Un commento alla visita del Papa a Milano
di Massimo Introvigne
«O amici, non questi toni, intoniamone altri di più attraenti e gioiosi». Quando il 1° giugno 2012 Benedetto XVI al Teatro alla Scala di Milano ha ricordato queste parole di Ludwig van Beethoven (1770-1827) nel recitativo dell’Inno alla Gioia, molti vi hanno visto un segno e un simbolo di tutta la visita apostolica del Papa nel capoluogo lombardo. Come, dopo la «terribile dissonanza» che annuncia la parte finale dell’Inno alla Gioia, le parole di Beethoven «in un certo senso, “voltano pagina”», così anche la Chiesa con la gioiosa visita del Pontefice a Milano ha idealmente voltato pagina dopo giornate di difficoltà e di polemiche. Certamente il Papa non poteva né voleva ignorare un contesto di crisi, all’esterno e all’interno della Chiesa. Tuttavia, più che un’analisi della crisi, in questo viaggio ha voluto trasmettere un messaggio di speranza, un richiamo alla bellezza che brilla di fronte al male del mondo e introduce alla verità e al bene.
1. La bellezza dell’arte
Bellezza, anzitutto, dell’opera d’arte, che il Papa musicologo nel dialogo con le famiglie del 2 giugno al Parco di Bresso ha evocato con riferimento alla sua giovinezza, dove in casa al sabato si preparava la Messa domenicale con particolare attenzione alla musica. «Così cominciava la domenica: entravamo già nella liturgia, in atmosfera di gioia. Il giorno dopo andavamo a Messa. Io sono di casa vicino a Salisburgo, quindi abbiamo avuto molta musica – [Wolfgang Amadeus] Mozart [1756-1791], [Franz Peter] Schubert [1797-1828], [Franz Joseph] Haydn [1732-1809] – e quando cominciava il Kyrie era come se si aprisse il cielo».
Quanto alla musica di Beethoven – come aveva fatto per altri musicisti in occasione di concerti in suo onore – il Pontefice ne ha parlato alla Scala in termini non generici, e senza nascondere il fatto che l’Inno alla Gioia non è propriamente un inno cristiano. «È una visione ideale di umanità quella che Beethoven disegna con la sua musica: “la gioia attiva nella fratellanza e nell’amore reciproco, sotto lo sguardo paterno di Dio” (Luigi Della Croce). Non è una gioia propriamente cristiana quella che Beethoven canta, è la gioia, però, della fraterna convivenza dei popoli, della vittoria sull’egoismo, ed è il desiderio che il cammino dell’umanità sia segnato dall’amore, quasi un invito che rivolge a tutti al di là di ogni barriera e convinzione».
Ha senso, si è chiesto Benedetto XVI, celebrare la bellezza di un’opera d’arte dedicata alla gioia, in un’Italia in cui tanti piangono le vittime del terremoto? Le parole che Beethoven riprende dall’Inno alla gioia di Friedrich Schiller (1759-1805) «suonano come vuote per noi, anzi, sembrano non vere. Non proviamo affatto le scintille divine dell’Elisio. Non siamo ebbri di fuoco, ma piuttosto paralizzati dal dolore per così tanta e incomprensibile distruzione che è costata vite umane, che ha tolto casa e dimora a tanti. Anche l’ipotesi che sopra il cielo stellato deve abitare un buon padre, ci pare discutibile. Il buon padre è solo sopra il cielo stellato? La sua bontà non arriva giù fino a noi?».
Interrogativi drammatici, che l’uomo si pone ogni volta che si trova di fronte al dolore, alla morte, ai disastri naturali. E allora la retorica di Schiller non basta.
«In quest’ora – ha detto il Papa – le parole di Beethoven, “Amici, non questi toni …”, le vorremmo quasi riferire proprio a quelle di Schiller. Non questi toni. Non abbiamo bisogno di un discorso irreale di un Dio lontano e di una fratellanza non impegnativa. Siamo in cerca del Dio vicino. Cerchiamo una fraternità che, in mezzo alle sofferenze, sostiene l’altro e così aiuta ad andare avanti». «Noi cerchiamo un Dio che non troneggia a distanza, ma entra nella nostra vita e nella nostra sofferenza». È il Dio cristiano.
2. La bellezza della santità
La bellezza di cui ha parlato Benedetto XVI a Milano non è solo quella dell’arte. È la bellezza della vita santa, evocata sia come memoria nel ricordo dei santi milanesi sia come proposta ai ragazzi della Cresima. Già nel primo saluto a Milano in Piazza Duomo il 1° giugno, il Papa ha ricordato i santi che sono stati vescovi e arcivescovi di Milano: sant’Ambrogio (339 o 340-397), san Carlo Borromeo (1538-1584), il beato Andrea Carlo Ferrari (1850-1921), il beato Alfredo Ildefonso Schuster (1880-1954), il servo di Dio Paolo VI (1897-1978), «buono e sapiente, che, con mano esperta, seppe guidare e portare ad esito felice il Concilio Vaticano II», cui Benedetto XVI ha voluto affiancare un altro vescovo di Milano asceso al soglio di Pietro, Pio XI (1857-1939), «alla cui determinazione si deve la positiva conclusione della Questione Romana e la costituzione dello Stato della Città del Vaticano».
Venuto a Milano per il VII Incontro Mondiale delle Famiglie, tra tanti santi milanesi il Papa ha pure tenuto a «ricordare, proprio pensando alle famiglie, santa Gianna Beretta Molla [1922-1962], sposa e madre, donna impegnata nell’ambito ecclesiale e civile, che fece splendere la bellezza e la gioia della fede, della speranza e della carità». E di tutti questi santi il Pontefice ha voluto sottolineare lo speciale legame con Roma e l’indomita fedeltà al Papa, fin da sant’Ambrogio. «Come è noto, sant’Ambrogio proveniva da una famiglia romana e ha mantenuto sempre vivo il suo legame con la Città Eterna e con la Chiesa di Roma, manifestando ed elogiando il primato del Vescovo che la presiede. In Pietro – egli afferma – “c’è il fondamento della Chiesa e il magistero della disciplina” (De virginitate, 16, 105); e ancora la nota dichiarazione: “Dove c’è Pietro, là c’è la Chiesa” (Explanatio Psalmi 40, 30, 5). La saggezza pastorale e il magistero di Ambrogio sull’ortodossia della fede e sulla vita cristiana lasceranno un’impronta indelebile nella Chiesa universale e, in particolare, segneranno la Chiesa di Milano, che non ha mai cessato di coltivarne la memoria e di conservarne lo spirito».
Ai ragazzi della Cresima, il Papa – come aveva già fatto in Gran Bretagna, rivolgendosi agli studenti delle scuole cattoliche il 17 settembre 2010 – ha chiesto di essere santi: «Siate santi! Ma è possibile essere santi alla vostra età? Vi rispondo: certamente! Lo dice anche sant’Ambrogio, grande Santo della vostra Città, in una sua opera, dove scrive: “Ogni età è matura per Cristo” (De virginitate, 40). E soprattutto lo dimostra la testimonianza di tanti Santi vostri coetanei, come Domenico Savio [1842-1857], o Maria Goretti [1890-1902]. La santità è la via normale del cristiano: non è riservata a pochi eletti, ma è aperta a tutti». Si può anche ricordare a questo proposito l’impegno personale di Benedetto XVI per la ripresa della causa di beatificazione di Antonietta Meo, «Nennolina» (1930-1937), proclamata venerabile nel 2007 superando obiezioni su una presunta impossibilità di diventare santi a sette anni.
Ai cresimandi il Papa ha indicato pure la via verso la bellezza della santità: i doni dello Spirito Santo, «realtà stupende» e oggi tanto spesso purtroppo dimenticate. Vale dunque la pena di ricordarli. Il primo è la sapienza, «che vi fa scoprire quanto è buono e grande il Signore e, come dice la parola, rende la vostra vita piena di sapore, perché siate, come diceva Gesù, “sale della terra”». Il secondo è l’intelletto, «così che possiate comprendere in profondità la Parola di Dio e la verità della fede». Terzo: il consiglio, «che vi guiderà alla scoperta del progetto di Dio sulla vostra vita, vita di ognuno di voi». Quarto dono: la fortezza, «per vincere le tentazioni del male e fare sempre il bene, anche quando costa sacrificio». Quinto: il dono della scienza, «non scienza nel senso tecnico, come è insegnata all’Università, ma scienza nel senso più profondo che insegna a trovare nel creato i segni le impronte di Dio, a capire come Dio parla in ogni tempo e parla a me, e ad animare con il Vangelo il lavoro di ogni giorno; capire che c’è una profondità e capire questa profondità e così dare sapore al lavoro, anche quello difficile». Sesto dono: la pietà, «che tiene viva nel cuore la fiamma dell’amore per il nostro Padre che è nei cieli, in modo da pregarLo ogni giorno con fiducia e tenerezza di figli amati; di non dimenticare la realtà fondamentale del mondo e della mia vita: che c’è Dio e che Dio mi conosce e aspetta la mia risposta al suo progetto». E il settimo dono, forse il più difficile da capire per un giovane oggi, è il timore di Dio, da non confondersi con la paura. Il «timore di Dio non indica paura, ma sentire per Lui un profondo rispetto, il rispetto della volontà di Dio che è il vero disegno della mia vita ed è la strada attraverso la quale la vita personale e comunitaria può essere buona; e oggi, con tutte le crisi che vi sono nel mondo, vediamo come sia importante che ognuno rispetti questa volontà di Dio impressa nei nostri cuori e secondo la quale dobbiamo vivere; e così questo timore di Dio è desiderio di fare il bene, di fare la verità, di fare la volontà di Dio».
(La seconda parte verrà pubblicata domani, martedì 5 giugno)
ROMA, lunedì, 4 giugno 2012 (ZENIT.org)
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