mercoledì 1 febbraio 2012
Ma il tabernacolo non è un ingombro
« La rivalutazione conciliare della dimensione comunitaria, essenziale alla fede cristiana, ha portato in fase applicativa a una desacralizzazione che nulla ha a che vedere con gli insegnamenti del Vaticano II »
di Michele Dolz
della Pontificia Università della Santa Croce - Roma
C'è da augurarsi che il sasso lanciato nello stagno dall'architetto Paolo Portoghesi produca un'onda lunga di riflessione tra gli addetti ai lavori. Il punto messo in evidenza è chiaro: la rivalutazione conciliare della dimensione comunitaria, essenziale alla fede cristiana, ha portato in fase applicativa a una desacralizzazione che nulla ha a che vedere con gli insegnamenti del Vaticano II.
Non mancano le ragioni teologiche e scritturistiche; anzi, una visione della ecclesia come depositaria della sacralità, o meglio della santità. Gesù chiarì alla Samaritana: "Viene l'ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre (...) Viene l'ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano" (Giovanni, 4, 21-23). Non ci sono propriamente luoghi sacri nel cristianesimo. Dio è dappertutto ed è specialmente nell'uomo in grazia, quello che Origene proponeva con fierezza come l'immagine più esatta di Dio: "Non c'è paragone tra lo Zeus Olimpico scolpito da Fidia e l'uomo scolpito a immagine di Dio creatore" (Contra Celsum, 8, 18). Santo è l'uomo (o può esserlo) e santa è la ecclesia. E "dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" (Matteo, 18,20).
Su questa base, vera fede antica della Chiesa, si è data un'enfatizzazione, un'ipertrofia che giunge a volte a negare la validità dell'azione religiosa individuale. Così l'edificio chiesa è visto come la sede per la riunione dell'assemblea o comunità. Lì si svolge un'azione sacra quando questa c'è mentre rimane un guscio vuoto in sua assenza, non essendo previsto un uso personale, individuale, "privato" del luogo. Ora, la chiesa trasformata in sala riunioni non ha bisogno d'immagini, queste anzi sono d'impiccio. Si pensi a un'aula di conferenze o convegni: più sono essenziali e meglio svolgono il loro compito, aiutando a concentrare l'attenzione sui relatori. Le chiese per l'assemblea non vogliono le immagini, perché non servono, perché disturbano. E la cosa in fondo si sposa bene col gusto minimalista e purista di molti architetti, creativi o replicanti che siano.
Le chiese sobrie e alquanto spoglie, beninteso, non sono una novità del Novecento e hanno anche ben aiutato all'incontro con Dio in Gesù Cristo. Ma non ci si può appellare al Vaticano ii per giustificare l'assenza d'immagini, né tanto meno all'invalidità della preghiera personale all'interno della chiesa. Nella Sacrosanctum Concilium leggiamo che il fine delle opere d'arte sacra è "contribuire il più efficacemente possibile a indirizzare religiosamente le menti degli uomini a Dio"; che "la Chiesa si è sempre ritenuta a buon diritto come arbitra, scegliendo tra le opere degli artisti quelle che rispondevano alla fede, alla pietà e alle norme religiosamente tramandate e che risultavano adatte all'uso sacro" (122). E in seguito: "Si mantenga l'uso di esporre nelle chiese le immagini sacre alla venerazione dei fedeli" (125), raccomandando al tempo stesso moderazione per prevenire le esagerazioni sempre possibili in questa materia.
Conseguenza estrema e più chiara della posizione assemblearista è la perdita d'importanza dell'Eucaristia intesa come presenza reale di Cristo nell'ostia dopo la messa. Se non si pensa all'adorazione personale, e non essendo di fatto praticata l'adorazione comunitaria, il tabernacolo diventa ingombrante e difficile da collocare oltre ai due poli liturgici maggiormente considerati, l'altare e l'ambone. In tante chiese è andato così soggetto a una progressiva emarginazione fino ad arrivare al totale nascondimento. Non sfugge la mancanza di fede, in taluni settori, nella presenza reale.
Eppure, la storia del tabernacolo rispecchia il progressivo sviluppo del culto eucaristico, secondo quel "progresso della fede" già inquadrato da Vincenzo di Lerins nel Commonitorium (434) e che in questo caso ha visto due momenti forti: il xiii secolo e le iniziative di riforma cattolica intorno al concilio di Trento. Intorno perché, per esempio, fu il vescovo di Verona, Matteo Giberti (+1543) a collocare il tabernacolo sulla mensa dell'altare, azione ben presto imitata da molti. Come scriveva Giovanni Paolo ii nel 2003, "le forme degli altari e dei tabernacoli si sono sviluppate dentro gli spazi delle aule liturgiche seguendo di volta in volta non solo i motivi dell'estro, ma anche i dettami di una precisa comprensione del Mistero" (Ecclesia de Eucharistia, 49). L'assemblearismo invece vede la custodia eucaristica in forma sussidiaria e non sorgiva dell'unione del fedele con Cristo oltre alla Comunione.
L'esortazione di Benedetto XVI Sacramentum caritatis del 2007 raccoglie le riflessioni e le proposte del Sinodo dei vescovi sull'Eucaristia, perciò non va vista come espressione di una o un'altra corrente teologica. Vi leggiamo: "Mentre la riforma (liturgica) muoveva i primi passi, a volte l'intrinseco rapporto tra la santa Messa e l'adorazione del Santissimo Sacramento non fu abbastanza chiaramente percepito. Un'obiezione allora diffusa prendeva spunto, ad esempio, dal rilievo secondo cui il Pane eucaristico non ci sarebbe stato dato per essere contemplato, ma per essere mangiato. In realtà, alla luce dell'esperienza di preghiera della Chiesa, tale contrapposizione si rivelava priva di ogni fondamento. Già Agostino aveva detto: Nemo autem illam carnem manducat, nisi prius adoraverit; peccemus non adorando - Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo (...) L'adorazione eucaristica non è che l'ovvio sviluppo della celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il più grande atto d'adorazione della Chiesa (...) L'atto di adorazione al di fuori della santa Messa prolunga e intensifica quanto s'è fatto nella celebrazione liturgica stessa" (41).
La conseguenza in termini di progettazione delle chiese, evidenziata nello stesso documento postsinodale, è semplice: "Nelle nuove chiese è bene predisporre la cappella del Santissimo in prossimità del presbiterio; ove ciò non sia possibile, è preferibile situare il tabernacolo nel presbiterio, in luogo sufficientemente elevato, al centro della zona absidale, oppure in altro punto ove sia ugualmente ben visibile. Tali accorgimenti concorrono a conferire dignità al tabernacolo, che deve sempre essere curato anche sotto il profilo artistico" (69).
In ultima analisi l'evidenziazione del tabernacolo e l'esposizione d'immagini sacre stanno nella stessa linea della preghiera personale che, come visto, nulla toglie alla celebrazione comunitaria. Ne deriva che anche le immagini non sono solo ornato: "L'arte sacra - scriveva Giovanni Paolo ii - deve contraddistinguersi per la sua capacità di esprimere adeguatamente il Mistero colto nella pienezza di fede della Chiesa" (Ecclesia de Eucharistia, 50). E gli fa eco il sinodo nelle parole di Benedetto XVI quando ricorda che "l'iconografia religiosa deve essere orientata alla mistagogia sacramentale. Un'approfondita conoscenza delle forme che l'arte sacra ha saputo produrre lungo i secoli può essere di grande aiuto per coloro che, di fronte ad architetti e artisti, hanno la responsabilità della committenza di opere artistiche legate all'azione liturgica" (41).
C'è da riflettere dunque, non per invocare una qualche restaurazione, ma per ammettere con nobiltà d'animo gli errori commessi e per prospettare nuove linee di sviluppo dell'arte sacra. La prossima domanda sarà necessariamente come fare affinché la poliedrica arte contemporanea esprima adeguatamente il Mistero nella fede della Chiesa. Perché è dall'arte contemporanea che verrà la soluzione, non da nostalgici quanto impossibili revival. Ma in ogni caso siamo di fronte a una questione teologica e spirituale prima ancora che estetica.
fonte: Osservatore Romano, 17/01/2010
http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2010/013q04b1.html
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