di padre Giovanni Cavalcoli
Il recente spettacolo di Castellucci ha messo sulla scena con provocatoria efficacia una concezione della sofferenza, che riprende antiche idee gnostiche e si è recentemente diffusa anche nei nostri ambienti cattolici, per l’influsso di una cristologia che divinizza la sofferenza, considerandola come qualcosa di assolutamente ineliminabile, in se stessa buona e positiva.
Si tratta di risorte concezioni pagane basate su di una visione della realtà ciclica o dialettica, dove bene e male o si intrecciano indissolubilmente tra di loro eternamente come fossero due assoluti – il manicheismo – o si succedono eternamente come i momenti necessari – il “positivo” e il “negativo” – di un unico Assoluto o di un Intero: la concezione ciclica greca e indiana, ripresa da Hegel in chiave razionalistica e da Nietzsche in chiave irrazionalistica.
In queste visioni Dio è all’origine della sofferenza e quindi non la toglie ma semplicemente vi sta accanto, per cui il problema della sofferenza non è quello di operare per eliminarla, ma al contrario è semplicemente quello di trovare un particolare sguardo col quale contemplare la sofferenza in modo che essa non sia più urtante ed odiosa, ma gradevole e accettabile.
Occorre abituarsi a convivere con la sofferenza, imparando non a respingerla, ma a farla propria. Si tratta di vedere il positivo nel negativo e il negativo nel positivo. La felicità non è assenza di sofferenza, ma vivere con la sofferenza, vista però come positivo.
Queste visioni si possono denominare col termine “dolorismo”, dove con questa parola intendo appunto un’esaltazione malsana della sofferenza, vista non come difetto ma come perfezione, quindi non come odiosa ma amabile per se stessa, tanto che vien posta persino in Dio, per cui diventa un attributo divino e pertanto assolutamente ineliminabile, ineluttabile ed eterna.
Siccome questa visione sembra aver qualcosa di simile all’idea cristiana della sofferenza, dove pure in certo modo il soffrire è amato e stimato – pensiamo alla Passione di Cristo o all’ascetismo morale – il dolorismo è una pessima eresia che ha colpito il cristianesimo sin dalle origini e magari in anime nobili e votate alla perfezione, perché sembra appunto interpretare il mistero della Croce, che è la molla fondamentale del cammino cristiano della santificazione.
Se invece facciamo attenzione a questa eresia, ci accorgeremo di quanto in realtà essa si scosta dal vero cristianesimo. Innanzitutto nella prospettiva dolorista la sofferenza non è più conseguenza e castigo del peccato, ma appare una struttura fondamentale ed originaria della realtà, per cui il problema morale basilare non è quello del perdono del peccato, dal quale sarebbe derivata la sofferenza, ma dell’acquisizione del suddetto sguardo sereno sulla sofferenza.
Il problema del male, quindi, si esaurisce nel male di pena. Il male di colpa, il peccato, il problema della cattiva volontà non è preso in considerazione. Non esiste quindi la prospettiva di togliere il male di pena mediante un mutamento o conversione della volontà dal peccato alla giustizia. Non c’è l’idea di una liberazione dal peccato e dalla pena mediante azioni espiatorie o sacrificali.
In sostanza mancano il culto religioso e la preghiera e tutto si risolve nell’acquisire quello “sguardo” di cui sopra, che dovrebbe dare pace e felicità, sentendosi una cosa sola con l’Assoluto o con l’Intero, esso stesso sofferente.
Non si toglie la sofferenza perché non si toglie il peccato. E non si toglie il peccato perché manca la consapevolezza di cosa è il peccato. Infatti in questa visione tutto in fondo è bene, perché anche l’agente umano non possiede un libero arbitrio che consenta la scelta tra il bene e il male, ma è un momento dell’Assoluto, il quale in quanto tale non commette nessun peccato, ma è assoluta Razionalità o Idea assoluta.
E’ l’Uno-Tutto che evidentemente non può che essere perfettissimo. Il peccato è deficienza nella volontà: dove e in che cosa può mancare l’Assoluto, che è perfettissima Libertà, coincidente con la Necessità? E il saggio non si sente altro che un momento di questo Assoluto. Il suo sguardo è lo sguardo dell’Assoluto. Sono solo l’ignorante e lo stolto che si sentono distinti dall’Assoluto e quindi in grado di peccare.
Del resto ci sarebbe da chiedersi come può un Dio che soffre togliere il peccato, ammesso che il peccato esista. Infatti per togliere il peccato occorrerebbe una potenza ed una perfezione infinite, che sono escluse dalla presenza della sofferenza, che di per sé è un difetto.
La Bibbia ha chiara consapevolezza che solo Dio – tuttavia il Dio biblico onnipotente e non il Dio debole e sofferente dello gnosticismo – può togliere il peccato. Ma allora, se neanche Dio può togliere il peccato e la sofferenza, questo vuol dire che la sofferenza è più forte della gioia e il peccato è più forte della giustizia. Il male è più forte del bene.
Se dunque la gioia esiste, i casi sono due: o si dà una gioia morbosa che si compiace della sofferenza, che allora può essere non solo patita (masochismo), ma anche inflitta (sadismo), e nasce allora la tentazione della crudeltà, il gusto del far soffrire. Oppure la gioia non può essere piena ed anche Dio è infelice. La felicità non esiste non solo nell’uomo ma anche in Dio.
Dunque nessuna consolazione alla sofferenza, ma una terribile, struggente, profonda, sottilissima, irrimediabile malinconia, la quale è data dalla coscienza della mancanza di un bene irrimediabilmente perduto o irraggiungibile e che non si potrà più riavere o avere. Oppure una consolazione che non toglie la sofferenza; il che è come dire che la consolazione non esiste, giacchè uno è consolato se è liberato dalla sofferenza.
Se dunque la sofferenza appartiene a Dio, Dio certo non può rimediarvi. E a chi dovrebbe chiedere aiuto? Tuttavia se Dio come Dio è felice, si potrà dire esservi felicità nella sofferenza. Ma ecco apparire qualcosa di morboso che ripugna sia alla natura umana che a quella divina.
Nel cristianesimo l’amore per la sofferenza non assolutizza la sofferenza, non è amore per la sofferenza come tale, ma in quanto assunta da Cristo per la nostra salvezza e in fin dei conti per liberarci dalla stessa sofferenza. L’amore va a Cristo e quindi solo per amore di Cristo, come cristiani, amiamo e stimiamo la sofferenza, perché sappiamo che essa, in Cristo, con Cristo e per Cristo è principio di eterna salvezza.
Invece nel dolorismo la sofferenza appare un qualcosa che, essendo interno all’Assoluto e Questi non avendo bisogno di essere fondato o spiegato, non ha bisogno di essere fondata o spiegata, ma l’unica cosa da imparare a fare nei suoi confronti, è quello sguardo contemplativo sulla sofferenza che dovrebbe dare serenità anche nella sofferenza, così come si guardano con serenità ed anzi gioia le strutture necessarie e fondamentali del reale.
Certo queste teorie potrebbero a tutta prima avere un sapore cristiano, dato il ben noto amore cristiano per la sofferenza. Vediamo infatti come Cristo nel famoso “discorso della montagna” in Mt 5 dichiara addirittura “beati coloro che piangono, beati gli afflitti, beati coloro che soffrono a causa della giustizia, beati coloro che sono insultati”.
Senonchè però queste beatitudini non si riferiscono alla vita futura ma a quella presente. E’ adesso, secondo l’autentico insegnamento evangelico, che il cristiano può essere beato nella sofferenza, perché sa che in unione con quella di Cristo, essa gli procura la gloria e precisamente, nella vita futura, la liberazione dalla stessa sofferenza.
Sempre in ambito cattolico, in congiunzione con questa esaltazione della sofferenza, si è diffusa una concezione della natura divina intesa come sofferente, prendendo a pretesto la sofferenza di Cristo che, secondo la fede cristiana, è Dio. Si è parlato allora di un Dio “kenòtico”, rifacendosi all’espressione paolina riferita a Cristo della Lettera ai Filippesi (2,7) ekènosen eautòn, che significa alla lettera “svuotò se stesso”, ed intendendo questa espressione come se in Cristo Dio abbia negato se stesso.
Inoltre si interpretano le parole di Cristo sulla croce “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, come fossero lo strazio del Figlio divino realmente abbandonato dal Padre: anche la divinità che nega se stessa per tornare hegelianamente a se stessa al momento della risurrezione.
Ora queste tesi già più volte condannate come eretiche dalla Chiesa ricompaiono nel dramma di Castellucci non certo nella elaborazione articolata e dotta dei cristologi kenotici o della morte di Dio, ma nelle spiegazioni più semplici e piuttosto confuse che lo stesso Castellucci ha dato del suo dramma teatrale.
Bisogna allora chiarire in che consiste esattamente l’amore cristiano per la sofferenza. Esso non ha nulla a che vedere con un amore della sofferenza per se stessa, ma solo in quanto il cristiano l’accetta per amore di Cristo ed in unione con Cristo, che per primo, col suo potere divino, l’ha fatta propria conferendole un potere salvifico che è remissione del peccato e in fin dei conti, ma nella vita futura, liberazione definitiva e perfetta dalla sofferenza. E’ chiaro invece che nella suddetta visione gnostica della sofferenza di Cristo, né Cristo si libera dalla sofferenza né per conseguenza ne viene liberato il cristiano.
Per questo in alcuni cristologi la resurrezione non segue temporalmente la morte di Cristo, tanto che Cristo, come dice Paolo “non muore più”, ma Cristo, pur risorto, resta sempre morto: la resurrezione è nella morte e la morte è nella resurrezione. Così similmente in queste visuali gnostiche l’essere è col non-essere, Dio è con la sua negazione, il vero col falso, il male col bene, la vita con la morte.
Il dolorismo è connesso con quello che oggi si chiama buonismo, ossia l’idea che tutti siano in fondo buoni, in buona fede, di retta intenzione e di buona volontà, quindi senza malizia e senza colpa, a meno che non si tratti di una colpa involontaria, ossia di un semplice sbaglio, che quindi non può essere punito. Ma, come si è visto, il dolorismo tiene conto solo del male di pena e non di quello di colpa, che non è ammesso. Se colpe ci sono, esse si trovano in Dio, che è la causa del mondo e quindi anche della sofferenza che c’è nel mondo. Del resto un Dio sofferente non può che causare un mondo disgraziato.
Il dolorismo è così connesso anche col pietismo, il quale consiste nel credere che Dio ha pietà di noi, ci sta accanto, soffre con noi, ma non può farci nulla: è un Dio disgraziato anche lui. L’unica soluzione è che con lui adottiamo quello “sguardo” del quale ho già parlato.
Infine il dolorismo è connesso al perdonismo, secondo il quale, anche ammesso che esista il peccato, Dio lo perdona sempre e non castiga mai, perché un Dio che castiga sarebbe un Dio crudele, mentre Dio è buono e ha compassione di tutti. Perdona anche chi non si pente, in quanto il pentimento non è dolore d’aver peccato, ma è semplice senso di colpa per colpe inesistenti.
Al senso di colpa non deve seguire alcuna richiesta di perdono, nessuna penitenza, nessuna riparazione, perché il senso di colpa è un semplice fantasma che proviene dal subconscio, per cui va fatto semplicemente tacitare. Quindi Dio è solo misericordioso. L’idea che punisca crea solo tormenti di coscienza e falsi sensi di colpa, perché l’uomo è fondamentalmente buono e innocente. La giustizia punitiva non esiste. Nessuno va all’inferno e il diavolo non esiste.
Di tutto ciò non è impossibile scoprire almeno alcune tracce o alcune allusioni nella visuale che Castellucci ripropone sulla scena, interpretata dalle sue spiegazioni. Infatti il Cristo di Castellucci è solo apparentemente un Cristo maestoso (la grandezza dell’immagine di Cristo sulla scena), ma in realtà è muto, indifferente al soffrire umano, sordo alle preghiere, impotente, languente ed alla fine si dissolve nel nulla. Castellucci mostra chiaramente che il Dio che soffre finisce nell’ateismo.
Nel dramma di Castellucci gli attori desiderano una vera liberazione dalla sofferenza. Ma questa, nonostante le preghiere, non viene, perché Dio stesso – come ha dichiarato Castellucci – soffre ed è impotente, tanto che alla fine addirittura si dissolve, forse anche sotto i colpi degli oggetti lanciati dai ragazzi bestemmianti.
Altra cosa invece è la sofferenza dell’umanità di Cristo. Questo è l’“Agnello immolato” del quale parla l’Apocalisse. Ma il sacrificio di questo Agnello è espiatore e salvatore, è liberatore dal peccato e dalla sofferenza solo perché Cristo è Dio, non soggetto alla sofferenza ed onnipotente e solo così è in grado di dar valore salvifico al sacrificio di Cristo.
In queste visuali la creazione, l’Incarnazione e la Redenzione coincidono: così come Cristo resta crocifisso anche nella resurrezione, allo stesso modo Cristo, nel senso gnostico, non è stato crocifisso al termine della sua vita terrena duemila anni fa, ma, secondo un’errata interpretazione di un passo dell’Apocalisse, sarebbe “immolato sin dalla fondazione del mondo” (Ap 13,8), un Cristo la cui umanità si dissolve docetisticamente nell’eterno ovvero è Dio stesso che è eternamente nella sofferenza, quando invece la giusta interpretazione del passo non ci parla di un’assurda realtà ontologica della morte di Cristo all’inizio del mondo, dato che qui siamo prima dell’Incarnazione, ma del progetto del Padre di offrire il Figlio per la salvezza del mondo.
Cristo immolato, quindi sofferente sin dalla fondazione del mondo, in questa visuale gnostica, significa che il dolore è intrinseco alla creazione in se stessa, sin dalle origini; la sofferenza quindi non è qualcosa di conseguente ad una colpa originaria dell’uomo o del demonio (colpa che non esiste), ma deriva dalla stessa azione creatrice divina: Dio ha creato un mondo naturalmente infelice.
Il dolorismo è dettato dal sottile e satanico orgoglio di chi, rifiutando superbamente di riconoscere il proprio peccato e il meritato castigo, rifiutando di far penitenza e di chiedere umilmente perdono a Dio per essere liberato dal peccato e dalla sofferenza, si sforza illusoriamente ma anche tragicamente, con una vana soddisfazione, di render buona la sofferenza ignorando nel contempo la sua origine dal peccato e trasformandola in un attributo divino che egli cerca vanamente di fare oggetto di una sguardo contemplativo che in realtà frustra le esigenze più profonde dell’uomo alla sua felicità.
Liberta' e Persona
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