigi, che corregge i discepoli, che caccia i demòni, che minaccia farisei, sommi sacerdoti e dottori della legge, ma è Cristo sofferente, “crocifisso e abbandonato”, inascoltato, disobbedito, contestato, beffato, emarginato, angosciato.

La forza del Papato postconciliare è la forza di Cristo crocifisso, è il potere della croce. Il Papa deve stare continuamente in croce, fino all’ultimo. Alcuni hanno accusato Benedetto XVI di aver abbandonato la croce. Ma chi ci dice che non ne abbia adesso una più pesante, umiliato com’è per essere ingiustamente messo a confronto col nuovo Pontefice, quasi che questi vada bene e non il precedente? Sciocchezze incredibili.

I modernisti le studiano tutte per conquistarsi il nuovo Papa, ma non riusciranno. Avrà certo come tutti i suoi difetti umani, ma non s’illudano che egli perda il carisma dell’infallibilità, se messo alla prova e all’occasione propizia. Essi forse si sentono vicini all’aver messo un rahneriano sul trono di Pietro. Ma saranno scornati. L’eresia può giungere molto in alto, può arrivare tra i Cardinali - e lo abbiamo visto -, ma non può raggiungere il Papa.

Nessun Papa si è piegato all’eresia, per quanto sia stato circonvenuto, adulato, fatto soffrire e minacciato[8]. Nei primi secoli abbiamo Papi martiri e chi ci dice che la serie sia finita? Il Papa si piega a tutto ma non all’eresia. Forse Benedetto ha avuto forti pressioni perché cedesse ai rahneriani. Probabilmente l’enciclica sulla fede che aveva intenzione di preparare avrebbe dato fastidio a molti.

Ottimo è il ritratto di questo Papato che si riflette nelle sofferenze della Chiesa nel libro Gethsemani[9] del grande card. Siri. Egli colpisce nel bersaglio attaccando Rahner, meno felice è nella critica a De Lubac, del tutto fuori centro è col Maritain, uomo di santa vita ed esimio tomista aperto con discrezione ai valori del pensiero moderno, in perfetta linea con la figura di teologo promossa dal Concilio Vaticano II, lodato e raccomandato da Paolo II e dal Beato Giovanni Paolo II.

Non si capisce perchè l’illustre Cardinale se la prenda con lui, quando avrebbe potuto avere l’imbarazzo della scelta nello scegliere i tormentatori della Chiesa[10]: dagli Schillebeeckx, Hulsbosch e Schoonenberg ai teologi della liberazione, Gutierrez, Girardi, Sobrino, Boff ed Assman, dai moralisti esistenzialisti come Molinaro, Rossi, Valsecchi e Mongillo, agli idealisti come Bontadini e Severino, dagli heideggeriani come Marranzini e Sartori ai neohegeliani come Küng, Kasper e Forte. In tal modo la sua polemica perde di mordente e presta il fianco alla critica modernista che lo accusò di conservatorismo, misconoscendo la tempra eccezionale di speculativo del dotto Cardinale.

La debolezza del Papato che si è manifestata ad iniziare dal periodo postconciliare dipende, a mio avviso, da un difetto nelle disposizioni pastorali del Concilio concernenti quella che dev’essere la collaborazione tra Papa e vescovi nella tutela della rettitudine della fede e nella correzione degli eretici. In modo sorprendente - e questo è stato notato dagli studiosi seri - il Concilio, contrariamente a tutta la tradizione dei Concili ecumenici, non fa parola di eresie o dottrine contrarie alla fede. Parla sì genericamente di gravi errori, come l’ateismo, il materialismo, l’antropocentrismo, il secolarismo, lo scientismo, il liberalismo, il naturalismo, ma si tratta di condanne generiche e scontate, più riferite ad errori del passato che a precisi fenomeni eresiologici del presente.

Senza ovviamente negare la preminente responsabilità di Roma nella repressione dell’eresia, il Concilio promuove un’attività autonoma dei singoli vescovi o delle conferenze episcopali nella difesa della fede. In particolare, come sappiamo, il Concilio promuove e sviluppa la dottrina della collegialità episcopale, in se stessa di grande importanza, la quale tuttavia va intesa bene.

Alcuni la hanno intesa non come andava intesa, ossia come promozione della comunione fraterna dei vescovi tra di loro e col Papa e sotto il Papa, ma come accentuazione dell’autonomia del corpo episcopale rispetto al Papa, non certo finendo nel conciliarismo, il che sarebbe stata un’eresia, ma dando adito a questa interpretazione, certo sbagliata ma possibile. Ne hanno approfittato i modernisti per sottolineare esageratamente questa autonomia provocando gravi danni all’unità della fede nella Chiesa e solleticando l’ambizione dei vescovi.

Ancora di recente lo storico modernista Melloni, della cosiddetta “scuola di Bologna” si diceva insoddisfatto del grado di “collegialità” raggiunto ed auspicava che sia più accentuato: dunque un aggravamento del male anziché una sua mitigazione o correzione. Melloni popone una linea che è esattamente l’opposto rispetto a quella nella quale si deve procedere.

Negli anni ’80 a Roma ebbi un colloquio col card. Pietro Parente, illustre cristologo ed ex-Segretario del Sant’Uffizio, il quale mi disse con preoccupazione di essersi quasi pentito di essersi fatto promotore in Concilio della dottrina della collegialità, vista l’interpretazione conciliarista alla quale stava andando soggetta.

Con queste disposizioni poco prudenti per non dire sbagliate del Concilio è successo che il peso gravissimo della condanna dell’eresia e della correzione degli eretici ha finito per cadere quasi esclusivamente su Roma, mentre generalmente i vescovi hanno trascurato questo loro grave dovere per non dire che hanno favorito copertamente e qualche volta scopertamente gli eretici, con la scusa del dialogo, della misericordia, della libertà e cose del genere, che spesso sono diventate etichette che nascondono comportamenti errati.

Il nome scelto dal nuovo Pontefice - Francesco - è certo bello ed ha commosso tutto il mondo per il suo richiamo ai grandi temi della spiritualità francescana, con particolare riferimento alla giustizia sociale, ai poveri, ai semplici, agli umili, agli oppressi, ai perseguitati e ai sofferenti.

Tuttavia mi resta qualche perplessità o qualche timore, che penso saranno fugati dal futuro comportamento del Papa. Si tratta di questo: la spiritualità francescana evidentemente è innanzitutto propria del frate francescano e pertanto insiste sulle virtù tipiche del religioso: la povertà, la mitezza, l’umiltà, la docilità, la pazienza, la penitenza, la dolcezza, la misericordia.

Però, in questa spiritualità non appare evidente un altro essenziale aspetto della condotta cristiana, soprattutto quella che spetta ai superiori: la vigilanza contro il nemico, la forza nello scoprirlo, nel combatterlo e nel vincerlo, il far sentire ai ribelli la forza della legge, l’energia nel disciplinare e saper tenere unito il gregge di Cristo e difenderlo dai lupi, l’autorevolezza che all’occorrenza sa incutere timore nei ribelli e negli arroganti, la forza per difendere i deboli contro gli oppressori, il tutto certo nella massima carità, ma appunto la carità stessa chiede, come insegna il Vangelo e testimoniano i Santi, il saper intervenire con forza quando occorre.

Tutte queste doti si addicono in modo particolare al Papa e sono state proprie di tutti i grandi e santi Pontefici della storia. Certo il Papa dovrebbe poter disporre di questo potere, ma se non ce l’ha, che gli resta? Quello di soffrire sulla croce.

Perché tanti Papi col nome di Leone, Gregorio, Pio, Innocenzo, Giovanni, Paolo? Ma evidentemente perché ricordavano i S.Leone Magno, i S.Gregorio Magno, i S.Pio V o Pio X e via discorrendo, per non parlare dei Papi martiri. Oggi i modernisti sono riusciti a creare nell’immaginario popolare una certa antipatia per questi nomi, ma del tutto a torto. Un tempo il popolo cristiano li venerava ed accoglieva con gioia e speranza questi nomi che evocavano le passate glorie e non sono mancati i risultati positivi. Certo, abbiamo avuto Papi francescani, ma hanno fatto i Papi e hanno smesso di fare i frati. Questo sia detto con tutto rispetto dei frati - io sono un frate domenicano - ma non bisogna confondere i ruoli nella Chiesa. I frati domenicani che sono diventati Papi hanno fatto i Papi.

Questo nuovo Papa poi è Gesuita, ed anche questa sua qualità certo ci fa sperare insieme col carissimo nome di Francesco, anzi vorremmo sperare in una sintesi tra l’energia e la dottrina del Gesuita da una parte e la mitezza ed umiltà francescane dall’altra. In ogni caso il grande problema pastorale di oggi è una ritrovata collaborazione tra Papa ed episcopato. In ciò indubbiamente è utile l’applicazione delle direttive conciliari, tuttavia adeguatamente corrette nei loro difetti e non peggiorate come vorrebbero i modernisti, pensando così di far avanzare la Chiesa e invece la fanno retrocedere.

In particolare bisogna che i vescovi, senza affatto abbandonare la bella figura del pastore evangelico delineata dal Concilio, riprendano in mano il loro ufficio di maestri e custodi della fede evitando di lasciare solo il Papa in questo gravissimo compito che spetta a tutto il Magistero della Chiesa. Ovviamente il corpo episcopale in ciò è infallibile, ma lo è solo a condizione di compiere il proprio dovere in comunione col Papa, che non è un vescovo come gli altri alla pari degli altri, ma è il Successore di Pietro al quale Cristo ha detto pasce oves meas e confirma fratres tuos.

Il Papa non è vescovo di Roma alla pari del vescovo di Milano o di New York, ma è vescovo di quella diocesi che, come dice S.Ireneo, ha il compito e il carisma infallibile e indefettibile di presiedere su tutte le altre Chiese nella carità. Come ebbe a profetizzare il Vate latino: tu regere imperio populos, Romane, memento: parcere subiectis et debellare superbos.






[1] Secondo il teologo domenicano modernista Albert Nolan, in linea con Gutierrez, non esiste un altro mondo oltre a questo, ma solo questo mondo, per cui la Chiesa deve renderci felici in questo mondo.

[2] La “Chiesa del Denzinger”, “piramidale ed aristocratica”, come dicono sarcasticamente i modernisti, mentre la loro è la Chiesa “dello Spirito Santo” o la Iglesia popular dei liberazionisti dell’America Latina. Il card. Martini ebbe a dire che per salvarsi non occorre la Chiesa, ma basta lo Spirito Santo - come se lo Spirito Santo non operasse nella Chiesa e per mezzo della Chiesa.

[3] Famoso fu a suo tempo il processo intentato dall’arcivescovo di Milano al coraggioso pubblicista cattolico Vittorio Messori, per non parlare di altri casi simili..

[4] Alcuni ottimi seminaristi comunicano con me segretamente per non essere scoperti dai loro superiori.

[5] Come giudicare l’ineffabile ipocrisia dei modernisti che parlano di Papato autoritario ed impositivo?

[6] Ridicolo il commento di un modernista alle dimissioni del Papa: vede in esse il gesto di un uomo “non attaccato al potere”.

[7] Le adunate oceaniche del Beato Giovanni paolo II furono fuochi d’artificio o il grido strozzato delle masse cattoliche frastornate e scandalizzate dai loro pastori.

[8] Per citare un esempio relativamente recente: pensiamo all’eroica resistenza di Pio VI, prigioniero di Napoleone. Gli esempi addotti da Küng nel suo famoso libro Infallibile? circa supposte cadute di Papi nell’eresia, sono fasulli. E’ vero però che ciò può accadere come dottori privati o se privi del pieno possesso delle loro facoltà mentali. Teniamo inoltre presente che lo stesso Küng non crede all’immutabilità e quindi alla verità assoluta dei dogmi.

[9] Edizioni della Fraternità della SS.Vergine , Roma 1980.

[10] Bastava che Siri attingesse all’importante rassegna del Fabro L’avventura della teologia progressista, Rusconi Editore, Milano 1974 o al libro del card. Parente La crisi della verità e il Concilio Vaticano II, Istituto Padano di Arti Grafiche, Rovigo 1983.



Riscossa cristiana  30 Marzo 2013

sabato 30 marzo 2013

Video messaggio di Papa Francesco per l'ostensione televisiva della Sindone







OSTENSIONE STRAORDINARIA DELLA SINDONE DI TORINO


Nel pomeriggio di oggi, Sabato Santo, viene effettuata nella Cattedrale di Torino un’ostensione straordinaria della Sindone, trasmessa da RaiUno in mondovisione dalle ore 17.15 alle ore 18.40. L’iniziativa si colloca nell’ambito dell’Anno della fede indetto dal Santo Padre Benedetto XVI.
Per l’occasione, Papa Francesco ha registrato un video-messaggio, il cui testo pubblichiamo di seguito:

Cari fratelli e sorelle,

mi pongo anch'io con voi davanti alla sacra Sindone, e ringrazio il Signore che ci offre, con gli strumenti di oggi, questa possibilità.

Anche se avviene in questa forma, il nostro non è un semplice osservare, ma è un venerare, è uno sguardo di preghiera. Direi di più: è un lasciarsi guardare. Questo Volto ha gli occhi chiusi, è il volto di un defunto, eppure misteriosamente ci guarda, e nel silenzio ci parla. Come è possibile? Come mai il popolo fedele, come voi, vuole fermarsi davanti a questa Icona di un Uomo flagellato e crocifisso? Perché l'Uomo della Sindone ci invita a contemplare Gesù di Nazaret. Questa immagine - impressa nel telo - parla al nostro cuore e ci spinge a salire il Monte del Calvario, a guardare al legno della Croce, a immergerci nel silenzio eloquente dell'amore.

Lasciamoci dunque raggiungere da questo sguardo, che non cerca i nostri occhi ma il nostro cuore. Ascoltiamo ciò che vuole dirci, nel silenzio, oltrepassando la stessa morte. Attraverso la sacra Sindone ci giunge la Parola unica ed ultima di Dio: l'Amore fatto uomo, incarnato nella nostra storia; l'Amore misericordioso di Dio che ha preso su di sé tutto il male del mondo per liberarci dal suo dominio. Questo Volto sfigurato assomiglia a tanti volti di uomini e donne feriti da una vita non rispettosa della loro dignità, da guerre e violenze che colpiscono i più deboli...

Eppure il Volto della Sindone comunica una grande pace; questo Corpo torturato esprime una sovrana maestà. È come se lasciasse trasparire un'energia contenuta ma potente, è come se ci dicesse: abbi fiducia, non perdere la speranza; la forza dell'amore di Dio, la forza del Risorto vince tutto.
Per questo, contemplando l'Uomo della Sindone, faccio mia, in questo momento, la preghiera che san Francesco d'Assisi pronunciò davanti al Crocifisso:

Altissimo e glorioso Dio,
illumina le tenebre del cuore mio.
E dammi fede retta, speranza
certa, carità perfetta,
senno e conoscimento, Signore,
che faccia il tuo santo
e verace comandamento. Amen.



Bollettino Ufficiale Santa Sede

giovedì 28 marzo 2013

La Settimana Santa è seguire una Persona

 

di Nicola Bux

domenica palme


La liturgia della Settimana Santa, e nello stesso tempo la vita cristiana, vuol dire seguire Cristo nel suo culmine, l’offerta di sé al padre Onnipotente per salvare l’umanità dal peccato. Seguire i riti della Settimana Santa vuol dire seguire le orme di Cristo. Non si possono seguire i riti e nello stesso tempo non vivere quello che Cristo stesso è, cioè seguire la sua persona.

La Settimana santa, che è chiamata così perché è il cuore di tutto l’anno, vuol dire che Gesù non è un’idea ma è una persona da seguire. E il fatto che noi scorriamo attraverso la liturgia i momenti drammatici, conclusivi della vicenda terrena di Gesù, vuol dire che per ottenere da Cristo la vita bisogna seguirne le orme ed essere così guariti, come dice san Pietro: “Egli ci ha dato l’esempio perché ne seguiamo le orme”. Non è soltanto un messaggio o uno sguardo esteriore ma significa guardare Cristo e unirsi a lui nella medesima offerta totale nel sacrificio di sé.


Questo comincia già con la Domenica di Passione, chiamata comunemente delle Palme, ma che è domenica di Passione perché è il primo termine del binomio, il secondo è la domenica pasquale. La domenica di Passione sta alla domenica di Pasqua come la morte di Cristo sta alla sua Glorificazione. Sin dall’antichità il racconto della Passione ha impressionato profondamente la comunità cristiana e viene considerato un unicum che non si può frazionare. Viene proposto già alla domenica perché la domenica della Passione è la domenica che introduce Cristo non solo in Gerusalemme, ma anche nel Sacrificio. Nella liturgia bizantina l’ingresso in Gerusalemme viene evocato al momento dell’offertorio, quando si portano i doni del pane e del vino per l’eucarestia; si fa una processione che nel simbolismo orientale sta ad indicare l’ingresso di Cristo in Gerusalemme, perché Cristo è entrato a Gerusalemme per dare compimento al suo sacrificio.


E’ anche il senso del trionfo delle palme, perché la palma vuol dire vittoria: la vittoria è quella del martirio, i martiri vengono rappresentati in genere con la palma. Cristo è il martire per eccellenza, entra nel santuario per dare testimonianza dell’offerta totale di sé, è l’immolazione sacrificale per i peccati del mondo.


Giustamente quindi la Chiesa ha trattenuto nella domenica – e non solo il venerdì - che precede la Resurrezione la meditazione sulla Passione di Cristo, che così è davanti allo sguardo di tutta la Chiesa. La Passione del Signore, dice la preghiera di colletta della scorsa domenica, deve portare a vivere e agire secondo la carità che spinse il figlio di Dio a dare la vita per noi. Quindi guardare a Cristo significa proprio questo: vivere e agire in quella carità che lo spinse a dare la vita per noi. Per fare questo c’è bisogno del suo aiuto, della sua grazia. Anche la colletta delle Palme ha un significato simile: si prega il Signore onnipotente che avendoci dato come modello Cristo nostro salvatore che si è fatto uomo e umiliato fino alla morte di croce, noi possiamo sempre aver presente l’insegnamento della sua Passione per partecipare alla gloria della Resurrezione. Qui si dimostra la natura esemplare della Passione di Cristo, ma non solo. Non è solo un esempio da seguire ma anche una grazia da ricevere, perché attraverso la sua Passione, la sua efficacia, noi siamo fatti partecipi della gloria, della Resurrezione.


Ancora una volta, come dice il Papa nel libro “Gesù di Nazaret”, si rivela che l’onnipotenza di Dio, il suo essere vicino al mondo, il suo salvare il mondo, non passa attraverso i criteri mondani o la potenza o la forza del mondo, ma attraverso quella debolezza, quella discrezione, quella vicinanza che è propria di un essere che è libero e ci ha creati liberi, che vuole vincere convincendoci con il suo amore.


Questo è il senso della apertura della Domenica delle Palme e della Settimana Santa, che possiamo descrivere come una grande sinfonia, usando un linguaggio musicale. Si passa dalla gioia dell’ingresso in Gerusalemme alla tristezza della Passione per poi tornare, dopo la gioia della mistica cena, all’angoscia del Getsemani, poi ancora al dramma che sfiora quasi la tragedia del Venerdì Santo, la morte di Cristo che sarebbe una tragedia se Cristo non fosse resuscitato; e quindi poi alla speranza, l’attesa del sabato e alla gioia prorompente, ma tutta profonda e interiore, della Domenica di Resurrezione.


Il triduo pasquale richiama i tre giorni promessi da Cristo, in cui avrebbe sofferto, sarebbe stato crocifisso, sepolto, però al terzo giorno sarebbe resuscitato. Il triduo, il terzo giorno visto come il giorno creato dal Signore, terzo giorno che coincide con l’ottavo della Creazione: il primo giorno dopo il sabato, ovvero dopo i sette giorni della Creazione, l’ottavo è la nuova Creazione.


All’interno di questo grande affresco si colloca il triduo pasquale che ha un anticipo il Giovedì santo, perché il triduo pasquale strettamente inteso è venerdì, sabato e domenica. Però nella liturgia latina c’è un inizio il giovedì sera con la commemorazione della Cena del Signore, per cui i tre giorni vanno dal vespro del giovedì fino al vespro della domenica. E’ l’unico momento dell’anno in cui si celebra una messa per commemorare la Cena del Signore, perché – contrariamnete a quanto molti credono - la messa non commemora l’ultima cena. La messa è la ripresentazione del sacrificio di Cristo sulla croce e quindi la cena di Cristo, l’ultima cena, in realtà non è più celebrata perché i gesti che Gesù ha compiuto in quella cena sono stati trasfigurati nell’offerta del suo corpo e del suo sangue sulla Croce.

Una nota va dedicata alla lavanda dei piedi, che si ricorda nella messa del Giovedì santo. Solo Giovanni parla della lavanda dei piedi, con cui vuole sottolineare che quanto Cristo ha fatto e ha detto, cioè l’eucarestia ovvero l’offerta di sé, ha un simbolo nel gesto della purificazione compiuta. E’ un servizio che egli fa perché vuole indicare che l’eucarestia è un culto che implica un servizio, l’eucarestia deve essere obbedita, non può essere creata, inventata, manipolata. Bisogna obbedire. Siamo in un’epoca di grande anarchia liturgica, invece proprio la lavanda dei piedi è un atto sacro che è tranquillamente speculare a quello della consacrazione del pane e del vino. Gesù ha voluto dire: guardate che dovete lasciarvi lavare i piedi da me, dovete lasciarvi fare da me, non dovete mettere voi davanti a me. Lo ha detto chiaramente quando Pietro gli disse che giammai si sarebbe fatto lavare i piedi, e sappiamo come Gesù gli ha risposto. Aldilà di riduzionismi di natura caritatevole o sociologica, la lavanda dei piedi ha un profondo significato sacramentale, richiama che il sacramento dell’eucarestia è il sacramento dell’obbedienza dell’uomo a Dio perché Cristo ha obbedito al padre facendosi – come lui dice – battezzare con un battesimo di sangue. Battesimo che a nessuno è dato di poter ricevere se non lo vuole, se non lo decide lui, il Signore. E quindi ogni sacramento non è un bene disponibile, nemmeno da parte della Chiesa. La Chiesa non dispone dei sacramenti, li amministra. Tantomeno un prete o un laico può immaginare di manipolare i sacramenti. Egli deve servirli – servire la messa, si diceva una volta – deve servirli come Cristo ha servito i discepoli.


Poi il Venerdì santo è dedicato tutta alla Passione di Cristo, non c’è nemmeno la messa. Già la messa del Giovedì santo si celebra solo in Occidente, ma si è introdotta come un momento commemorativo, mentre la vera grande messa è quella della veglia pasquale, l’unica messa che ricorda tutto il mistero pasquale: dall’eucarestia alla morte sulla croce, alla sepoltura, alla Resurrezione. Il Venerdì santo non c’è messa ma è tutto dedicato alla commemorazione liturgica attraverso le preghiere, il centro è l’adorazione della Croce dopo aver meditato sulla Passione secondo San Giovanni.


Il Sabato santo è un giorno senza alcuna liturgia perché dedicato alla meditazione e all’attesa. Meditazione su Cristo sepolto e attesa della sua Resurrezione. E’ il giorno del silenzio dove Dio parola tace. Ma parla attraverso il figlio che è sceso fino nel profondo della terra per mostrare la sua condivisione con la condizione umana. Morto e sepolto. Ed è proprio colui che parola eterna si è incarnato, venuto nella nostra carne, sceso in terra, che è sceso anche sotto terra, “agli inferi” come dice il Credo apostolico. Cioè è sceso laddove secondo la tradizione ebraica c’erano le ombre dei morti, coloro che l’avevano preceduto ma non erano entrati in Paradiso perché il Paradiso era serrato dopo la cacciata di Adamo. Cristo, morendo, ha riaperto il Paradiso ed è sceso agli inferi: ha preso per mano i progenitori Adamo ed Eva, e poi tutti i patriarchi e tutti i giusti che, pur essendo stati giusti, non avevano potuto entrare nel Paradiso perché chiuso, Paradiso che invece la morte di Cristo ha riaperto.


Cristo scende fino agli inferi, un mistero poco conosciuto anche perché non ha una sua rappresentazione liturgica; ce l’ha iconografica ma non liturgica. Il Sabato santo è la discesa dell’anima di Cristo fino agli inferi, mentre il corpo rimane sepolto in attesa del ricongiungimento anima, corpo e spirito per risorgere. Questo viene celebrato nella notte di Pasqua quando tanta gente (celebrare vuol dire numerosi) accorre per ricordare, per vivere l’avvenimento che certamente è avvenuto nella storia, come ricorda Benedetto XVI, ma che ha superato la storia. La resurrezione di Cristo è un avvenimento storico ma nello stesso tempo ha superato la storia, ha inaugurato una nuova storia, la storia di Dio aperta al compimento futuro. E quindi viene celebrata la veglia attraverso alcuni elementi fondamentali anche per la stessa natura: il fuoco, la luce, l’acqua, il vino, il pane, l’olio: tutti i sacramenti entrano in gioco la notte di Pasqua per indicare che Cristo ha fatto nuove tutte le cose. Attraverso il rinnovamento delle cose, anche quelle materiali, fa passare la potenza della sua resurrezione.


Dall’efficacia della Croce alla potenza della Resurrezione nella notte della domenica. Efficacia e potenza, sono due termini piuttosto dimenticati oggi perché nella pastorale e nella catechesi ormai Cristo è ridotto a un’idea, a un progetto, addirittura a un sogno, come si può leggere in tanti titoli, anche ecclesiastici. Ma Cristo non è un progetto e neanche un sogno, Cristo è una persona, un fatto presente con il quale noi siamo chiamati a vivere. Non solo a condividere un’idea o seguire un esempio, ma vivere per ricevere una vita, che noi chiamiamo con una parola tradizionale: Grazia, cioè una vita donata gratis. A motivo dell’offerta sacrificale Cristo ha reso efficace ogni offerta, ogni pur minima azione umana, e quindi da questa efficacia si passa alla potenza della Resurrezione perché se Cristo non fosse risorto la nostra fede non esisterebbe, come ricorda l’apostolo Paolo.


Quindi il prorompere del fuoco all’inizio della veglia indica proprio questa potenza divina che dalla Creazione passa attraverso la liberazione di Israele dall’Egitto, giunge fino alla Resurrezione e alla Pentecoste, il fuoco dello Spirito Santo. E poi naturalmente tutto è meditato con quella trilogia di lettura-salmo-preghiera che caratterizza la liturgia della Parola, la lunga liturgia della Parola della notte pasquale. Si passa quindi all’acqua – terza parte della veglia - che distrugge il peccato e regala una vita che salva, che rigenera. E dalla rigenerazione del Battesimo si passa al quarto momento della veglia che è l’Eucarestia, il Signore risorto che con le sue cicatrici si mostra spezzando il pane e consacrando il vino. E quindi tutti sono riconciliati e tutti sono veramente gioiosi, quella gioia che l’exultet, questo celebre inno che apre la veglia pasquale, fa risalire al cielo, agli angeli e a tutte le schiere degli angeli per la Resurrezione che viene partecipata anche ai mortali. In un certo senso in questa unione di angeli e uomini si riprende anche il tema della notte di Natale, il Gloria in excelsis deo.


Ecco così che si arriva alla domenica di Pasqua che vede le donne di primo mattino andare al sepolcro, trovarlo vuoto, non poter compiere, pur premurose, quell’atto di compassione che non avevano potuto fare per l’imminenza della festa il venerdì al tramonto. Ma quella premura questa volta è stata preceduta da un’altra premura sorprendente, quella del Padre onnipotente che ha visto il sacrificio del Figlio e gli ha restituita una vita più bella e più grande, come dice Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica Redemptor Hominis: la Resurrezione non è il ritorno alla vita precedente, ma è una vita più grande, una vita che nasce dall’amore. Così la ragione eterna, il logos eterno coincide con l’amore indistruttibile, perché Dio è il logos, è il vero, è parola, è ragione, perché Dio è essenzialmente amore.


E così si chiude con il vespro di Pasqua il triduo, che poi ovviamente riecheggia per ben otto giorni nell’ottava di Pasqua e poi per 50 giorni fino alla Pentecoste, come se fosse – dice Sant’Agostino - una sola grande domenica.

mercoledì 27 marzo 2013

In un'intervista del 2007 il Cardinale Bergoglio esprime la sua idea della Chiesa



Rivista 30Giorni: intervista con il cardinale Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires



 di Stefania Falasca
«Devo tornare», ripete. Non che l’aria di Roma non gli garbi. Ma quella di Buenos Aires gli manca. La sua diocesi. «Esposa» la chiama. A Roma, il cardinale Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, passa sempre di corsa. Ma stavolta una sciatalgia lo ha costretto ad allungare la sua permanenza nella Città eterna con qualche giorno di riposo. Per di più, umorismo delle circostanze, l’appuntamento per cui aveva attraversato l’oceano, l’incontro con il Papa e tutti i cardinali riuniti in concistoro, gli è toccato saltarlo.
È una compagnia, la sua, mai lontana. Ci racconta come è andata la Conferenza di Aparecida, dove proprio lui ha presieduto il comitato di redazione del documento finale. Confida che al concistoro il suo intervento sarebbe stato su questo. E con quel suo modo di dire lieve e insieme acuto, incisivo, che spiazza e sorprende, così ne parla.

Benedetto XVI con il cardinale 
Jorge Mario Bergoglio durante i lavori della quinta Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano e 
dei Caraibi, presso il santuario di Nossa Senhora da Conceição Aparecida in Brasile,  il 13 maggio 2007
Benedetto XVI con il cardinale Jorge Mario Bergoglio durante i lavori della quinta Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano e dei Caraibi, presso il santuario di Nossa Senhora da Conceição Aparecida in Brasile, il 13 maggio 2007




















Eminenza, al concistoro avrebbe parlato di Aparecida. Che cosa per lei ha caratterizzato questa quinta Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano? 

JORGE MARIO BERGOGLIO: La Conferenza di Aparecida è stata un momento di grazia per la Chiesa latinoamericana. 

Non sono però mancate polemiche riguardo al documento conclusivo… 

BERGOGLIO: Il documento conclusivo, che è un atto del magistero della Chiesa latinoamericana, non ha subito nessuna manipolazione. Né da parte nostra né da parte della Santa Sede. Ci sono stati alcuni piccoli ritocchi di stile, di forma, e alcune cose che sono state tolte da una parte sono state rimesse dall’altra; la sostanza, quindi, è rimasta identica, non è assolutamente cambiata. Questo perché il clima che ha portato alla redazione del documento è stato un clima di autentica e fraterna collaborazione, di rispetto reciproco, che ne ha caratterizzato il lavoro, un lavoro che si è mosso dal basso verso l’alto, non viceversa. Per capire questo clima bisogna guardare a quelli che per me sono i tre punti-chiave, i tre “pilastri” di Aparecida. Il primo dei quali è proprio questo: dal basso verso l’alto. È forse la prima volta che una nostra Conferenza generale non parte da un testo base preconfezionato ma da un dialogo aperto, che era già iniziato prima tra il Celam e le Conferenze episcopali, e che è continuato poi. 

Ma le direttive della Conferenza non erano già state segnate dall’intervento d’apertura di Benedetto XVI? 

BERGOGLIO: Il Papa ha dato indicazioni generali sui problemi dell’America Latina, e ha poi lasciato aperto: fate voi, voi fate! È stato grandissimo, questo, da parte del Papa. La Conferenza è cominciata con le esposizioni dei ventitré presidenti delle diverse Conferenze episcopali e da lì si è aperta la discussione sui temi nei differenti gruppi. Anche le fasi della redazione del documento sono rimaste aperte al contributo di tutti. Al momento di raccogliere i “modi”, per la seconda e terza redazione, ne sono pervenuti 2.240! La nostra disposizione è stata quella di ricevere tutto ciò che veniva dal basso, dal popolo di Dio, e di fare non tanto una sintesi, quanto piuttosto un’armonia. 

Un lavoro impegnativo… 

BERGOGLIO: “Armonia”, ho detto, questo è il termine giusto. Nella Chiesa l’armonia la fa lo Spirito Santo. Uno dei primi padri della Chiesa scrisse che lo Spirito Santo «ipse harmonia est», lui stesso è l’armonia. Lui solo è autore al medesimo tempo della pluralità e dell’unità. Solo lo Spirito può suscitare la diversità, la pluralità, la molteplicità e allo stesso tempo fare l’unità. Perché quando siamo noi a voler fare la diversità facciamo gli scismi e quando siamo noi a voler fare l’unità facciamo l’uniformità, l’omologazione. Ad Aparecida abbiamo collaborato a questo lavoro dello Spirito Santo. E il documento, se si legge bene, si vede che ha un pensiero circolare, armonico. Si percepisce quell’armonia non passiva, ma creativa, che spinge alla creatività perché è dello Spirito. 

E il secondo punto-chiave qual è? 

BERGOGLIO: È la prima volta che una Conferenza dell’episcopato latinoamericano si riunisce in un santuario mariano. E il luogo già di per sé dice tutto il significato. Ogni mattina abbiamo recitato le lodi, abbiamo celebrato la messa insieme ai pellegrini, ai fedeli. Il sabato o la domenica ce n’erano duemila, cinquemila. Celebrare l’Eucaristia insieme al popolo è diverso che celebrarla tra noi vescovi separatamente. Questo ci ha dato vivo il senso dell’appartenenza alla nostra gente, della Chiesa che cammina come popolo di Dio, di noi vescovi come suoi servitori. I lavori della Conferenza poi si sono svolti in un ambiente situato sotto il santuario. E da lì si continuavano a sentire le preghiere, i canti dei fedeli… Nel documento finale c’è un punto che riguarda la pietà popolare. Sono pagine bellissime. E io credo, anzi, sono sicuro, che siano state ispirate proprio da questo. Dopo quelle contenute nell’Evangelii nuntiandi, sono le cose più belle scritte sulla pietà popolare in un documento della Chiesa. Anzi, oserei dire che quello di Aparecida è l’Evangelii nuntiandi dell’America Latina, è come l’Evangelii nuntiandi

L’Evangelii nuntiandi è un’esortazione apostolica sulla missionarietà. 

BERGOGLIO: Appunto. Anche per questo c’è una stretta somiglianza. E qui vengo al terzo punto. Il documento di Aparecida non si esaurisce in sé stesso, non chiude, non è l’ultimo passo, perché l’apertura finale è sulla missione. L’annuncio e la testimonianza dei discepoli. Per rimanere fedeli bisogna uscire. Rimanendo fedeli si esce. Questo dice in fondo Aparecida. Che è il cuore della missione. 
Fedeli brasiliani presso il santuario di Nossa Senhora da Conceição Aparecida
Fedeli brasiliani presso il santuario di Nossa Senhora da Conceição Aparecida



Può spiegare meglio questa immagine?
 

BERGOGLIO: Il restare, il rimanere fedeli implica un’uscita. Proprio se si rimane nel Signore si esce da sé stessi. Paradossalmente proprio perché si rimane, proprio se si è fedeli si cambia. Non si rimane fedeli, come i tradizionalisti o i fondamentalisti, alla lettera. La fedeltà è sempre un cambiamento, un fiorire, una crescita. Il Signore opera un cambiamento in colui che gli è fedele. È la dottrina cattolica. San Vincenzo di Lerins fa il paragone tra lo sviluppo biologico dell’uomo, tra l’uomo che cresce, e la Tradizione che, nel trasmettere da un’epoca all’altra il depositum fidei, cresce e si consolida con il passo del tempo: «Ut annis scilicet consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate». 

Questo è ciò che avrebbe detto al concistoro? 

BERGOGLIO: Sì. Avrei parlato di questi tre punti-chiave. 

Nient’altro? 

BERGOGLIO: Nient’altro… No, avrei forse accennato a due cose delle quali in questo momento si ha bisogno, si ha più bisogno: misericordia, misericordia e coraggio apostolico. 

Cosa significano per lei? 

BERGOGLIO: Per me il coraggio apostolico è seminare. Seminare la Parola. Renderla a quel lui e a quella lei per i quali è data. Dare loro la bellezza del Vangelo, lo stupore dell’incontro con Gesù… e lasciare che sia lo Spirito Santo a fare il resto. È il Signore, dice il Vangelo, che fa germogliare e fruttificare il seme. 

Insomma, chi fa la missione è lo Spirito Santo. 

BERGOGLIO: I teologi antichi dicevano: l’anima è una specie di navicella a vela, lo Spirito Santo è il vento che soffia nella vela, per farla andare avanti, gli impulsi e le spinte del vento sono i doni dello Spirito. Senza la Sua spinta, senza la Sua grazia, noi non andiamo avanti. Lo Spirito Santo ci fa entrare nel mistero di Dio e ci salva dal pericolo di una Chiesa gnostica e dal pericolo di una Chiesa autoreferenziale, portandoci alla missione. 

Ciò significa vanificare anche tutte le vostre soluzioni funzionaliste, i vostri consolidati piani e sistemi pastorali… 

BERGOGLIO: Non ho detto che i sistemi pastorali siano inutili. Anzi. Di per sé tutto ciò che può condurre per i cammini di Dio è buono. Ai miei sacerdoti ho detto: «Fate tutto quello che dovete, i vostri doveri ministeriali li sapete, prendetevi le vostre responsabilità e poi lasciate aperta la porta». I nostri sociologi religiosi ci dicono che l’influsso di una parrocchia è di seicento metri intorno a questa. A Buenos Aires ci sono circa duemila metri tra una parrocchia e l’altra. Ho detto allora ai sacerdoti: «Se potete, affittate un garage e, se trovate qualche laico disposto, che vada! Stia un po’ con quella gente, faccia un po’ di catechesi e dia pure la comunione se glielo chiedono». Un parroco mi ha detto: «Ma padre, se facciamo questo la gente poi non viene più in chiesa». «Ma perché?» gli ho chiesto: «Adesso vengono a messa?». «No», ha risposto. E allora! Uscire da sé stessi è uscire anche dal recinto dell’orto dei propri convincimenti considerati inamovibili se questi rischiano di diventare un ostacolo, se chiudono l’orizzonte che è di Dio. 

Questo vale anche per i laici… 

BERGOGLIO: La loro clericalizzazione è un problema. I preti clericalizzano i laici e i laici ci pregano di essere clericalizzati… È proprio una complicità peccatrice. E pensare che potrebbe bastare il solo battesimo. Penso a quelle comunità cristiane del Giappone che erano rimaste senza sacerdoti per più di duecento anni. Quando tornarono i missionari li ritrovarono tutti battezzati, tutti validamente sposati per la Chiesa e tutti i loro defunti avevano avuto un funerale cattolico. La fede era rimasta intatta per i doni di grazia che avevano allietato la vita di questi laici che avevano ricevuto solamente il battesimo e avevano vissuto anche la loro missione apostolica in virtù del solo battesimo. Non si deve aver paura di dipendere solo dalla Sua tenerezza… Conosce l’episodio biblico del profeta Giona? 

Non lo ricordo. Racconti. 

BERGOGLIO: Giona aveva tutto chiaro. Aveva idee chiare su Dio, idee molto chiare sul bene e sul male. Su quello che Dio fa e su quello che vuole, su quali erano i fedeli all’Alleanza e quali erano invece fuori dall’Alleanza. Aveva la ricetta per essere un buon profeta. Dio irrompe nella sua vita come un torrente. Lo invia a Ninive. Ninive è il simbolo di tutti i separati, i perduti, di tutte le periferie dell’umanità. Di tutti quelli che stanno fuori, lontano. Giona vide che il compito che gli si affidava era solo dire a tutti quegli uomini che le braccia di Dio erano ancora aperte, che la pazienza di Dio era lì e attendeva, per guarirli con il Suo perdono e nutrirli con la Sua tenerezza. Solo per questo Dio lo aveva inviato. Lo mandava a Ninive, ma lui invece scappa dalla parte opposta, verso Tarsis. 

Il cardinale Bergoglio tra i fedeli  presso il santuario di San Cayetano, Buenos Aires, Argentina
Il cardinale Bergoglio tra i fedeli presso il santuario di San Cayetano, Buenos Aires, Argentina
















Una fuga davanti a una missione difficile…
 

BERGOGLIO: No. Quello da cui fuggiva non era tanto Ninive, ma proprio l’amore senza misura di Dio per quegli uomini. Era questo che non rientrava nei suoi piani. Dio era venuto una volta… “e al resto adesso ci penso io”: così si era detto Giona. Voleva fare le cose alla sua maniera, voleva guidare tutto lui. La sua pertinacia lo chiudeva nelle sue strutturate valutazioni, nei suoi metodi prestabiliti, nelle sue opinioni corrette. Aveva recintato la sua anima col filo spinato di quelle certezze che invece di dare libertà con Dio e aprire orizzonti di maggior servizio agli altri avevano finito per assordare il cuore. Come indurisce il cuore la coscienza isolata! Giona non sapeva più come Dio conduceva il suo popolo con cuore di Padre. 

In tanti ci possiamo identificare con Giona. 

BERGOGLIO: Le nostre certezze possono diventare un muro, un carcere che imprigiona lo Spirito Santo. Colui che isola la sua coscienza dal cammino del popolo di Dio non conosce l’allegria dello Spirito Santo che sostiene la speranza. È il rischio che corre la coscienza isolata. Di coloro che dal chiuso mondo delle loro Tarsis si lamentano di tutto o, sentendo la propria identità minacciata, si gettano in battaglie per essere alla fine ancor più autoccupati e autoreferenziali. 

Che cosa si dovrebbe fare? 

BERGOGLIO: Guardare la nostra gente non per come dovrebbe essere ma per com’è e vedere cosa è necessario. Senza previsioni e ricette ma con apertura generosa. Per le ferite e le fragilità Dio parlò. Permettere al Signore di parlare… In un mondo che non riusciamo a interessare con le parole che noi diciamo, solo la Sua presenza che ci ama e che ci salva può interessare. Il fervore apostolico si rinnova perché testimoni di Colui che ci ha amato per primo. 

Per lei, quindi, qual è la cosa peggiore che può accadere nella Chiesa? 

BERGOGLIO: È quella che De Lubac chiama «mondanità spirituale». È il pericolo più grande per la Chiesa, per noi, che siamo nella Chiesa. «È peggiore», dice De Lubac, «più disastrosa di quella lebbra infame che aveva sfigurato la Sposa diletta al tempo dei papi libertini». La mondanità spirituale è mettere al centro sé stessi. È quello che Gesù vede in atto tra i farisei: «… Voi che vi date gloria. Che date gloria a voi stessi, gli uni agli altri». 



30Giorni  n. 11 - 2007 

Papa Francesco alla sua prima udienza




  • "La Settimana Santa è un tempo di grazia che il Signore ci dona per aprire le porte del nostro cuore, della nostra vita, delle nostre parrocchie - che pena, tante parrocchie chiuse! – nelle nostre parrocchie, dei movimenti, delle associazioni, ed “uscire” incontro agli altri, farci noi vicini per portare la luce e la gioia della nostra fede. 

    Uscire sempre! E questo con l’amore e la tenerezza di Dio, nel rispetto e nella pazienza, sapendo che noi mettiamo le nostre mani, i nostri piedi, il nostro cuore, ma poi è Dio che li guida e rende feconda ogni nostra azione. 

    Auguro a tutti di vivere bene questi giorni seguendo il Signore con coraggio, portando in noi stessi un raggio del suo amore a quanti incontriamo".






    27 marzo 2013

Le parole di Papa Francesco prima di essere eletto Pontefice



L'intervento del cardinale Bergoglio alle congregazioni generali, così come riportato da "Palabra Nuova", della diocesi di Cuba


Roma, (Zenit.org)


Durante l’omelia pronunciata nella prima messa celebrata a Cuba dopo diverse settimane passate a Roma per l’elezione del nuovo pontefice, il cardinale Jaime Ortega ha rivelato le parole che il cardinale Jorge Mario Bergoglio ha pronunciato nel corso della congregazione generale dei cardinali prima si entrare in conclave.



Sabato mattina 23 marzo, nel corso della celebrazione nella Cattedrale di L’Avana, alla presenza del Nunzio Apostolico a Cuba, monsignor Bruno Musarò; dei Vescovi Ausiliari Alfredo Petit Havana e Juan de Dios Hernández, e del clero che ha rinnovato le promesse sacerdotali, l’Arcivescovo dell’Avana ha raccontato che nel corso delle Congregazioni generali, il Cardinale Jorge Mario Bergoglio ha fatto un discorso “magistrale, perspicace, coinvolgente e vero”.

L’intervento del cardinale Bergoglio è articolato in quattro punti ed esprime la sua personale visione sulla Chiesa nel tempo presente.

Il primo di questi punti è centrato sull’evangelizzazione, e afferma che “la Chiesa deve lasciare tutto e andare nelle periferie”, non solo quelle geografiche, ma anche quelle umane ed esistenziali. Deve raggiungere gli ultimi, avvicinare le persone dove si manifesta il peccato, il dolore, l’ingiustizia e l’ignoranza.

Il secondo punto è una critica forte alla Chiesa “autoreferenziale”, che guarda se stessa con una sorta di “narcisismo teologico” che la allontana dal mondo e che “pretende di tenere Gesù Cristo per se, senza farlo uscire fuori”.

Al punto tre il cardinale Bergoglio ha spiegato le conseguenze di questa visione autoreferenziale e cioè una Chiesa che non evangelizza più e che svolge una vita mondana per sé.

Secondo l’arcivescovo di Buenos Aires bisogna tener conto di queste gravi conseguenze della Chiesa autoreferenziale per “far luce sui possibili cambiamenti e riforme di cui la Chiesa ha urgente bisogno”. Nel suo ultimo punto il cardinale Bergoglio ha confessato ai cardinali la speranza di un “uomo che, partendo dalla contemplazione di Gesù Cristo, possa aiutare la Chiesa a avvicinarsi alle periferie esistenziali dell’umanità”.

Nell’indicare le caratteristiche del nuovo Pontefice, Il cardinale Bergoglio non immaginava neanche lontanamente che sarebbe toccato proprio a lui, riparare la barca di Pietro.
Il cardinale Ortega è rimasto così colpito da quanto aveva sentito che ha chiesto a Bergoglio, se poteva avere il testo. L’arcivescovo di Buenos Aires gli ha detto che aveva fissato alcuni punti ma che non l’aveva scritto.
La mattina dopo Il cardinale Bergoglio “con estrema delicatezza” ha consegnato ad Ortega un foglio in cui aveva fissato i punti del suo intervento così come se lo ricordava. Il cardinale Ortega ha chiesto se poteva pubblicarlo una volta concluso il Conclave, e Bergoglio gli ha detto di sì. Una volta che l’arcivescovo di Buenos Aires è diventato Papa Francesco, il cardinale Ortega ha chiesto se poteva ancora pubblicare il testo del suo intervento alle Congregazioni Generali e il Pontefice gli ha confermato che poteva farlo.
Così la rivista dell’arcidiocesi dell’Avana Palabra Nueva, diretta da Orlando Marquez, ha pubblicato una trascrizione del manoscritto consegnato dal Cardinale Jorge Mario Bergoglio al Cardinale Jaime Ortega.
Il testo riporta l’intervento del futuro papa Francesco nella trascrizione da lui stesso compilata nel corso dell’intervento svolto nella congregazione generale prima del Conclave.
Orlando Marquez l’ha inviata a ZENIT per la pubblicazione e diffusione. Il testo è già stato pubblicato nell’edizione spagnola di ZENIT.

Ne riportiamo una traduzione in italiano:

La dolce e confortante gioia di evangelizzare

Si è fatto riferimento alla evangelizzazione. È la ragione per la Chiesa. “Conserviamo la dolce e confortante gioia di evangelizzare, anche quando occorre [...] sia annunziato e la Chiesa sia impiantata nel cuore del mondo» (Paolo VI). È lo stesso Gesù Cristo che, dal di dentro, ci spinge.

1) Evangelizzare suppone zelo apostolico. Evangelizzare suppone nella Chiesa la parresia (testimonianza, ndr) di sé stessa. La Chiesa è chiamata ad uscire da se stessa e andare nelle periferie, non solo geografiche, ma anche nelle periferie esistenziali: dove alberga il mistero del peccato, il dolore, l’ingiustizia, l’ignoranza, dove c’è il disprezzo dei religiosi, del pensiero, e dove vi sono tutte le miserie.

2) Quando la Chiesa non esce per evangelizzare, diventa auto-referenziale e si ammala (cfr. La donna curva ripiegata su se stessa di cui parla Luca nel Vangelo (13,10-17). I mali che, nel tempo, colpiscono le istituzioni ecclesiastiche sono l’auto-referenzialità e una specie di narcisismo teologico. Nell’Apocalisse Gesù dice che Lui è alla porta e bussa. Ovviamente il testo si riferisce al fatto che lui colpisce la porta dal di fuori per entrare... Ma penso ai momenti in cui Gesù bussa dall’interno per lasciarlo uscire. La Chiesa autoreferenziale pretende di tenere Cristo dentro di sé e non lo fa uscire.

3) Quando la Chiesa è auto-referenziale, crede involontariamente di avere una luce propria. Non è più la certezza di mirare il mysterium lunae, invece va verso un male tanto grave noto come mondanità spirituale (Secondo de Lubac, è il peggior male che possa capitare alla Chiesa). La Chiesa vive per dare gloria degli uni agli altri. In parole povere ci sono due immagini della Chiesa: la Chiesa evangelizzatrice che diffonde “Dei Verbum religiose audiens et fidenter proclamans” e la Chiesa mondana che vive in sè e per sé stessa. Questa analisi dovrebbe far luce sui possibili cambiamenti e sulle riforme che devono essere fatte per la salvezza delle anime.

4) Pensando al prossimo Papa, c’è bisogno di un uomo che, che dalla contemplazione e dall’adorazione di Gesù Cristo aiuti la Chiesa a uscire da se stessa verso la periferia esistenziale dell’umanità, in modo da essere madre feconda della dolce e confortante gioia di evangelizzare.




Orazione di San Bernardo sulla Piaga della Spalla di Gesù



Rivelazione a San Bernardo della Piaga incognita della Sacra Spalla di Nostro Signore Gesù Cristo aperta dal peso della Croce.


San Bernardo, abate di Chiaravalle, domandò nell'orazione a Nostro Signore quale fosse stato il maggior dolore sofferto nel corpo durante la sua passione. Gli fu risposto:

“Io ebbi una piaga sulla spalla, profonda tre dita, e tre ossa scoperte per portare la croce. Questa piaga mi ha dato maggior pena e dolore più di tutte le altre e dagli uomini non è conosciuta. Ma tu rivelala ai fedeli cristiani e sappi che qualunque grazia che mi chiederanno in virtù di questa piaga, verrà loro concessa; ed a tutti quelli che per amore di Essa mi onoreranno con tre Padre Nostro, Ave e Gloria al giorno, perdonerò i peccati veniali, non ricorderò più i mortali, non morranno di morte subitanea ed in punto di morte saranno visitati dalla Beata Vergine conseguendo ancora grazia e misericordia”.




Orazione di S. Bernardo sulla Piaga incognita della Sacra Spalla di Nostro Signore Gesù Cristo.


Dilettissimo Signore Gesù Cristo, mansuetissimo agnello di Dio, io povero peccatore adoro e venero la Santissima Vostra Piaga che riceveste sulla spalla nel portare la pesantissima Croce al calvario e nella quale restarono scoperte tre Vostre sacratissime ossa, tollerando in essa un immenso dolore: vi supplico in virtù e per i meriti di questa piaga di avere di me misericordia col perdonarmi tutti i peccati, sia mortali che veniali, di assistermi nell'ora della morte e di condurmi al Vostro Regno beato. 

3 Pater, 3 Ave, 3 Gloria.

Dilettissimo Signore Gesù Cristo, in virtù e per i meriti della dolorosissima Piaga che adornò la Vostra Sacra Spalla, memore della Vostre sofferenze e delle Vostra promesse, Vi chiedo e confido di averla come già ottenuta, la grazia...



Inoltre, su istanza di S. Bernardo, Papa Eugenio III concesse indulgenze a chiunque avesse propagato e portato sempre con sé questa orazione, a chi reciterà 5 Pater, Ave e Gloria frequentando i SS. Sacramenti e pregherà per il Sommo Pontefice.




http://orantidistrada.blogspot.it

Germania, Chiesa separata in casa






di Michele Poropat

In questi giorni circola con insistenza sul web un breve video tratto dalla telecronaca diretta dell’emittente polacca TV TRWAM della visita di Papa Benedetto XVI in Germania risalente al settembre 2011, e che mostrerebbe - così affermano coloro che fanno circolare questo video - una presunta umiliazione subita dal Papa da parte dei vescovi tedeschi, la maggioranza dei quali non gli stringerebbe la mano.

In realtà le cose stanno diversamente. A un’attenta analisi delle immagini si vede bene come il Papa alzi la mano non per stringere la mano ai vescovi, bensì per presentare i membri della delegazione vaticana e i vescovi tedeschi all'allora Presidente Christian Wulff – tra l’altro, al primo posto tra i dignitari ecclesiastici in fila, si vede il Cardinal Bertone. Trae in inganno il fatto che alcuni vescovi stringano comunque la mano al Papa, gesto che non faceva parte del protocollo. Il Papa viene 'disturbato' nella presentazione proprio dalle strette di mano impreviste, e il Presidente, di confessione cattolica e che quindi conosceva molto bene i vescovi che gli venivano presentati, va avanti per conto suo, quasi senza aspettare il Papa. Da qui l'immagine del Papa un poco spaesato e in ritardo rispetto alle strette di mano di Wulff.

Ma un motivo per cui è stato facile equivocare quelle immagini è nel fatto inconfutabile che Papa Benedetto XVI non sia stato particolarmente amato nel suo Paese. Primo Papa tedesco da un millennio a questa parte (Adriano VI, eletto nel 1522, era infatti originario di Utrecht, e quindi olandese), ha subito trovato l’ostilità dei suoi connazionali. Le voci piuttosto contrariate dei commentatori della rete televisiva tedesca ZDF al momento dell’annuncio della sua elezione, il viso teso e sconsolato dei cardinali Lehmann e Kasper intervistati la sera stessa dalla medesima ZDF, il saluto assai poco deferente rivoltogli nel 2005 nel Duomo di Colonia quale «vescovo di Roma alla sua prima visita pastorale al di fuori dei confini della sua diocesi», il fatto che tra i suoi connazionali, fedeli laici ma anche sacerdoti, il Papa sia stato comunemente chiamato Herr Ratzinger, fanno comprendere con quale scarso amore buona parte della Chiesa tedesca abbia accolto l’elezione al soglio di Pietro di questo grande figlio della terra bavarese.

Dalla maggioranza dei vescovi dell’area linguistica tedesca Benedetto XVI è stato fatto oggetto di una malcelata ostilità personale, poiché considerato come il continuatore delle politiche dei suoi predecessori, da Paolo VI a Giovanni Paolo II, che avrebbero affossato le riforme del Concilio Vaticano II. Il Papa è stato considerato come il massimo rappresentante di un’esecrabile visione conservatrice, per non dire reazionaria, della Chiesa e della sua azione nel mondo, e caratterizzata da una forte chiusura alla modernità e alle vere esigenze del popolo di Dio.

Questa ostilità si è tradotta, già durante il pontificato di Giovanni Paolo II, ma in modo ancora più marcato con Benedetto XVI, in un progressivo allontanamento della Chiesa locale tedesca dalla giurisdizione della Santa Sede e quindi della Chiesa universale. Con il pretesto di instaurare un ‘processo di dialogo’ tra la componente più conservatrice e fedele al Papa, in Germania decisamente minoritaria, e quella che rappresenta posizioni più liberali, i vescovi hanno di fatto istituito uno pseudo Concilio locale destinato a ridisegnare le posizioni della Chiesa tedesca su quelli che vengono considerati i temi ecclesiali più bollenti e attuali: il cosiddetto sacerdozio femminile, l’abolizione del celibato dei sacerdoti, un allentamento della morale sessuale e la liceità dell’utilizzo dei contraccettivi, l’accettazione dell’omosessualità, l’ammissione alla Comunione dei divorziati risposati e dei protestanti, quindi gli stessi temi su cui insistono i ribelli austriaci della Pfarrerinitiative guidati da Helmut Schüller.

Constatando che la soluzione di questi problemi a livello di Chiesa universale avverrebbe con eccessiva lentezza, la Chiesa tedesca ha deciso di intraprendere un cammino che rappresenta in pratica la sua trasformazione in Chiesa autocefala, con il ridimensionamento del ruolo del Papa, da quello di detentore della giurisdizione e del primato sulle realtà temporali e spirituali dell’intera Chiesa universale (e quindi anche della sua porzione operante entro i confini della Repubblica Federale Tedesca) a quello di primus inter pares, che può vantare una vaga autorità spirituale e una scarsa, se non nulla, potestà giuridica.

Non si tratta di un piano segreto, bensì di un progetto attuato passo dopo passo alla luce del sole. In un’intervista concessa lo scorso dicembre all’agenzia tedesca di informazione cattolica KNA, l’arcivescovo di Friburgo e Presidente della Conferenza Episcopale tedesca, Mons. Robert Zöllitsch, ha auspicato l’avvio di un processo di ‘regionalizzazione’ nell’applicazione di soluzioni dei problemi della Chiesa, vale a dire che con riferimento ai temi scottanti menzionati in precedenza, cominciando dall’ammissione alla Comunione dei divorziati risposati, la Chiesa tedesca sarebbe andata per conto suo senza tenere conto delle regole stabilite dal magistero ordinario del Santo Padre. Se questo non è uno scisma, poco ci manca.

In questa direzione va anche intesa anche la risposta dello stesso Mons. Zöllitsch alla lettera che Benedetto XVI ha inviato ai vescovi tedeschi chiedendo la modifica della traduzione del passo in latino del canone della Santa Messa pro multis da für alle (per tutti) a für viele (per molti). Per il vescovo di Friburgo la missiva del Papa rappresentava «un importante contributo al dibattito in corso», formulazione un poco singolare se vista dall’ottica di chi considera il Papa il pastore supremo della Chiesa universale, quindi in possesso della facoltà di stabilire un tale cambiamento, ma perfettamente lineare per chi lo vede come un’autorità le cui indicazioni non sono vincolanti.

Del resto, questa tendenza è confermata apertamente dal Card. Kasper, il quale, in una recente intervista ha affermato che serve «una nuova modalità nell’esercizio del governo della Chiesa», la cosiddetta collegialità, che andrebbe a suo dire nella direzione richiesta dal Concilio Vaticano II, e sarebbe una manifestazione «dell’unità nella diversità tra tutti i credenti nel Vangelo e di un maggiore dialogo con le altre religioni». Tale ‘collegialità’, secondo Kasper, «deve estendersi dai vescovi a forme di rappresentanza di tutte le componenti del popolo di Dio». Lo stesso Card. Lehmann, durante una Messa di suffragio di Papa Giovanni Paolo II nel 2005, ha lamentato la scarsa capacità di dialogo del defunto pontefice all’interno della Chiesa.

Abbandonando il clericalese, due tra le maggiori personalità ecclesiali tedesche reclamano appunto un ridimensionamento dell’autorità del Papa (la presunta ‘collegialità’), e sotto il pretesto del ‘dialogo’, l’annacquamento dei principi su cui si fonda la fede cattolica a motivo di un falso sentimento di unità con le altre confessioni cristiane e le altre religioni, un pericolo denunciato da Paolo VI già nel 1968 e fondato sullo stravolgimento dei principi fondanti il Concilio Vaticano II.

In Germania, e più in generale nei Paesi di lingua tedesca, sta avvenendo con metodicità l’attuazione, passo dopo passo, dei desiderata della Pfarrerinitiative. Del resto, i vescovi austriaci hanno iniziato a dare qualche buffetto – ma nessun provvedimento restrittivo serio – a Schüller e ai suoi seguaci solamente quando questi hanno lanciato il cosiddetto ‘Appello alla disobbedienza’. Non è apparsa inaccettabile la sostanza delle richieste dei ribelli, bensì il fatto che essi abbiano usato la parola tabù: disobbedienza, appunto.

Bisogna purtroppo notare come in questi Paesi l’azione pastorale dei vescovi abbia ormai assunto i tratti di un’inestricabile babele, una cacofonia di voci che distolgono i fedeli dal cammino verso la salvezza.
Abbiamo così due cardinali arcivescovi (Schönborn di Vienna e Woelki di Berlino) che pubblicamente hanno mostrato comprensione verso le unioni omosessuali, mentre altri due cardinali (Lehmann, vescovo di Magonza e l’ex curiale Kasper), col pubblico plauso di Schüller, si dichiarano favorevoli al diaconato femminile, richiesta di natura esclusivamente tattica, e che rappresenta il tentativo di aprire il terreno a una futura ‘ordinazione sacerdotale’ delle donne. A quest’ultima si sono detti pubblicamente favorevoli Iby di Eisenstadt in Austria (ora dimissionato), Büchel di San Gallo in Svizzera e Fürst di Rottenburg-Stoccarda in Germania. Il cardinale Meisner di Colonia, tra l’altro millantando un presunto via libera del Papa attraverso Mons. Georg Gänswein, ha invece aperto la strada all’autorizzazione a somministrare la ‘pillola del giorno dopo’ alle donne vittime di stupro, misura che con sorprendente rapidità è stata in seguito presa dall'intera Conferenza Episcopale tedesca.

C’è chi, come il vescovo di Salisburgo Kothgasser, nel corso di un incontro con i sacerdoti della sua diocesi ha affermato che la pedofilia nel clero rappresenta una diretta conseguenza dell’imposizione del celibato - un sacerdote presente a quell’incontro ha dichiarato: «Io, che vivo il celibato, mi sono sentito accusare di essere un pedofilo o potenziale pedofilo» -. Nella Diocesi di Linz, il vescovo Schwarz ha mantenuto per tre anni Josef Friedl nel suo incarico di parroco di Ungenach, prima che questi si ritirasse per motivi di salute, nonostante egli avesse pubblicamente ammesso di convivere con una donna - oltre a constringerlo a dimettersi da decano, l’unico rimprovero fatto dal vescovo al suo sacerdote, è stato quello di averne parlato in pubblico-. Da notare anche che proprio il parroco Friedl è stato uno dei più violenti oppositori alla nomina di mons. Gerhard Wagner a vescovo ausiliare di Linz, opposizioni che hanno costretto Wagner a rinunciare alla nomina.



Germania, maiale in cattedrale


Il vescovo di Hildesheim, in Germania, Mons. Robert Trelle, lo scorso anno ha avuto la brillante idea di festeggiare la fine della ristrutturazione della locale cattedrale organizzando in essa un pranzo con le maestranze che avevano svolto i lavori a base di porchetta allo spiedo e fiumi di birra. Come fosse normale, la stessa Diocesi ha posto le fotografie del pranzo sul proprio sito Internet, salvo poi ritirarle una volta scoppiate le polemiche per una tale profanazione del luogo sacro.

Nella Cattedrale di Bamberga, in Baviera, in occasione dei 1000 anni dalla sua costruzione, nel marzo dello scorso anno si è tenuta una mostra di arte moderna. Le immagini ‘moderne’, presunte rivisitazioni di passi della Sacra scrittura, poste accanto alle immagini sacre, e che definire blasfeme è davvero poco sono chiamate Hortus conclusus, ed è il modo in cui l’autore vede la Vergine Maria (richiamata dal Cantico dei Cantici appunto come orto chiuso), hanno trovato l’entusiastica lode del vescovo locale, Mons. Ludwig Schick, secondo il quale questa mostra ha rappresentato un invito a vivere di nuovo le opere d'arte del Duomo in modo più intenso, nonché a osservare e valutare l'arte contemporanea. Secondo Schick, con la mostra si dà un segno che l'«arte non è alla fine, bensì continua, continua a essere creata, anche l'arte religiosa. Ciò che è di religioso nell'uomo, lo spirituale, il meditare su ciò che Dio dà agli uomini, può essere stimolato attraverso il confronto con l'arte contemporanea» (per vedere quale ‘stimolo’ religioso sia esercitato dal confronto con l’arte contemporanea vedi qui)

Al contrario, i vescovi fedeli al Papa senza tentennamenti subiscono emarginazione e dileggio: un esempio di tale situazione è rappresentato da mons. Vitus Huonder, vescovo di Coira in Svizzera, malvisto dai media, ma anche dai suoi confratelli vescovi e dagli stessi sacerdoti della sua diocesi - pochissimi parroci lo accolgono nelle proprie parrocchie per il conferimento della Cresima.



Lnbq 27-03-2013

martedì 26 marzo 2013

I MALI DELLA CHIESA




di Padre Giovanni Cavalcoli, OP

In uno dei suoi ultimi articoli su Il Corriere della Sera il Card. Martini affermava che mai la Chiesa è andata bene come oggi, e tra le prove di questa asserzione portava quella che abbiamo grandi teologi, come per esempio Karl Rahner.

Ora, chi conosce veramente Karl Rahner e lo valuta in base agli insegnamenti della Chiesa e della sana ragione, troverà in questo giudizio del famoso Cardinale non certo una prova a suo favore, ma una prova a suo carico, considerato che da cinquant’anni il famoso Gesuita tedesco è stato in molti modi confutato da una schiera di studiosi perfettamente cattolici, a cominciare dai tedeschi, benchè, come sappiamo, la fama di Rahner sia tuttora diffusa in molti ambienti ecclesiastici, né l’autorità romana sia ancora intervenuta in modo significativo ed adeguato per condannare i suoi errori, salvo a suo tempo una censura di Pio XII che oggi è completamente dimenticata[1].

Il Padre Cornelio Fabro, uno dei massimi teologi e filosofi cattolici del secolo scorso, denunciava Rahner come uno dei maggiori responsabili dello “sconquasso” in campo teologico che hanno fatto seguito al Concilio Vaticano II, benchè questi naturalmente sia del tutto esente dalla responsabilità di aver avallato gli errori di Rahner e sia quindi del tutto immune dal suo influsso negativo. E dovrebbe essere evidente che una crisi della teologia non è senza conseguenze e presupposti nella vita della Chiesa e del Popolo di Dio.

Infatti il pensiero teologico nella Chiesa dà la misura del comune clima culturale e soprattutto, nel suo aspetto morale, esercita un notevole influsso sui fedeli e rispecchia la condotta stessa dei teologi, anche se è vero che l’elemento determinante del clima morale-dottrinale della vita concreta della Chiesa è dato da come i pastori guidano la Chiesa. Sono i buoni pastori che formano il buon gregge, anche se può darsi che certi buoni pastori non siano seguiti dal gregge o che il gregge non per colpa sua abbia cattivi pastori.

Per questo, anche l’influsso dei teologi sui fedeli è legato alla condotta dei pastori, giacchè anche i teologi, a parte la loro cultura teologica, non sono in fondo che fedeli come gli altri, anche se capita che alcuni pretendano di saperne in fatto di fede di più del Magistero.

Ma capita anche che il Magistero, benchè resti sempre depositario della verità cattolica, manchi di quella prudenza e fortezza pastorali che gli consentono di intervenire tempestivamente ed efficacemente per proteggere o liberare il Popolo di Dio dalle insidie dei cattivi teologi o per guarirlo dall’epidemia dell’errore e della menzogna in fatto di fede.

Certamente, se il pastore per primo, come dice il Card. Martini, sente nella sua coscienza le obiezioni dell’incredulo e convive con esse, sarà difficile cha abbia quella fede convinta, chiara e salda che gli consenta di svolgere quest’opera di soccorso e di misericordia a favore dei fedeli smarriti, confusi o ingannati, o abbia anche il coraggio di avvertire e correggere i ribelli. Se poi il dubbio, come dice il Card. Ravasi, entra nel costitutivo stesso dell’atto di fede, siamo daccapo e il pastore non sarà certo all’altezza del suo compito di far chiarezza e dar certezza. Come ho già detto in un mio recente articolo su questo argomento, il dubbio di fede non è una “cane da guardia”, ma un cane sdentato.

Ad un occhio superficiale non si direbbe che oggi la Chiesa vada poi tanto male. Infatti è sparsa in tutto il mondo; come faceva notare L’Osservatore Romano di recente, ha rappresentanze pontificie in 180 Stati a confronto della ventina che aveva all’inizio del ‘900, la S.Sede gode di notevole prestigio morale presso gli organismi rappresentativi politici a livello della comunità mondiale, la Chiesa ha 50 anni fa celebrato un Concilio grandioso, con un numero di Padri mai successo nella storia, possiede un numero di Cardinali mai raggiunto, dispone di mass-media che le consentono di comunicare in tutto il mondo, ferve intensa l’attività ecumenica, di dialogo con i non-cristiani e con i non-credenti, dispone di molte istituzioni accademiche, mantiene le sue strutture organizzative diocesane, parrocchiali, caritative e missionarie, amministra un notevole patrimonio finanziario (lo IOR), ed insomma non abbiamo particolari o eclatanti conflitti intraecclesiali così gravi come quelli che abbiamo avuto nei secoli passati – si pensi per esempio alla crisi donatista o ariana dei primi secoli o alle guerre di religione dei secc. XVI-XVII,

Fatti di per sé gravissimi, che dovrebbero costituire un campanello d’allarme che in realtà le cose non vanno bene, come per esempio le dimissioni di Papa Ratzinger, il tradimento di Paolo Gabriele, con tutto quello che nasconde e che non è venuto ancora alla luce, l’ambizione e il carrierismo negli uffici ecclesiastici, la corruzione sessuale del clero, il calo spaventoso delle vocazioni, l’insidia della massoneria, la scarsità in Occidente di conversioni al cattolicesimo, cristiani crudelmente perseguitati dall’Islam e dal comunismo, l’impressionante diffusione delle eresie anche tra prelati, la diffusa sfacciata indisciplina e disobbedienza in fatto di etica cristiana - si pensi per esempio all’etica sessuale - o nella prassi liturgica, la nullità di contenuti che spesso si nasconde sotto l’etichetta di “cattolico”, vengono ignorati o minimizzati o interpretati in un senso ingannevolmente rassicurante quando non interpretati in senso decisamente positivo.

L’unica cosa sulla quale si è insistito, ma con sospetta curiosità morbosa e con evidente intenzione di screditare il sacerdozio e la Chiesa è stato il fenomeno della pedofilia, come se poi anche questo non fosse la conseguenza di una crisi di fede e di identità negli stessi preti sedotti dalle numerose eresie in circolazione, delle quale invece non si parla per niente

Ma perché questo falso ottimismo? Perché sono al potere coloro stessi che sono la causa dei mali della Chiesa: i modernisti. E allora è logico che per chi comanda tutto vada bene[2]: le cose devono restare come sono, altrimenti come potrebbero conservare il potere e far la figura di essere i benefattori e i riformatori della Chiesa? Come potrebbero avanzar diritti a continuare ad occupare i posti che con tanta tenacia, tante vie traverse e tanti artifici sono riusciti a conquistarsi?

I seccatori, i “profeti di sventura”, i rompiscatole, i dissidenti, gli attaccabrighe, i lamentoni saranno senz’altro gli antimodernisti, contrari al “progresso” e al “Concilio”, fermi in un passato che ormai è passato o desiderosi di tornare a quel vecchiume che ormai la storia ha spazzato via.

Anche i modernisti sostengono che nella Chiesa ci sono mali e ingiustizie da togliere: anche loro parlano di una “riforma della Curia Romana”, sostengono che il Papa ha tuttora troppo potere, occorre più Vangelo e meno dogma, dare più spazio ai laici e alle donne, abolire lo sfarzo e sanare la cattiva amministrazione del Vaticano, abolire la liturgia “sacrale” e incrementarla come festa popolare, liberare la Chiesa dalle connivenze con la destra, aumentare e rafforzare la collegialità episcopale, maggiore liberalità nell’etica sessuale, maggiore libertà di pensiero ai teologi, oppressi dall’Inquisizione romana, in particolare si riferiscono a Ratzinger quand’era prefetto della CDF.

Non dico che in ciò sia tutto sbagliato. Operando un saggio discernimento, si potrebbe trovare qualche punto buono. Ma è evidente che si tratta di un’impostazione che nella sostanza aggraverebbe i mali anziché diminuirli o toglierli. Il fatto è che i modernisti partono da un concetto sbagliato di Chiesa, influenzato o dal fideismo soggettivista protestante o dal naturalismo e razionalismo massonici e per questo, benchè anch’essi parlino di riforma e di soppressione dei mali e degli scandali, in pratica il contenuto dei loro giudizi, delle loro critiche e delle loro proposte non coincide affatto anzi è il contrario di quanto pensano i veri cattolici, fedeli al Papa e al Magistero, i quali certo da cinquant’anni lamentano una grave crisi nella Chiesa, ma non certo in base ai criteri usati dai modernisti, anzi gli stessi modernisti, benchè non sempre vengono chiamati con questo nome ma con altri (“secolaristi”, “relativisti”, “progressisti”, “innovatori”, “contestatori”, “soggettivisti”, “magistero parallelo”, ecc) son considerati dai buoni cattolici e dallo stesso Magistero come i maggiori responsabili dei mali e delle sofferenze della Chiesa, dei suoi contrasti interni, della sua “autodemolizione”, dell’ecumenismo inconcludente e fuorviante, della paralisi delle missioni e della stessa diminuzione dei cattolici, i quali passano ad altre idee o religioni anche se conservano il nome di cattolici.

I modernisti non si esprimeranno come fece Paolo VI che parlava del “fumo di Satana” entrato nella Chiesa, dato che loro al diavolo non ci credono; forse accetterebbero invece l’altrettanto famosa frase dell’allora card. Ratzinger: la “sporcizia nella Chiesa”. Ma il punto è sempre quello che i modernisti non intendono la “sporcizia” come la intendono i veri cattolici, i quali non partono da un concetto e da un modello di Chiesa influenzato o dalla massoneria o dal protestantesimo, ma da quel modello che ci viene offerto da Gesù Cristo nell’interpretazione della Chiesa Cattolica, ossia una Chiesa che certo ha interessi umani ma soprattutto divini e soprannaturali, regolata quindi da una verità rivelata e divina, verità di fede, interpretata dalla Chiesa e regolata da una conseguente morale che non si esaurisce nella filantropia o nella semplice etica naturale dei diritti umani (con tutto il rispetto dovuto a questi valori), ma si eleva a finalità ben superiori: la remissione dei peccati, la vita di grazia dei figli di Dio, la vita eterna, la comunione dei santi, la pratica dei sacramenti e della preghiera, l’imitazione di Cristo, la vita secondo lo Spirito nella comunione con i pastori istituiti da Cristo sotto la guida del Successore di Pietro.

Occorre rendersi conto sia della qualità della “sporcizia” da togliere, sia della sua quantità. E’ chiaro che la Chiesa quaggiù per permissione di Dio anche nei santi conserva una certa dose di sporcizia, un po’ come il nostro organismo fisiologicamente produce materiali che periodicamente vengono espulsi. E’ evidente che in ogni città esiste un servizio di nettezza urbana. Ma un conto è la situazione di una città della Svizzera e un conto è la situazione di Napoli. Esistono situazioni limite talmente gravi che diventano veramente intollerabili, che devono e possono assolutamente essere sanate.

E’ questa certamente la “sporcizia” alla quale alludeva Ratzinger nella famosa Via Crucis del 2005. E’ chiaro che una Chiesa assolutamente pura non è di questa terra, ma è solo la Chiesa celeste. Anche i santi, dice la morale cattolica, commettono spesso ed inevitabilmente almeno peccati veniali e tutti, per quanto virtuosi, abbiamo difetti permanenti, conseguenza del peccato originale, che ci portiamo dietro tutta la vita, raggiungessimo anche i gradi più elevati della santità. E quindi c’è un continuo accumulo di “sporcizia” che va periodicamente eliminato.

Il peccatore quindi non è semplicemente e solo colui che si ritrova con questa sporcizia, ma chi non si cura di tenersi pulito e non la elimina. E il santo non è la persona impeccabile e perennemente pulita, ma colui che per quanto è in lui evita di sporcarsi e si pulisce quando è sporco. La differenza quaggiù non è tanto tra “giusti” ed “empi” - questa riguarda soprattutto l’aldilà -, ma tra peccatori impenitenti e peccatori pentiti.

I modernisti viceversa sono dei perfezionisti, sono degli eterni utopisti illusi, sono figli di Rousseau che non credeva al peccato originale o peggio ancora sono eredi di Mazzini o di Cavour o di Lincoln o di Washington convinti massonicamente che l’uomo possa raggiungere il massimo progresso con le sole forze della ragione e della volontà, senza bisogno della grazia. Oppure essi sono talmente soprannaturalisti, che, eredi dell’idealismo tedesco o del panteismo indiano, come i rahneriani, credono che l’uomo, essendo implicitamente Dio, non ha che da esplicitare questa sua essenza divina e il gioco è fatto.

E’ molto importante, per valutare i veri mali della Chiesa e riconoscere i suoi pregi, partire da un giusto modello di Chiesa. Esso ci viene offerto in modo importante ed autorevole dai documenti del Concilio come anche dai grandi insegnamenti del Beato Pio IX o di Pio XII. Grandi ecclesiologi che io consiglio sono anche i Cardd. Charles Journet e Yves Congar, oltre ai classici del ‘900, come il Beni-Cipriani o il De Groot e lo Schultes. E naturalmente non bisogna dimenticare il Catechismo della Chiesa Cattolica.

Lo stesso Maritain ha un ottimo libro in L’Eglise, sa personne et son personnel. Consigliabile è anche il famoso “Rapporto sulla fede”[3] del Card. Ratzinger, dove è contenuta un’analisi lucidissima e coraggiosa, che riprende quelle di Paolo VI ed è tuttora valida. Qui abbiamo i criteri giusti per giudicare e valutare.

La Chiesa è santa e se è presente la sporcizia, questa non la intacca nella sua essenza, nei suoi fondamenti, nella sua dottrina, nella sua morale, nei suoi mezzi di salvezza, nei suoi fini escatologici. La Chiesa non va corretta dal di fuori o dal di sopra con presuntuoso atteggiamento gnostico di chi pretende di possedere una superiore scienza divina, ma essa ha da sè per la presenza del suo Signore, tutti i mezzi necessari e sufficienti per purificarsi e progredire.

Certo solo la Chiesa del cielo è totalmente santa; quella terrena, sofferente e in lotta contro il Drago, contiene almeno visibilmente e salvo a non ingannarsi pochi santi, è ancora in cammino e nei pericoli di questa vita. Sta però a noi saper riconoscere questi santi ed associarci ad essi, fossero anche in piccolo numero, emarginati e disprezzati dai potenti di questo mondo, non importa. A questi buoni discepoli si indirizzano le parole del Signore: “non temere, piccolo gregge, perché al Padre è piaciuto donarvi il suo Regno”.

[1] All'epoca di Pio XII Rahner scrisse in maniera inopportuna circa la verginità della Madonna e ricevette la proibizione di scrivere su questo argomento. L’enciclica del Beato Giovanni Paolo II Veritatis Splendor contiene bensì la condanna della distinzione tra “categoriale” e “trascendentale” che si trova in Rahner ma non solo in lui, e neppure si nomina esplicitamente l’autore. E’ giunto il momento, così ci sembra, di una critica più ampia e radicale facendo espressamente il nome dell’autore. Solo così i fedeli riceveranno una chiara indicazione e i rahneriani non troveranno scappatoie.

[2] Famoso è il detto che circolava forse con una certa ironia, poco prima che scoppiasse la Rivoluzione Francese: “Tout va très-bien, Madame la Marquise!”. Poi si è visto che cosa è successo.

[3] Edizioni Paoline 1983

Riscossa cristiana 26 Marzo 2013