venerdì 11 marzo 2022

Un mito da sfatare: il diritto di darsi la morte



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Settimo Cielo
11 mar 22


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(s.m.) Ricevo e pubblico, dopo il sì della camera a favore del progetto di legge sul fine vita e in attesa del voto al senato. L'autore della lettera, Antonio Caragliu, è avvocato del foro di Trieste e membro dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani.

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Caro Magister,

in un mio articolo uscito in questi giorni sulla rivista di scienze religiose e umanistiche “Veritatis Diaconia” sviluppo una critica al diritto di morire così come argomentato e promosso dal filosofo Giovanni Fornero nel suo ultimo libro: “Indisponibilità e disponibilità della vita. Una difesa filosofico giuridica del suicidio assistito e dell'eutanasia volontaria”, UTET, Torino, 2020, pp. 812.

La prospettiva entro la quale si affrontano i temi del cosiddetto "fine vita" è, di solito, quella della determinazione di un giusto bilanciamento tra il diritto alla vita e il diritto all'autodeterminazione. Ma non è questa la prospettiva della mia analisi.

Ciò su cui rifletto, in un confronto serrato con la pregevole opera di Giovanni Fornero, è la stessa possibilità di concepire il diritto di procurarsi la morte come un diritto soggettivo di libertà.

Nel rimandare all'articolo per un'analisi più ampia e articolata, offro qui di seguito all'attenzione dei lettori di Settimo Cielo alcune brevi considerazioni e suggestioni.

1. Sul diritto di darsi la morte con assistenza medica


Fornero concepisce la morte medicalmente assistita come un atto di autodisposizione realizzato tramite terzi. In questo modo egli eclissa la condotta del sanitario nell'assorbente volontà del paziente.

Ma come può un diritto soggettivo di libertà includere un atto di omicidio o comunque di assistenza al suicidio?

Lo stesso riconoscimento da parte di Fornero del diritto all'obiezione di coscienza del sanitario è significativo di un conflitto intimo ed oggettivo tra beni giuridici fondamentali che impedisce la possibilità di ricondurre la pretesa alla morte medicalmente assistita a un diritto di libertà, ovvero a un diritto di non interferenza da parte di terzi.

2. Sul diritto di procurarsi la morte in maniera autonoma

Nel suicidio la persona si procura la morte in maniera autonoma. In questo caso non si presenta il problema di qualificare e disciplinare la condotta penalmente rilevante di un terzo. Sotto ogni aspetto il suicidio pare riconducibile all'esercizio di un diritto di libertà.

Tuttavia, a un più attento esame, questa tesi presenta significative difficoltà concettuali.

Fornero parla di diritto di "congedarsi", di "separarsi", di "accomiatarsi" volontariamente dalla propria vita. Egli rappresenta la morte come una soglia che il soggetto può e, qualora lo desideri, ha il diritto di oltrepassare, così assimilando la libertà di procurarsi la morte alla libertà di movimento.

Il punto è che nell'oltrepassare questa soglia la soggettività giuridica si estingue. Nella costruzione teorica del diritto di procurarsi la morte, invece, si presuppone, in maniera implicita e criticamente non avvertita, la permanenza oltre l'evento morte della soggettività del suo titolare.

Questa presupposizione costituisce una vera e propria contraddizione logico-giuridica. Una contraddizione che trova la propria spiegazione nel carattere specifico del bene della vita, il quale appartiene in maniera costitutiva al suo possessore.

La vita è un bene non trasferibile a terzi: è un bene inalienabile. In ragione di questa ontologica inalienabilità, il diritto alla vita è definito come personalissimo ed è riconosciuto, in misura e in modi differenti a seconda dei diversi ordinamenti positivi, come indisponibile.

Pertanto, pur costituendo l'interdizione ad uccidersi un limite alla libertà di agire, l'atto di uccidersi non può essere concepito come l'esercizio di un diritto soggettivo di libertà.

3. Sulla dignità della morte e il desiderio di una redenzione

Nonostante le critiche circa la consistenza logico-giuridica del diritto di procurarsi la morte, difficilmente può essere sottovalutata l'attrattiva esercitata dal riconoscimento del ruolo normativo della percezione soggettiva della propria dignità, specialmente in frangenti particolarmente dolorosi come quelli di una malattia mortale o invalidante.

È in questi frangenti che il potere di estinguere la propria vita si presenta come una soluzione desiderabile e umana. Umana perché rispettosa della propria dignità.

Nella teorizzazione del diritto di procurarsi la morte la dignità svolge una duplice funzione: da una parte è il riferimento in relazione al quale il soggetto misura, in modo assolutamente discrezionale, la tollerabilità della propria permanenza in vita; dall'altra è l'ideale che, in virtù del ruolo deliberativo della ragione, giustifica il diritto di scelta.

Si badi, però, che la ragione che viene qui in rilievo non è animata da criteri oggettivi e universalistici né è orientata alla determinazione di un "retto agire", com'è nella tradizione giusnaturalistica classica. È una ragione che coincide con la nozione di capacità di intendere e di volere e che è al servizio della sovranità del soggetto.

Il fondamento effettivo del presunto diritto di procurarsi la morte non è, infatti, un diritto soggettivo di libertà, ma è la sovranità individuale. Una sovranità che corrisponde con perfetta aderenza alla sovranità statale: un concetto teologico secolarizzato che significa assolutezza, assenza di vincoli, trascendimento del diritto.

In particolare nel concetto di sovranità individuale, così come declinato nel diritto di procurarsi la morte, il soggetto trascende il vincolo di incarnazione tra soggettività spirituale e corpo, vincolo che costituisce il fondamento ontologico del carattere inalienabile del bene della vita. Questo trascendimento, che è un'operazione mentale, è reso possibile dal fatto che il soggetto rappresenta la morte, per poterla pensare, nell'immagine spaziale di una soglia o di un confine oltre il quale egli si muove. Quindi come qualcosa di esterno da sé.

Tuttavia tale rappresentazione ha un valore esclusivamente metaforico. La dimensione ontologica della morte, la dimensione della sua effettiva "esistenza", non è quella atemporale dello spazio, ma è quella interiore del tempo e del suo ordine, che è un ordine di successione.

Ora, nel momento in cui il valore puramente metaforico di questa rappresentazione viene disconosciuto o comunque ignorato, l'estinzione della soggettività giuridica, nella rappresentazione spaziale del passaggio oltre la morte, non viene percepita perché non riesce ad essere rappresentata. Sotto questo aspetto, la persona sovrana si atteggia, di fatto, come una persona divina. Divina perché in grado di trascendere i vincoli logici della mortalità, dell'incarnazione tra anima e corpo e della giuridicità.

In ultima istanza, l'esigenza di percepire la propria dignità di fronte alla sofferenza e alla morte esprime l'umanissimo desiderio di redenzione della persona. La sovranità individuale nella determinazione temporale della propria morte pare rispondere a questo desiderio in maniera ragionevole e umana. La soluzione che essa propone è l'affidamento alla propria volontà.

Tuttavia, l'impossibilità di questa pretesa di autoredenzione di assumere una coerente forma giuridica non si riduce a una questione, in fondo accessoria, di qualificazione normativa. Essa è significativa dell'intima e tragica illusione cognitiva che la anima.

Antonio Caragliu







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