venerdì 31 gennaio 2020

La simonia dei vescovi tedeschi





La conferenza episcopale tedesca è quella più ricca del mondo grazie alla Kirchensteuer, una tassa che lo Stato devolve alla Chiesa, trattenendo dal reddito dei cattolici tedeschi, una cifra che ammonta all’8-9% del loro carico fiscale complessivo. Il prelievo fiscale però è obbligatorio, a differenza di altri paesi, dove le chiese sono finanziate dalla generosità dei fedeli che scelgono liberamente di versare ad esse una parte del loro reddito.





di Roberto de Mattei (29-01-2020)

«Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!»
: ha esclamato papa Francesco (L’Osservatore Romano, 17 marzo 2013). L’antitesi del suo ideale è rappresentata però proprio dalla chiesa a lui più vicina, quella tedesca. La Conferenza Episcopale tedesca, che ha sponsorizzato ideologicamente ed economicamente il recente Sinodo di ottobre sull’Amazzonia, è infatti l’azienda più ricca e privilegiata di tutta la Germania. Questa ricchezza deriva dalla Kirchensteuer, una tassa che lo Stato devolve alla Chiesa, trattenendo dal reddito dei cattolici tedeschi, una cifra che ammonta all’8-9% del loro carico fiscale complessivo. Il prelievo fiscale però è obbligatorio, a differenza di altri paesi, dove le chiese sono finanziate dalla generosità dei fedeli che scelgono liberamente di versare ad esse una parte del loro reddito.

In Germania, chi vuole essere esentato dalla Kirchensteuer deve firmare una dichiarazione di abbandono della Chiesa (Kirchenaustritt) che, come conseguenza, lo priva dei sacramenti. Il 20 settembre 2012, i vescovi tedeschi hanno decretato che quanti hanno chiesto di non essere più registrati per evitare di pagare la tassa ecclesiastica, non potranno più confessarsi, fare la comunione o la cresima e, al momento della morte, non potranno ricevere un funerale cattolico; non potranno nemmeno fare volontariato in un’associazione cattolica, né tanto meno lavorare in un’istituzione della Chiesa come una scuola o un ospedale. In un’intervista sulla Schwäbische Zeitung del 17 luglio 2016, l’arcivescovo Georg Gänswein, ha denunciato in questi termini tale clamorosa contraddizione: «Come reagisce la Chiesa cattolica in Germania con chi non paga la tassa per la Chiesa? Con l’automatica esclusione dalla comunità ecclesiale, il che significa: scomunica. Ciò è eccessivo, incomprensibile. Si possono mettere in dubbio i dogmi e nessuno viene cacciato fuori. Forse che il non pagamento della Kirchensteuer è un’infrazione più grave che non le trasgressioni contro le verità di fede? L’impressione è che, finché c’è in gioco la fede, non sia così tragico, quando però entra in gioco il denaro, allora non si scherza più». Se lo slogan dei coloni americani nel XVIII secolo era: «No taxation without representation», lo slogan dei vescovi tedeschi oggi è “No Sacraments without taxation”. Se paghi ricevi i sacramenti, se non paghi ne sei privato. La ricchezza della Chiesa tedesca è fondata, in una parola, sulla simonia.

La simonia è un peccato che ha accompagnato la storia della Chiesa nel corso dei secoli, associandosi spesso al cosiddetto “nicolaismo”, il concubinato dei preti. I primi sinodi di san Gregorio VII (1073-1085), il grande papa riformatore del Medioevo, furono proprio dedicati alla lotta contro i vescovi tedeschi simoniaci e trasgressori del celibato ecclesiastico. Una piaga molto più grave della vendita delle indulgenze che offrì il pretesto alla Rivoluzione di Lutero.

Il termine simonia deriva da Simon Mago del quale si legge che «offrì denaro agli apostoli» (At 8, 18) per acquistare un potere spirituale. San Tommaso d’Aquino, che dedica un’intera questione della Summa Theologica alla simonia (q. 100, II-II), spiega che simoniaci sono sia quelli che comprano, sia quelli che vendono le cose spirituali: «Quelli che vendono le cose spirituali assomigliano a Simon Mago nelle intenzioni, mentre quelli che le comprano gli assomigliano nelle azioni» (q. 100, a. 1). Secondo san Tommaso «ricevere il denaro per la grazia spirituale dei sacramenti è un peccato di simonia che non può essere giustificato da alcuna consuetudine: poiché “la consuetudine non può mai pregiudicare la legge naturale o divina”» (q. 100, art. 2, resp.). «Se quindi per consuetudine si esigesse qualcosa come compenso di un bene spirituale, con l’intenzione di comprare o di vendere, si commetterebbe simonia; specialmente poi se lo si esigesse contro la volontà del contribuente» (art. 2, ad 4). Essendo la Kirchensteuer estorta contro la volontà del contribuente, la dichiarazione di uscita dalla chiesa tedesca (Kirchenaustritt) sottoscritta da chi vuole evitare il pagamento, è priva di valore di fronte alla Chiesa. Il Pontificio Consiglio per i testi legislativi della Santa Sede, in un documento del 13 marzo 2006, ha spiegato che l’abbandono della Chiesa cattolica, perché possa essere validamente configurato come un vero actus formalis defectionis ab Ecclesia deve concretizzarsi nei seguenti elementi: «a) decisione interna di uscire dalla Chiesa cattolica; b) l’attuazione e manifestazione esterna di questa decisione; c) recezione diretta da parte dell’autorità ecclesiastica competente di tale decisione».

Ogni atto che non nasca da una motivazione interna, ma sia obbligato, non può essere considerato come una libera decisione interna di uscire dalla Chiesa cattolica ed è invalido. Inoltre, il parroco dovrebbe constatare se c’è veramente la volontà di abbandonare la Chiesa, il che mai avviene in Germania. Il cattolico tedesco che firma la Kirchenaustritt non deve dunque temere di essere scismatico, se non ha la reale intenzione di abbandonare la Chiesa, ma vuole solo separarsi dal perverso sistema finanziario che lo lega alla Conferenza Episcopale, oltretutto diretta da vescovi non solo simoniaci, ma anche eretici e scismatici. Il processo sinodale avviato in Germania dal cardinale Marx mira infatti a capovolgere la morale sessuale della Chiesa e a sovvertire la sua struttura gerarchica. È un processo di autodissoluzione, a cui i cattolici non possono in coscienza collaborare.

Molti cattolici tedeschi criticano la Kirchensteuer, ma affermano di non potere fare a meno di pagarla per non essere privati dei sacramenti. Ma con ciò si fanno complici della simonia dei vescovi. San Tommaso spiega, ad esempio, che «poiché non si deve peccare per nessun motivo, nel caso in cui il sacerdote non volesse battezzare gratuitamente si deve agire come se egli non ci fosse. Per cui in questo caso potrebbe battezzare il bambino o il suo tutore, o un’altra persona qualunque. (…) E se non potesse ricorrere ad altri, in nessun modo dovrebbe pagare per il battesimo, ma piuttosto morire senza battesimo: poiché la mancanza del sacramento sarebbe supplita dal battesimo di desiderio» (q. 100, art. 2, ad 1).

Ma sarà veramente impossibile in Germania e fuori di essa trovare sacerdoti e vescovi disposti ad amministrare i sacramenti agli obiettori di coscienza della Kirchensteueur? Non lo crediamo, anche perché nulla è impossibile a chi cerca prima di tutto il Regno di Dio e la sua Giustizia (Mt 6, 33). Lo scrittore francese Ernst Hello (1828-1885) afferma che la rinunzia è la parola del diavolo. «Dio non rinunzia mai. Il diavolo rinunzia sempre, anche quando pare che agisca. Egli è colui che rinunzia. L’uomo che rinunzia non può niente e impedisce tutti. L’uomo che non rinunzia solleva le montagne» (L’uomo, Edizioni Paoline, 1958, p. 287). Ciò che io oggi temo di più sono i cattolici rassegnati e rinunciatari. Chi sono i cattolici rinunciatari? Quelli che sono convinti che c’è una sproporzione di forze tra noi e i nostri avversari (il che è vero) e che non possiamo far altro che accettare la situazione de facto (il che non è vero). I cattolici rinunciatari criticano in privato la Kirchensteuer, ma pensano che sia inutile criticarla pubblicamente, perché tanto nulla cambierà.

Il 21 gennaio il cardinale Gerhard Müller, nella sua omelia per la festa di sant’Agnese, ha detto che «con il sangue della sua giovane vita, sant’Agnese ha testimoniato Cristo, Figlio di Dio e unico Salvatore del mondo. E così ella incoraggia anche noi qui a Roma e in Europa, a professare la nostra fede cattolica pubblicamente e senza aver paura degli uomini». In Germania chi critica pubblicamente la Conferenza episcopale tedesca e rifiuta conseguentemente di pagare la Kirchensteuer non rischia la morte, come sant’Agnese, ma rischia di essere privato dei sacramenti e soprattutto di essere socialmente censurato. È una dura prova certo, ma forse dovremmo prendere esempio da quei cattolici che in Inghilterra, ai tempi di Elisabetta I, o in Francia, sotto la Rivoluzione francese, furono privati dei sacramenti e perseguitati, ma rimasero fedeli alla fede cattolica. L’Europa secolarizzata ha bisogno di eroismo, non di rassegnazione.


(Fonte: CorrispondenzaRomana)









giovedì 30 gennaio 2020

LA VERGOGNA DELL’EUROPA, L’ASILO NEGATO AI CRISTIANI CINESI.




Marco Tosatti, 30-01-2020

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, abbiamo ricevuto un documento che testimonia di un fenomeno agghiacciante sulla persecuzione religiosa in Cina, e sulla sostanziale viltà dell’Europa nei confronti dei fedeli di una Chiesa cristiana che corrono il rischio, se rimpatriati di finire nei Laogai per molti anni, se non addirittura di essere messi a morte. Proprio nel momento in cui il nostro Paese riceve migliaia di migranti illegali e che non corrono alcun pericolo nei propri Paesi di origine. Buona lettura. 



§§§

La condizione della Chiesa di Dio Onnipotente in Cina


(Jacopo Zhang, cinese, membro della CDO e rifugiato in Italia)

Da quando il Partito Comunista Cinese (PCC) prese il potere nel 1949, tutte le religioni cristiane presenti in Cina sono state oggetto di soppressione indiscriminata e persecuzione da parte del PCC. Tutti i gruppi religiosi non ufficiali che non sono sotto il controllo statale vengono marchiati come “culti maligni”, un numero grandissimo di cristiani è stato arrestato, imprigionato, torturato e condannato ai lavori forzati.

Decine di migliaia di cristiani sono stati assassinati dal PCC. I fedeli cristiani non possono svolgere le normali attività religiose ma sono costretti a nascondersi per poter svolgere le funzioni religiose, con l’alto rischio di essere scoperti e arrestati. La politica interna del PCC consiste nella completa eliminazione ed estirpazione di tutte le religioni, facendo diventare la Cina una nazione atea.

La persecuzione delle religioni da parte del PCC ha raggiunto livelli altissimi: non è possibile parlare di Dio e diffondere il Vangelo in pubblico; sono previste delle ricompense in denaro per chi denuncia i predicatori; è stato istituito un massiccio controllo dei telefoni e degli spostamenti delle persone segnalate come credenti, le autostrade sono continuamente monitorate per individuare i ricercati.

I cristiani cinesi vivono sotto il dominio del PCC. Negli ultimi anni Il PCC ha ridotto lo spazio dedicato alle religioni, numerose chiese delle Tre Autonomie sono state demolite dalla polizia armata dal presidente Xi.

Le chiese delle Tre Autonomie sono bandite, così come altre chiese: è proprio un rigido inverno. Innumerevoli chiese locali sono perseguitate dal PCC con accuse assurde, numerosi cristiani non possono tornare nelle proprie case e soffrono la lontananza dalla famiglia a motivo della persecuzione.

Tra tutte le chiese locali, la condizione di quella di Dio Onnipotente è la più critica.

Nel 1995, il Ministero della Pubblica Sicurezza cinese ha pubblicato un documento nel quale la Chiesa di Dio Onnipotente e alcuni altri gruppi religiosi – come ad esempio: The Shouters sect (Huhanpai) e Born Again Movement – sono stati marchiati come culti malvagi e i loro fedeli sono stati arrestati e perseguitati.

Il 28 maggio 2014, per mettere definitivamente al bando la Chiesa di Dio Onnipotente, il PCC ha utilizzato uno stratagemma già visto in altre occasioni, attraverso il caso di un omicidio del 28 maggio al McDonald’s di Zhaoyuan. Ha riversato cioè la colpa dell’omicidio sulla Chiesa di Dio Onnipotente, usando questo pretesto come base per un’aspra repressione e per manipolare l’opinione pubblica. Lo stesso giorno il Ministro della Pubblica Sicurezza ha annunciato pubblicamente azioni di persecuzione speciale verso la Chiesa di Dio Onnipotente e le altre confessioni cristiane, dando il via a una brutale repressione.

Il 16 giugno 2014, il Cult-Busting Office del Central Committee del PCC ha tenuto una teleconferenza nazionale per dichiarare l’inizio di una misura di correzione speciale contro la Chiesa di Dio Onnipotente: la “One-Hundred-Day Campaign”.

Ciò ha fatto diventare la repressione di questa chiesa una questione politica urgente, inoltre sono stati stanziati 10 milioni di yuan come premio per i poliziotti che si distinguono nella repressione e per i cittadini comuni che forniscono informazioni utili per la ricerca dei fedeli. lnfine, il Partito Comunista Cinese ha tenuto una teleconferenza internazionale sulla necessità di tenere sotto controllo la Chiesa di Dio Onnipotente anche all’estero attraverso forze segrete che scovino i fedeli di questa religione in Corea del Sud, Hong Kong, Taiwan e in altri Paesi limitrofi.

Nell’agosto del 2014 il PCC ha dato effettivamente il via alla mobilizzazione su larga scala di polizia armata e forze regolari per arrestare i fedeli della Chiesa di Dio Onnipotente. Almeno 500.000 persone sono state arrestate e condannate, le loro case violate e le loro famiglie imprigionate, torturate, rese disabili o uccise.

Verso il giugno del 2015 l’ufficio 610 del PCC ha aperto un’inchiesta relativa ai membri della Chiesa di Dio Onnipotente che avevano lasciato il Paese dall’anno 1999, con lo scopo di prendere in mano la situazione in modo molto accurato. Tale inchiesta si è concentrata sulle attività lavorative portate avanti all’estero dai parenti dei fedeli.

Secondo statistiche incomplete, nei due anni tra il 2011 e il 2013 in Cina, il numero di fedeli della Chiesa di Dio Onnipotente arrestati illegalmente, detenuti o condannati dal Partito Comunista Cinese è stato di 380.380. Sono state perquisite 35.330 case e almeno 1 miliardo di yuan è la cifra riscossa dal PCC che comprende le multe ai singoli individui e i beni, mobili e immobili, sequestrati alla Chiesa. 43.640 persone sono state torturate e a causa di ciò sono rimaste disabili, 44 persone sono state uccise e molte sono scomparse.

In Cina la persecuzione religiosa raggiunge livelli gravissimi, numerosi fedeli della Chiesa di Dio Onnipotente sono fuggiti verso i paesi occidentali ma pochissimi ricevono asilo politico. Secondo Human Rights Without Frontiers, fino al primo dicembre 2017, oltre 1.600 membri della Chiesa di Dio Onnipotente hanno lasciato il loro paese per cercare un rifugio sicuro in Europa. Qui però sono stati minacciati di rimpatrio e, se questo avvenisse, una volta rientrati in patria sarebbero arrestati e mandati in prigione per anni.

Una volta rimpatriati, questi fedeli verranno imprigionati per tutta la vita, o addirittura messi a morte.

Il 21 giugno 2019 gli Stati Uniti hanno pubblicato il rapporto del Dipartimento sulla libertà religiosa internazionale per l’anno 2018, il quale riferisce che solo nel 2018 le autorità cinesi hanno arrestato 11.111 membri della Chiesa di Dio Onnipotente e sottoposto 525 fedeli a tortura o indottrinamento forzato.

Attualmente alcuni paesi hanno riconosciuto la persecuzione dei cristiani della Chiesa di Dio Onnipotente: Canada, Finlandia e Nuova Zelanda, dove i tassi di approvazione dell’asilo per i richiedenti membri della Chiesa di Dio Onnipotente sono rispettivamente del 90%, 95% e 100%.

Tuttavia, in alcuni paesi dell’UE le percentuali di approvazione sono molto basse. Finora, 780 domande di asilo sono state respinte e 156 persone hanno ricevuto ordine di rimpatrio. Quasi 900 casi sono ancora in attesa. La Francia ha ricevuto 412 domande e ne ha respinte 280, tra cui 103 ordini di rimpatrio. In Germania la maggior parte delle domande è stata respinta: 242 rigettati su 285 domande, ma nessuno ha ricevuto un ordine di rimpatrio in Spagna le 200 domande di asilo sono ancora in attesa. A partire da dicembre 2019, In Italia ci sono 846 richiedenti, ma solo il 19.9% ha ottenuto l’asilo, 430 richieste sono state respinte, 90 richiedenti hanno presentato ricorso alla cassazione.

L’avvocato per i diritti umani Carlos Iglesias ha detto: “Quando una persona presenta una domanda di rifugiato, e ha prove di persecuzione, è in pericolo di vita se ritorna in Cina sarà arrestato, torturato e ucciso. Non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che tali persone dovrebbero ricevere lo status di rifugiato e dobbiamo farlo! Quindi i Governi devono considerare un tale problema, il loro riconoscimento o rifiuto significa giocare con la vita di una persona. Non parliamo di una questione amministrativa, né si tratta dei diritti di uno Stato o di un altro, stiamo parlando di scommettere sulla vita di una persona che rischia la tortura e l’uccisione nel suo Paese”.

La persecuzione da parte del PCC è sempre più grave. Noi fedeli della Chiesa di Dio Onnipotente imploriamo l’attenzione della Comunità internazionale, e chiediamo ai Governi delle democrazie occidentali di schierarsi contro gli orribili fatti e le persecuzioni del PCC che ledono gravemente i diritti umani in Cina.











mercoledì 29 gennaio 2020

Rovigo, il canto gregoriano salvato dai ragazzi


Paolo Rumiz con la preside Maria Elisabetta Vigna
 e la prof Giorgia Bisio (Foto Donzelli)



Dal flash mob degli studenti in piazza parte un appello a Papa Francesco: "Ritorni nelle chiese questa espressione artistica"



di MARIO BOVENZI

Rovigo, 26 gennaio 2020 - «Scendemmo al mattutino. Quell’ultima parte della notte, quasi la prima del nuovo giorno imminente, era ancora nebbiosa... L’inizio del canto diede una grande impressione di potenza. Sulla prima sillaba si iniziò un coro lento e solenne di decine e decine di voci, il cui suono basso riempì le navate e aleggiò sopra le nostre teste, e tuttavia sembrava sorgere dal cuore della terra", sono parole del ‘Nome della rosa’ di Umberto Eco, parole che fanno capire in modo quanto mai efficace quale forza si sprigiona in quello che è il canto gregoriano.

Contro l’oblio di questa forma di espressione che arriva a toccare l’arte si sono mossi, ieri mattina, gli studenti della scuola media Francesco Venezze. Ed è quanto mai singolare che siano proprio i giovani a dare vita ad una mobilitazione per salvare il canto gregoriano e riportarlo all’antico splendore. In una mattina grigia e piovosa, che quasi sembrava rievocare l’atmosfera densa di timori del medioevo descritto dal ‘Nome della rosa’, in piazza Vittorio Emanuele II, davanti agli occhi incuriositi dei passanti, si è svolto il flash mob musicale degli allievi della scuola Venezze.


Al loro fianco il giornalista e scrittore Paolo Rumiz che con la professoressa Giorgia Bisio, vicaria del Venezze, ha lanciato questa singolare iniziativa. Il canto gregoriano è una della attività che viene portata avanti nella scuola media. E proprio guardando in un video l’esibizione degli alunni nell’abbazia di Praglia, lo scrittore ha avuto l’idea di promuovere questa manifestazione, quasi una prova d’amore per far tornare a vivere il gregoriano. Parte così proprio dalla nostra città, per approdare sul web ed in televisione grazie alle riprese che sono state fatte ieri, un messaggio rivolto a Papa Francesco.

"Il gregoriano ritorni nelle chiese, ritorni ad essere la musica che incanta le persone", l’appello lanciato dalle voci dei ragazzi che hanno eseguito una serie di brani. Tante la maestria e la passione degli studenti, ragazzi tra gli 11 e i 13 anni, che hanno messo in mostra la loro grande preparazione vocale, apice al quale sono arrivati grazie al loro professore Paolo Traversi, docente di musica della scuola.


Ogni volta che il canto terminava per fare spazio a qualche minuto di pausa nel silenzio della piazza, gli applausi degli spettatori – i cittadini sul listone e sotto i portici –, ai quali si sono uniti entusiasti Maria Elisabetta Vigna, dirigente scolastico dell’istituto comprensivo Rovigo 2 del quale fa parte la scuola media Venezze, e l’assessore Andrea Pavanello. Esibizioni, canti e voci sono stati ripresi dalle telecamere di una troupe televisiva guidata proprio da Rumiz, documento che sarà testimonianza della forza – una grande impressione di potenza, direbbe ancora Eco – del canto gregoriano. Attento e soddisfatto lo scrittore, che negli ultimi anni, pur con una visione laica, si è occupato di storia e cultura monastica .












martedì 28 gennaio 2020

Il nuovo Padre Nostro ufficiale dopo Pasqua. Dall’Avvento si dirà “non abbandonarci alla tentazione”.



Dall’Avvento si dirà “non abbandonarci alla tentazione”. Lo rivela monsignor Forte: dal 29 novembre in tutte le chiese italiane sarà recitato nella formula aggiornata.
Unica via di uscita è andare alla Messa Vetus Ordo!




DOMENICO AGASSO Jr - 28 Gennaio 2020


CITTÀ DEL VATICANO. Tra due mesi e mezzo la rinnovata traduzione della preghiera insegnata da Gesù ai Suoi discepoli sarà inserita nel Messale. E il 29 novembre, prima domenica di Avvento, in tutte le messe in tutte le chiese italiane si reciterà la nuova formulazione del Padre Nostro.

Sono i tempi per l’aggiornamento ufficiale dell’invocazione universalmente più conosciuta e più recitata dai cristiani di tutto il mondo. Preghiera che la Conferenza episcopale italiana (Cei) - anche su sollecitazione di papa Francesco in diverse catechesi - ha deciso di cambiare, nel punto in cui i fedeli finora invocano Dio a «non indurci in tentazione», per la formula ritenuta più corretta «non abbandonarci alla tentazione». Scelta che ha prevalso su altre due: «Non lasciarci in tentazione» e «non abbandonarci nella tentazione».

Le tempistiche le rivela (all’AdnKronos) monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto e teologo fra i più influenti in Vaticano, a margine del Forum internazionale di Teologia in corso alla Pontificia Università Lateranense. Il Messale «con la nuova versione del Padre Nostro uscirà subito dopo Pasqua», ha affermato il Prelato. Pasqua quest'anno cade il 12 aprile. Mentre «l’uso liturgico della preghiera modificata sarà introdotto a partire dalle messe del 29 novembre prima domenica di Avvento».











lunedì 27 gennaio 2020

Usare il “Medioevo” come insulto è segno di ignoranza storica e culturale






Uno dei misteri più grandi, lo dico senza ironia, è stata la fuorviante trasformazione del termine “medievale” in aggettivo – cito il Dizionario Treccani – riferito a «concezioni e principî superati e retrogradi». Pare che dietro tutto questo vi sia lo zampino illuminista, ma vale la pena vederci chiaro.

Anche perché, voglio dire: il vituperato Medioevo ci ha regalato arte, cattedrali, monasteri e cultura ancora oggi (anche economicamente, si pensi al turismo) fruttano patrimoni: non so se invece fra alcuni anni – ne dubito – qualcuno vorrà andare a farsi qualche giro, non solo se pagante ma neppure se pagato, in molti aborti firmati dalle nostre archistar; ma quanto scommettiamo che per quanto l’epoca medievale ha lasciato vi sarà ancora interesse? Chi vivrà, vedrà: e sono certo che vedrà.

La stessa terrificante Inquisizione medievale, invocata come la vergogna della storia, tutto fu fuorché tale: lo sanno anche i sassi che l’apice delle caccia alle streghe si registrò durante il Rinascimento e comunque nelle regioni germaniche protestanti più che in quelle cattoliche. Inoltre tutto fu, il Medioevo, fuorché ostile alla donna: i nomi di Matilde di Canossa, Eleonora d’Aquitania, Bianca di Castiglia o Ildegarda di Bingen dicono nulla? Altro che la Merkel o la Boldrini o Hillary Clinton. Senza parlare delle cinture di castità, bufala totale: perfino al Museo d’arte medievale di Cluny a Parigi, per dire, fino a non moltissimi anni fa se ne poteva ammirare una che si credeva appartenuta alla regina di Francia Caterina de’ Medici: peccato che fosse una patacca.

Curiosa pure l’idea che esser medievali sia sinonimo di essere «retrogradi»: storici come Jean Gimpel (1918–1996) hanno parlato, per quell’epoca, d’una vera e propria rivoluzione industriale. Le stesse invenzioni non mancarono; pensiamo all’aratro meccanico, alla ferratura dei cavalli, al verricello, alla carrucola, alle staffe lunghe, all’arco rampante, alla volta a crociera, all’aggiogatura a spalla, al sapone, alla vite elicoidale, al bottone, al martinetto, allo specchio, agli occhiali, al prosciutto, allo champagne, al parmigiano e tanto altro. Quanto alla leggenda della terra creduta piatta, nel Medioevo circolava ampiamente – in latino – il Timeo di Platone, dove si parla di un «mondo in forma di globo, tondo come fatto da un tornio, con i suoi estremi in ogni direzione equidistanti dal centro, la più perfetta e la più simile a se stesso di tutte le figure…».

Strano davvero, insomma, che il vituperato Medioevo fosse un’epoca così barbara e ignorante. Così barbara e ignorante, fra l’altro, da aver donato all’umanità gente come san Francesco d’Assisi – uno dei più significativi santi di tutti i tempi -, come san Tommaso d’Aquino – uno, se non il teologo più grande di tutti i tempi – e come Dante Alighieri, la cui Divina Commedia è un’opera talmente straordinaria che rivela un’intelligenza – dicevano intellettuali quali Federico Zeri (1921–1998) – incredibile, mostruosa, tale da fare quasi escludere che il Divin Poeta fosse un essere umano. L’era delle «concezioni e principî superati e retrogradi» è stata inoltre – alla faccia del suo presunto degrado – quella dei Comuni, delle libertà municipali, della Magna Charta.

Fa sorridere pure il collegamento fra il Medievo e l’odio contro le persone omosessuali: su Wikipedia, tempio della cultura 2.0, da un lato si ammette che nell’Alto Medioevo l’omosessualità era trattata come peccati come l’adulterio ed i rapporti prematrimoniali, dall’altro si dice che nel Basso Medioevo scattarono persecuzioni della quali, guarda caso, mancano però le fonti. In ogni caso, a proposito di omofobia, si fa bene a ricordare che ad incarcerare Oscar Wilde non furono né i medioevali e neppure i cattolici, bensì l’Inghilterra vittoriana. E potremmo continuare se il mistero di “medievale” come insulto non fosse già abbastanza fitto e ingiustificato. La sola vera colpa del Medioevo, in realtà, è una: essere stato cristiano. Profondamente cristiano. E questa proprio non gliela si può perdonare.

Giuliano Guzzo









domenica 26 gennaio 2020

C’era una volta il peccato



Ecco il testo dell'intervento di Aldo Maria Valli su radioromalibera per la rubrica La trave e la pagliuzza. Lo potete ascoltare qui.
Nel momento in cui mettiamo da parte Dio, perdiamo automaticamente il senso del peccato. Ora, che questa operazione sia portata avanti dal mondo è comprensibile. Ma che sia portata avanti dalla Chiesa è aberrante.




Aldo Maria Valli, 22-01-2020

Avrete notato, cari amici, che i pastori della Chiesa cattolica parlano sempre meno del peccato. La parola stessa è diventata quasi impronunciabile e si preferisce usare il termine “fragilità”.

Mi sembra che dietro questa sostituzione ci sia un progetto: sostituire l’uomo a Dio, fare dell’uomo il dio di se stesso.

Nel momento in cui mettiamo da parte Dio, perdiamo automaticamente il senso del peccato. Ora, che questa operazione sia portata avanti dal mondo è comprensibile. Ma che sia portata avanti dalla Chiesa è aberrante.

L’uomo senza Dio, e senza peccato, vive nel soggettivismo e nel relativismo. Lo può fare, perché è libero. Ma la Chiesa ha il dovere di dire che tutto ciò non è cattolico. Invece molti uomini di Chiesa, da parecchi anni, si sono avviati proprio sulla strada di soggettivismo e relativismo. E per fare ciò hanno dovuto eliminare quell’ingombro insormontabile che è il peccato.

L’uso della parola “fragilità” al posto della parola “peccato” denota la mancanza della relazione con Dio. Sono fragile a causa dei miei limiti intrinseci, a causa eventualmente di qualche esperienza sbagliata, ma me la vedo da me. Tutto si risolve nella sfera del proprio io. Non ho bisogno di alcun Dio con il quale confrontarmi. Di alcun Dio al quale chiedere perdono. Oppure me la vedo con un mio Dio che comunque, essendo fatto a mia immagine e somiglianza, certamente mi comprende, mi giustifica e mi perdona.

Ovviamente il peccato può essere favorito dalle nostre eventuali e svariate fragilità, ma eliminare il peccato e mettere al suo posto la fragilità è devastante dal punto di vista cattolico, perché porta all’eliminazione della stessa grazia. Se non c’è il peccato, non c’è bisogno della grazia. Il Catechismo della Chiesa cattolica (n. 1848) ricorda le parole assai significative di san Paolo: “Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia” (Rm 5,20). La grazia per compiere la sua opera deve svelare il peccato, ma se noi aboliamo l’idea di peccato rendiamo la grazia inutile, superflua.

C’è una preghiera bellissima, e molto cattolica, che la Chiesa ci chiede di recitare quando ci confessiamo. È l’Atto di dolore:

“Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato i tuoi castighi, e molto più perché ho offeso Te, infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa. Propongo col tuo santo aiuto di non offenderti mai più e di fuggire le occasioni prossime di peccato. Signore, Misericordia, perdonami”.

Ebbene, c’è un sedicente “teologo” cattolico (virgolette obbligatorie) il quale, davanti alle telecamere della tv dei vescovi italiani, ha definito l’Atto di dolore una “tremenda preghiera”, “una preghiera che non ha nulla di cristiano perché Dio non si può offendere e poi Dio non castiga, perché Gesù è venuto a rivelarci un altro tipo di Dio, di Padre”.

Capite qual è la situazione? Questa è la “teologia cattolica” che va per la maggiore e viene divulgata dai mass media ufficialmente cattolici!

Io sintetizzerei così: parla di “peccato” chi vede la fede come relazione vincolante dell’uomo con Dio; preferisce invece il termine “fragilità” chi si concentra sull’uomo e ignora Dio o lo lascia sullo sfondo e considera la sua legge un vago punto di riferimento al quale ci si può attenere o anche non attenere, perché tutto dipende, appunto, dall’uomo e dal suo sentimento.

Questo secondo modo di concepire il rapporto con Dio e la sua legge mi sembra evidente in Amoris laetitia. Rispetto alla questione della comunione ai divorziati risposati, Amoris laetitia più che sul contenuto della legge divina insiste sulle attenuanti umane. Ora, noi sappiamo bene che nella valutazione morale le attenuanti, anche per la dottrina cattolica, vanno tenute in considerazione. Ma i fattori attenuanti non possono diventare la chiave interpretativa per risolvere il problema dell’ammissione ai sacramenti.

In questo modo il sacramento è offerto al ribasso, come vaga consolazione, come se si ritenesse che la creatura è costitutivamente incapace di una risposta di fede seria e impegnativa.

Non a caso il titolo del famigerato capitolo ottavo di Amoris laetitia è Accompagnare, discernere e integrare la fragilità. E il documento a un certo punto, proprio perché puntato sulle attenuanti, arriva a sostenere che Dio stesso può permettere all’uomo di vivere in stato di peccato. Un’affermazione che ha condotto il filosofo Josef Seifert a paragonare l’esortazione apostolica a una bomba atomica posta sotto la dottrina e la morale cattolica.

Noi sappiamo che Dio è paziente, non permissivo. Dio sa aspettare, ma non scambia il bene con il male. Dio sa che siamo peccatori, ma proprio per questo ci prende per mano per condurci fuori dal peccato, non per giustificare la situazione di peccato!

Gli esponenti della Chiesa che puntano sulle attenuanti e preferiscono parlare di “fragilità” glissando sul peccato dimostrano inoltre di avere una bassa considerazione della creatura umana. Comportandosi come quegli insegnanti che, pensando di non poter cavar fuori più di tanto dagli alunni, non li spingono a dare il meglio e giustificano tutti i loro errori e le loro mancanze, questi presunti uomini di fede dimostrano di non credere alla santità come obiettivo di ogni battezzato.

Noto inoltre che puntare sull’idea di fragilità accentua moltissimo la visione emotiva dell’esperienza di fede, a danno della visione razionale.

Credo che, al fondo, dietro l’abolizione del peccato ci sia la mancanza di fede. La sostituzione dell’idea di peccato con quella di fragilità viene operata non solo in ossequio a un certo politically correct e nel tentativo di non apparire troppo aggressivi. La ragione profonda è che non si crede in Dio.

Chi esautora l’idea di peccato dimostra di non credere in Dio in un duplice senso: non crede nell’ordine divino e nella cogenza della legge divina, ma non crede neppure nell’aiuto che Dio certamente offre di fronte alla caduta nel peccato.

Abbiamo detto come ci sia una preoccupante eclisse del peccato. Ma occorre aggiungere che non basta parlare di peccato in modo generico. Il grande assente, nella predicazione attuale, è in particolare il peccato originale, come si è visto durante il sinodo sull’Amazzonia, con un papa, Francesco, che pare credere non al Catechismo della Chiesa cattolica, ma al pensiero di Rousseau, secondo il quale l’uomo nasce innocente e si corrompe vivendo nella società.

L’idea di peccato, quale rottura del legame e del patto con Dio, porta con sé l’idea di penitenza, ma anche “penitenza” è parola che è stata espunta dal vocabolario cattolico. Nel momento in cui la questione del peccato è sostituita da quella della fragilità, la quale, come abbiamo sottolineato, si gioca tutta all’interno dell’individuo, senza che ci sia bisogno di prendere in considerazione il rapporto con l’ordine divino, anche il concetto di penitenza diviene inutile e anzi è bene evitare di farvi ricorso. Eppure sappiamo che non può esserci esperienza autenticamente cristiana senza penitenza. Non perché il cristianesimo sia la religione degli autolesionisti, di coloro che amano soffrire, ma perché essere cristiani presuppone la conversione del cuore, e la conversione implica la penitenza, perché è necessario un distacco dalle cose del mondo per legarsi invece alle cose di lassù.

Vorrei anche sottolineare che mentre la fragilità è una condizione rispetto alla quale la persona deve riconciliarsi con se stessa (da cui espressioni come “recuperare il proprio equilibrio”, “ritrovare se stessi”), il peccato porta con sé l’idea che la riconciliazione, nel senso più profondo, è un dono di Dio.

Quando un’idea perde potenza, diceva Chesterton, c’è subito un’altra idea pronta a sostituirla e a diventare fin troppo potente. Con la fragilità che sta oscurando il peccato lo vediamo molto bene. Lungi da essere sinonimi, i due vocaboli sono espressioni di due visioni completamente diverse e, direi, non componibili. E, come spesso succede con le questioni di fede, occorre scegliere da che parte stare.

Aldo Maria Valli (22-01-2020)

(fonte: RadioRomaLibera.org)














sabato 25 gennaio 2020

Asia Bibi: «Temevo che non mi sarei più risvegliata dal mio orribile incubo»





La prossima settimana in Francia esce “Enfin libre!”, il primo libro scritto da Asia Bibi, la donna cattolica che ha passato oltre nove anni in carcere per false accuse di blasfemia. Ne riportiamo alcuni estratti, pubblicati in anteprima dal Figaro





Rodolfo Casadei, 25 gennaio 2020 - Tempi Esteri

È il primo libro che Asia Bibi scrive da donna libera dopo i nove anni trascorsi nelle carceri pakistane a causa dei processi per blasfemia che le sono stati intentati e che l’hanno fatta conoscere in tutto il mondo, e allo stesso modo del primo (Blasfema – Condannata morte per un sorso d’acqua, Mondadori 2011) vede come co-autrice Anne-Isabelle Tollet, la giornalista francese che tanto si è battuta per lei negli anni della prigionia. Il libro uscirà fra una settimana in Francia col titolo Enfin libre!, e ne sono stati anticipati estratti dal quotidiano Le Figaro.


«TUTTI IN PAKISTAN TEMONO GLI ISLAMISTI»

«Prima di essere gettata in prigione», leggiamo negli estratti anticipati da Le Figaro, «non conoscevo nulla fuori dal mio villaggio. Nel mio mondo i cristiani vanno raramente a scuola, e poiché sono cresciuta in campagna, non vedevo nient’altro che i campi e i miei vicini musulmani che lavoravano la terra. Non sono istruita, ma ho presto compreso che loro non sono più informati di me. Loro conoscono il Corano, e io la Bibbia. Per me gli estremisti islamici sono cattivi, ma non in particolare coi cristiani. Spaventano anche i musulmani, che devono comportarsi come dice il Corano fin nei dettagli. Gli islamisti non sono rappresentativi, d’altra parte non se ne incontrano tanti, ma essi impongono la loro volontà al parlamento, la loro influenza è terribile perché tutti li temono, anche i ministri e il presidente. Tutti si sentono impotenti davanti a loro, perché non esitano a mettere bombe o ad allearsi coi talebani per uccidere e uccidersi in nome di Allah. D’altra parte i giudici del tribunale di Nankana e dell’Alta Corte di Lahore hanno dovuto avere paura, per arrivare a condannarmi a morte».


«SHAROON, UCCISO A SCUOLA PERCHÉ CRISTIANO»

«Non sono potuta andare a scuola perché la mia famiglia era troppo povera. Ci sono molte buone scuola cristiane, ma sono troppo care per noi, e spesso a studiarci ci vanno i musulmani! Una situazione assurda… Ma io ci tenevo che i miei figli sapessero leggere e scrivere e che trovassero un buon lavoro (…). Un giorno la mia Sidra, che è molto sensibile, è tornata a casa sconvolta. Nella scuola maschile a fianco della sua Sharoon, un ragazzo cristiano di 15 anni, che un gruppo maltrattava da mesi, è stato massacrato a pugni e calci. L’hanno colpito talmente forte che è morto. E la polizia si è rifiutata di ammettere che si trattava di un crimine d’odio religioso. Erano invidiosi di Sharoon perché era un ottimo studente ed è per questo che l’hanno trattato con violenza. Tutti gli adulti hanno chiuso gli occhi e Sidra non poteva smettere di piangere. L’ho consolata stringendola forte fra le mie braccia. I fratelli di Sharoon si sono talmente spaventati che, temendo di fare la stessa fine, non sono più voluti tornare a scuola. È veramente ingiusto. La vita per noi cristiani già non è facile, perché anche i ragazzi devono essere cattivi fra di loro a scuola? Sono tutti lì per apprendere le stesse lezioni, ma i libri che studiano dicono cose insultanti sui cristiani e sulle altre minoranze. Un giorno Sidra mi ha letto un testo che spiegava che noi eravamo inferiori, che non bisognava fidarsi di noi e bisognava trattarci da nemici. Anche nei libri di scienza raccontano delle menzogne. Gli allievi cristiani, che siano bravi oppure no, perdono punteggio rispetto agli allievi musulmani per il solo fatto che non sono in grado di recitare a memoria il Corano».


«QUANTE FALSE ACCUSE DI BLASFEMIA»

«Sia i cristiani che i musulmani vivono nella paura che qualche malintenzionato li accusi falsamente. È quello che è successo a me. Mi hanno precipitato in un orribile incubo che è durato dieci anni. Ho creduto che non mi sarei più risvegliata! È successo anche ad altri, come a Shakil, una donna del villaggio confinante col mio, e a suo figlio Masih che aveva solo 9 anni. I suoi vicini musulmani non sopportavano che il piccolo Masih giocasse coi loro figli, perché era cristiano. Allora l’hanno accusato di aver bruciato una copia del Corano. La polizia è venuta ad arrestarli tutti e due, senza nemmeno preoccuparsi di verificare se l’accusa era fondata. Sono stati brutalizzati e hanno rischiato la pena di morte: un bambino di 9 anni! È la stessa età del mio Eisham, questo mi ha gelato il cuore al solo pensiero. Sono diventati tutti pazzi! Per fortuna in Pakistan ci sono anche persone che ci difendono. Creano associazioni per proteggere gli innocenti dalle ingiustizie. Hanno causato talmente scandalo e chiasso presso la polizia, nelle strade e dappertutto, che Masih e sua madre sono stati rilasciati. Ma erano pronti ad assassinare un bambino di 9 anni, perché giocava insieme ai bambini musulmani!».


«ASMA, BRUCIATA VIVA DA UN MUSULMANO»

«Nel mio paese le giovani cristiane sono spesso rapite, trattenute con la forza e anche violentate, a volte da più uomini. Vengono convertite forzatamente all’islam, e le si sposa senza chiedere il loro parere. Restano spezzate per il resto della loro vita, almeno quando riescono a cavarsela, perché succede anche che le sfigurino con l’acido o che le uccidano se osano resistere. È il dramma capitato a Yaqoob, un cristiano della nostra comunità. (…) Asma, sua figlia di 25 anni che era dolce e bella come una giornata di sole, lavorava come domestica presso una famiglia musulmana. Tutto andava bene per lei, la famiglia la trattava piuttosto bene. Ma un certo Gujjar, un musulmano, aveva deciso che voleva sposarla senza chiedere il suo parere. Asma non ne aveva alcuna voglia e non voleva convertirsi all’islam. Ha resistito per molte settimane, ha rifiutato le sue proposte, e questo ha reso l’uomo folle di rabbia. Zaman, il datore di lavoro di Asma, un uomo buono, l’ha sostenuta e protetta, ma questo non è bastato. Un giorno Asma è andata ad aprire alla porta perché qualcuno aveva bussato, e Yaqoob l’ha sentita gridare di dolore. Si è precipitato e ha visto Gujjar, con l’espressione del volto deformata dall’odio e dalla collera, che osservava Asma divorata dalle fiamme. L’aveva bruciata viva solo perché non voleva sposarlo. In che mondo viviamo?».


@RodolfoCasadei

Foto François Thomas/Editions du Rocher











venerdì 24 gennaio 2020

La continenza sacerdotale e le sue origini apostoliche. Contro l’attacco al celibato




Aldo Maria Valli, 24-01-2020

Cari amici di Duc in altum, in questi giorni in cui, a seguito della vicenda del libro del cardinale Sarah e di Joseph Ratzinger, la questione del celibato sacerdotale è tornata al centro di analisi e commenti, sono lieto di proporvi un saggio del professor Silvio Brachetta nel quale la questione è presa in esame in base agli studi del cardinale Alfons Maria Stickler, che al celibato sacerdotale dedicò un’analisi chiara e profonda.

Dalle riflessioni del cardinale austriaco, ben sintetizzate da Silvio Brachetta, emerge ciò che anche Benedetto XVI sostiene nel libro Dal profondo del nostro cuore, ovvero che celibato e castità non sono elementi accidentali del sacerdozio cattolico, ma essenziali, e non è vero che rispondono solo a una prassi tardiva della Chiesa, perché l’obbligo della continenza nasce subito, fin dalla predicazione di Gesù.

Importante è anche l’annotazione che mentre in tempi di viva fede «il Cristo-Sacerdote costituisce nella coscienza di tutti il centro vivo della vita di fede», in tempi di «decadenza del senso di fede la figura di Cristo-Sacerdote svanisce e scompare». E viene puntualmente messa sotto attacco, come abbiamo visto nel sinodo amazzonico.

A.M.V.

***



Il cardinale Stickler e il celibato sacerdotale


Tra i molti autori che hanno dimostrato l’esistenza della vocazione teologica alla continenza da parte dei sacerdoti, emerge per chiarezza un lavoro del cardinale Alfons Maria Stickler (1910-2007)[1], redatto quasi trent’anni fa per dimostrare un assunto: non è vero che il celibato sacerdotale e la relativa continenza è una prassi tardiva della Chiesa e non è vero che nella Chiesa primitiva ai sacerdoti era consentito di continuare a usare del matrimonio.

È vero – scrive Stickler – che fino al Rinascimento vi erano in abbondanza chierici ancora sposati prima di ricevere l’ordine sacro. Ed è anche probabile che gli stessi apostoli fossero sposati, seppure la certezza si abbia per il solo san Pietro. Non è, dunque, messa in discussione la consuetudine, per tutto il primo millennio e oltre, di ordinare al sacerdozio anche uomini sposati, in percentuale non irrisoria. Ma da qua si cade facilmente nell’equivoco, perché l’obbligo al celibato – che «sin dall’inizio veniva giustamente chiamato “continenza”» – compare da subito, nell’insegnamento stesso di Gesù Cristo, il quale si rivolge agli apostoli e dice loro: «In verità io vi dico, non vi è nessuno che abbia abbandonato casa, genitori, fratelli, moglie, figli per il regno di Dio, che non riceva molto di più…»[2].

Che gli apostoli fossero sposati o meno, il Signore qui parla proprio di abbandono della moglie (e di relativa accettazione della continenza). Anche nell’ipotesi che fossero sposati, va attentamente considerata la domanda di san Pietro, che provoca la risposta di Gesù: «Noi abbiamo lasciato i nostri beni e ti abbiamo seguito»[3]. Gli apostoli, allora, avevano già lasciato tutto, prima di seguire il Maestro, comprese le mogli e il matrimonio, che è certamente un bene[4].

Non si è mai trattato, evidentemente, di un abbandono forzoso, perché la sola possibilità, per un uomo sposato, di accedere all’ordine sacro (a meno di voler commettere qualcosa di fortemente illecito e anticristiano) fu di avere il consenso della moglie, senza ripudiarla. Come, allora, il cardinale giustifica il fatto storico che leggi scritte in favore della continenza ecclesiastica appaiono soltanto nel corso del IV secolo dell’era cristiana e non prima? Perché – osserva – c’è una differenza «tra diritto e legge, ius e lex»: mentre la legge è sempre scritta, il diritto può ben essere trasmesso anche oralmente. E così avvenne nel caso in questione. Lo provano i testi stessi della legislazione postuma (conciliare, sinodale, pontificia o imperiale), che giustifica obblighi e divieti per mezzo di una tradizione orale di origine apostolica.

Lo prova san Paolo, che esorta a stare saldi nelle tradizioni «imparate sia a viva voce, sia per la nostra lettera»[5]. E lo prova anche la prassi pagana: il diritto romano (ius) attese secoli prima di diventare la legge scritta sulle Dodici Tavole (lex). Non deve, quindi, stupire se nel mondo antico e pre-medievale anche il diritto tramandato oralmente aveva forza obbligante, al pari della legge scritta. Non va, inoltre, dimenticata la condizione di estrema precarietà persecutoria del cristianesimo nei primi tre secoli della sua esistenza, che impediva la tranquillità necessaria per sviluppare una canonistica giuridica scritta, sia pure in embrione.

Una prima dichiarazione redatta a favore della continenza, citata da Stickler, appare dunque nel IV secolo, al Concilio di Elvira[6]. Il canone 33 è esplicito: «Si è d’accordo sul divieto completo che vale per i vescovi, sacerdoti e diaconi, ossia per tutti i chierici che sono impegnati al servizio dell’altare, che devono astenersi dalle loro mogli e non generare figli; chi ha fatto questo deve essere escluso dallo stato clericale». Si noti che, fin da subito, all’obbligo segue sempre la sanzione comminata al colpevole. Erano ammesse alla convivenza (can. 27) solo sorelle, madri o figlie.

Questa severità era giustificata dal fatto che «molti, se non la maggior parte, dei chierici maggiori della Chiesa spagnola di allora erano viri probati», cioè «uomini sposati prima della loro ordinazione a diaconi, sacerdoti, vescovi». Come si può notare, la questione dei viri probati non è una novità odierna, ma è da sempre esistita. La differenza, quanto alla soluzione che si vorrebbe dare oggi, è che nel IV secolo i chierici spagnoli «erano obbligati […] ad una completa rinuncia di ogni ulteriore uso del matrimonio», osservando una «completa continenza».

Ma la cosa importante da chiarire è che i padri di Elvira non si sono inventati una norma frutto di un arbitrio. Al contrario si trattò di una «reazione contro una non-osservanza […] largamente invalsa di un obbligo tradizionale ben noto», in Spagna come in tutto l’orbe cattolico.

Stessa situazione in Africa: molti dei chierici, se non la maggioranza, erano sposati. E identico fu il responso dei padri al Concilio Africano del 390[7], quando si espressero per la conservazione della castità. Identica, ancora, la giustificazione del responso: «Affinché così anche noi custodiamo ciò che hanno insegnato gli apostoli». Da notare che a Cartagine era presente anche il legato pontificio Faustino, che espresse la «piena concordanza di Roma sulla questione».

Non si trovano invece pronunciamenti di rilievo negli otto Concili ecumenici del primo millennio, a cominciare da Nicea, poiché le correnti ereticali negavano le verità di fede cristologiche, trinitarie e soteriologiche. Tutto, o quasi tutto, il dibattito verteva perciò su questi temi e sulla difesa della dottrina ortodossa.

Tra i pontefici romani, i più espliciti sulla continenza furono Siricio (IV sec.) e Innocenzo I (V sec.). Nella sua lettera ai vescovi africani – scrive Stickler – Siricio insegna che «i molti sacerdoti e diaconi che anche dopo l’ordinazione generano dei bambini, agiscono contro una legge irrinunciabile che lega i chierici maggiori dall’inizio della Chiesa». Non c’è, dunque, l’imposizione di una propria scelta, ma il consueto riferimento alla «legge irrinunciabile», risalente «all’inizio della Chiesa». In realtà Siricio poneva la propria autorità sulle decisioni di un precedente Sinodo romano[8], in cui venivano interpretate le seguenti parole di san Paolo: «Ma bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta, ecc…»[9]. I padri sinodali, uniti al magistero di Siricio, sostennero che l’Apostolo non intendeva dire che il vescovo potesse «continuare a vivere nella concupiscenza di generare figli», ma che un matrimonio dovesse bastare, in vista «della continenza futura».

Papa Innocenzo I si occupò ampiamente della questione. Alla terza di una serie di domande rivoltegli dall’episcopato della Gallia, Innocenzo I rispose che vescovi, sacerdoti e diaconi «vengono costretti non solo da noi, ma dalle scritture divine alla castità»[10]. Seguono le consuete sanzioni contro gli inadempienti.

Si espresse, nel merito, anche papa Leone Magno, il quale ribadì la legge della continenza e, quanto ai chierici sposati, riferì di una prassi ecclesiastica ortodossa: «Affinché il matrimonio carnale diventasse un matrimonio spirituale è necessario che le spose di prima non già si mandassero via, ma che si avessero come se [i mariti, ndr] non le avessero, affinché così rimanesse salvo l’amore coniugale ma cessasse, allo stesso tempo, anche l’uso del matrimonio»[11].

Risulta, quindi, abbastanza chiaro che in tutta la Chiesa d’Occidente (Europa e alcune zone dell’Africa) «l’unità di fede era e rimaneva sempre viva», grazie soprattutto ai sinodi e concili, confermati dai pontefici.

A tutto questo si deve aggiungere, ancora, l’autorità dei quattro maggiori Padri della Chiesa occidentali, tutti concordi sulla continenza dei chierici.

Sant’Ambrogio ammette che l’obbligo della continenza è spesso disatteso, ma conferma l’ortodossia della tradizione e spiega che i sacerdoti del Vecchio Testamento non erano tenuti alla continenza perpetua, perché il loro ministero non era «santo, costante e continuo» quanto quello, invece, dei sacerdoti neotestamentari[12].

San Girolamo, il più erudito circa la tradizione, insegna che anche gli apostoli erano «o vergini, o continenti dopo il matrimonio» e che i «presbiteri, vescovi e diaconi erano eletti tra i vergini, oppure vedovi, o di certo continenti in eterno dopo l’ordinazione sacerdotale»[13].

Meno esplicito Gregorio Magno, che tuttavia impedì con provvedimenti disciplinari la convivenza tra chierici e rispettive consorti. Sant’Agostino non solo partecipò ai concili africani (di Cartagine), ma si espresse più volte a favore della continenza.

Nel Medioevo – continua il cardinale – si cercò di ridurre il numero dei candidati coniugati a favore dei vergini o dei celibi: vi è traccia di disposizioni a riguardo specialmente nell’ambito dell’Europa insulare (Irlanda e Britannia). Fino all’anno Mille, comunque, la Chiesa conobbe un decadimento generale della fede e dei costumi. Si diffuse a dismisura il sistema beneficiale ecclesiastico, con il conseguente incancrenirsi di due grandi mali: la simonia (compravendita degli uffici) e il nicolaismo (violazione del celibato ecclesiastico).

Dal disordine susseguente scaturì la riforma di papa Gregorio VII (Riforma gregoriana), che promosse, tra l’altro, una più oculata scelta dei candidati. Queste iniziative furono ufficializzate durante il secondo Concilio Lateranense (1139), che s’impose come spartiacque nella storia e che ribadì la disciplina apostolica, inasprendo le pene per i colpevoli. Da qui sorse il grande equivoco secondo il quale «il celibato ecclesiastico è stato introdotto solo al Concilio Lateranense II».

Molto importante, per la formazione della canonistica giuridica medievale (Corpus iuris canonici) non solo il Decreto di Graziano[14], ma anche il commento successivo che ne dette Uguccio di Pisa[15]. Uguccio, nella sezione dedicata all’argomento, tratta specialmente della «continentia clericorum, quella cioè che essi devono osservare in non contrahendo matrimonio et in non utendo contracto». Si riconferma, dunque, per tutto il primo millennio, «un duplice obbligo» per i chierici: «di non sposarsi e di non usare più un matrimonio precedentemente contratto».

In genere, quasi tutti i canonisti medievali concordano sull’origine apostolica della continenza ecclesiastica, anche se la noncuranza nella scelta delle fonti causò alcuni fraintendimenti; infatti la critica delle fonti sorse solo durante il Rinascimento.

Una prova ulteriore della validità della continenza giunse, paradossalmente, proprio nel momento della sua negazione, da parte del Protestantesimo: alla predicazione di Lutero, Calvino o Zwingli seguì a ruota l’abbandono del celibato ecclesiastico e il sacerdozio fu profondamente mortificato. Finalmente il Concilio di Trento – per la prima volta nella storia – con l’istituzione dei seminari, indicava chiaramente che il chierico dovesse essere scelto tra giovani vergini e celibi, opportunamente formati al sacerdozio, piuttosto che tra i coniugati.

La mossa portò, nei secoli successivi, parecchi frutti di santità e la riforma protestante fu efficacemente contrastata, per quanto umanamente possibile. Anche le decisioni di Trento furono fraintese non poco: a tutt’oggi – scrive Stickler – per celibato ecclesiastico «s’intende comunemente solo la proibizione di sposarsi», omettendo così di dire che il problema non è se sposarsi o meno, ma vivere castamente dopo l’ordinazione sacerdotale, da qualunque condizione provenga il candidato.

I detrattori della continenza considerano troppo severa la disciplina occidentale e si rivolgono alla prassi della Chiesa d’Oriente, perché vedono in essa il volto genuino della Chiesa primitiva.

Quest’opinione – sempre a parere del cardinale – non ha ragione di esistere per una serie di motivi. Pur avendo avuto, gli orientali, il supporto di alcuni autori della patristica – lo stesso san Girolamo, ad esempio, o Epifanio di Salamina – che riesposero le ragioni della continenza, l’Oriente cristiano fu carente dal punto di vista dell’autorità centrale. Affrancandosi, lentamente, dal ruolo confermativo del pontefice di Roma, l’Oriente rimase ostaggio di una qual certa anarchia, che non seppe o non volle risolvere la questione dei chierici coniugati. Non che non esistesse la medesima tradizione apostolica tra Oriente e Occidente, ma il sistema disciplinare orientale è sempre rimasto assai frammentato. Sempre più distanti da un’autorità centrale, «ogni Chiesa particolare» d’Oriente «emanava norme proprie».

Il ruolo del papato fu surrogato dagli scritti dei Padri orientali (sbilanciati sull’ascetica) e dalle norme imperiali bizantine. In ogni caso la continenza dei vescovi era conservata, mentre non lo era quella dei presbiteri e dei diaconi, il cui uso continuato del matrimonio «veniva lentamente giudicato non più arrestabile». In una parola, «ci si arrendeva alla situazione di fatto».

A rendere la consuetudine non più sanabile contribuì, in maniera determinante, il Concilio bizantino Trullano II[16], non riconosciuto come ecumenico dall’Occidente e privo di legati pontifici romani. Il canone 12 fa divieto ai vescovi di usare del matrimonio. Viceversa, il canone 13 ne permette l’uso a sacerdoti, diaconi e suddiaconi, adducendo presunte «antiche prescrizioni apostoliche». La prassi è ancora in vigore nelle Chiese ortodosse.

È sorprendente che il Trullano, per giustificare la nuova disciplina e in mancanza di testi autentici che la certificassero, si trovò costretto a modificare il canone 3 del Concilio africano summenzionato. Ne risultò un testo contraffatto e una tale contraffazione non pesò più di tanto sulla coscienza dei padri conciliari, in quanto ritenevano (o si erano voluti convincere) che la questione fosse puramente disciplinare.

Questa è la sensazione rimasta fino a oggi, in Oriente, ma sempre più spesso anche in Occidente, dopo la rinuncia di Benedetto XVI (2013). Si cerca di eliminare o indebolire il celibato sacerdotale, dicendo che si tratta di una legge della Chiesa modificabile.

Non è così: Stickler conclude l’opera dimostrando che il celibato, così come la castità, non sono elementi accidentali del sacerdozio cattolico, ma essenziali. Mentre in tempi di viva fede – scrive Stickler – «il Cristo-Sacerdote costituisce nella coscienza di tutti il centro vivo della vita di fede», in tempi di «decadenza del senso di fede la figura di Cristo-Sacerdote svanisce e scompare».

Gli elementi teologici sono molteplici e del tutto evidenti: Cristo è casto, vergine e celibe; il sacerdote cristiano è chiamato ad essere alter Christus, nonché «eunuco per il regno dei Cieli»[17]; san Paolo esige dal ministro della Chiesa che sia «enkratés» (continente)[18]; sempre san Paolo dice di avere il diritto di avere con sé una donna, come gli altri apostoli – ma, beninteso, una «gynaika adelfén», una «donna sorella», non una donna moglie.

Se a tutto ciò aggiungiamo l’esempio di molti santi sacerdoti, che hanno fatto della castità una delle loro ragioni di vita, si comprende bene perché per Giovanni Paolo II e per Benedetto XVI la questione del celibato ecclesiastico fosse da ritenersi chiusa.

Silvio Brachetta








[1] Alfons Maria Stickler, “Il celibato ecclesiastico. La sua storia e i suoi fondamenti teologici”, Ius Ecclesiae, Vol. V, n. 1, gennaio-giugno 1993, pp. 3-59. Tutte le citazioni sono tratte da quest’opera, dove non diversamente specificato.

[2] Lc 18, 29-30.

[3] Lc 18, 28.

[4] San Paolo: «Chi si sposa fa bene, ecc…», 1Cor 7, 38.

[5] 2Tes 2, 15.

[6] Nel 306. Elvira è l’antico nome della città spagnola di Granada, sede del concilio.

[7] Con sede a Cartagine. La città ospitò più di venti concili, dogmatici o disciplinari, tra il III e il V secolo.

[8] Concilio di Roma del 386, che scomunicò i vescovi concubinari.

[9] 1Tim 3, 2.

[10] Decretale Dominus inter, inizio IV secolo.

[11] Epistola al vescovo Rustico di Narbonne, 456.

[12] Cf. Ambrogio di Milano, De officiis ministrorum, I, 50.

[13] «Vel virgines, vel post nuptias continentes […] presbiteri, episcopi, diaconi, aut virgines eliguntur aut vidui aut certe post sacerdotium in aeternum pudici», San Girolamo, Apologeticum ad Pammachium, ep. 49, 21 – pl. 22, 510.

[14] Decretum Gratiani, sec. XII. Si tratta di una raccolta di fonti del Diritto canonico, da parte del vescovo di Chiusi, Graziano.

[15] Giurista italiano (XII-XIII sec.), autore della Summa al Decrteum Gratiani, circa 1190.

[16] Detto anche Quinisesto. Costantinopoli, 692.

[17] Mt 19, 12.

[18] 1Cor 7, 9.

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giovedì 23 gennaio 2020

Viviamo in una Chiesa dominata dal “secondo me”. Editoriale di Serafino Lanzetta




Il ritorno del Nominalismo



di P. Serafino Lanzetta FI Anno XIV. 2-2019 sez. Editoriale

Viviamo in una Chiesa dominata dal “secondo me”. Il sinodo sull’Amazzonia recentemente tenutosi a Roma dal 6 al 27 ottobre 2019 e più ampiamente la «conversione sinodale» voluta da Francesco sono diventati catalizzatori del soggettivismo dogmatico[1]. Prova di ciò è il documento finale dell’ultimo Sinodo, in cui, dopo aver sottolineato l’importanza di una conversione sinodale per tutta la Chiesa secondo lo stile amazzonico, si arriva però a proporre dottrine nuove contro la dottrina della Fede e il suo sviluppo costante. «Per camminare uniti la Chiesa ha bisogno di una conversione pastorale, sinodalità del popolo di Dio sotto la guida dello Spirito in Amazzonia» (n. 86), recita il documento finale del Sinodo amazzonico, secondo la versione italiana ufficiosa offerta da L’Osservatore Romano[2], ma conforme all’originale spagnolo[3]. La Chiesa intera avrebbe bisogno di una conversione sinodale per camminare uniti sotto la guida dello Spirito in Amazzonia. Qui si sta dicendo, con un lieve gioco di parole, che la Chiesa necessita una conversione amazzonica. Deve avere un volto amazzonico per una ragione molto pratica, cioè per istituire dei ministeri amazzonici, come attestano sistematicamente i tre documenti sinodali: quello preparatorio (cf nn. 12.14), l’Instrumentum laboris (cf nn. 107.116) e quello finale (cf nn. 86.92ss). Una conversione alla quale non si giunge pienamente senza aver prima invocato una «conversione sinodale» come tale, al fine di incoraggiare addirittura una «conversione del papato» secondo la richiesta di Evangelii gaudium (n. 32)[4].

In virtù della conversione amazzonica della Chiesa, frutto della conversione sinodale, si arriva perciò ai ministeri amazzonici, vera ragione pastorale per la quale era stato indetto il Sinodo. Per una sorta di regola commutativa applicata o da applicare in un prossimo futuro a questo Sinodo, i nuovi ministeri amazzonici, cioè l’ora della donna che dovrebbe segnare la svolta della sua Ordinazione diaconale (cf n. 103) e il Sacerdozio a diaconi permanenti anche se con famiglia, senza più quindi l’obbligo del celibato (cf n. 111), diventeranno ministeri ecclesiali. Il volto amazzonico contraddistinguerà così tutta la Chiesa che in quest’ora sembra essere guidata dallo «Spirito in Amazzonia». Qui però accanto all’uso nominalistico che si fa del Sinodo – il Sinodo amazzonico diventa una sorta di concilio ecumenico discettando su dottrine che riguardano il deposito della Fede – ciò che più impensierisce è la chiara volontà di trasformare la Chiesa in una sorta di sinodalità permanente per rivestirsi ora del volto amazzonico, domani forse del volto tedesco (che pur tanto si assomiglia a quello della foresta amazzonica) e poi di ogni altro volto che l’uomo vuole offrirle. Eppure questa trasformazione perennemente sinodale, evidente dallo scambio di ministeri con dottrina di fede ed evento sinodale, chiaramente evidenzia un’operazione di partenza che risente di un forte soggettivismo, il “secondo me”, le cui origini più remote vanno ricercate proprio nel Nominalismo conoscitivo che sbocca inevitabilmente nel Pragmatismo, la cui ultima sponda è il Materialismo.

Tuttavia è bene tener presente che non si sarebbe arrivati a questo punto se non avesse prevalso in antecedenza un evento più grande e più importante rispetto ai contenuti dottrinali insegnati, cioè l’evento “Vaticano II” e il cosiddetto “spirito del Concilio” sugli stessi testi di quel magno Sinodo. Il fatto poi che i testi stessi, data la loro loquace narratività e ambivalenza, si prestino ad accentuare lo spirito rispetto al dato dottrinale, è anche un discorso da tener presente e da verificare nell’attuale contesto del Sinodo amazzonico, in cui l’evento prepara i ministeri e la dottrina si avvolge nell’evento. Questa unità tra evento e parola è saldata da un vocabolario in cui le parole non esprimono più dei concetti specifici, ma sono per lo più, come vorrebbe J. Locke (1632-1704), gruppi arbitrari di idee, occasionati dalla necessità di parlare[5].

Ciò che cozza, però, apertamente contro questa sinodalità elevata a nuovo principio normativo è il fatto che la sua enfatizzazione deriverebbe dalla necessità di ascoltare il sensus fidei, allargando la partecipazione ai fedeli oltre che ai vescovi. Difatti, però, ciò che emerge dagli ultimi Sinodi è la proposta di dottrine che confliggono con il sensus fidei. Ciò è evidente, ad esempio, nel tentativo sinodale sulla famiglia di aprire l’accesso alla Comunione anche ai divorziati risposati, nel tentativo sinodale sui giovani di includere l’opzione LGBT tra le varie possibili scelte dell’individuo (tentativo naufragato in seguito ad una forte opposizione dei media cattolici), infine nel tentativo sinodale amazzonico di riscrivere la natura del sacramento dell’Ordine e dell’annesso celibato.

Di quale sensus fidei si sta parlando? Evidentemente il senso di questo sensus fidei è diverso.


Nominalismo, Empirismo e Pragmatismo

Il Nominalismo è la strada da seguire se si vuole capire quello che sta succedendo nella Chiesa. C’è sicuramente un’opzione nominalista nell’asserto “secondo me” e nel tentativo subdolo di usare le parole del vocabolario teologico per dire un’altra cosa. Dicevamo che la parola “sinodo” ormai si scrive così ma si legge “concilio”. Sensus fidei non è più ciò che la Chiesa crede ubique, semper et ab omnibus, ma ciò che un ristretto gruppo di persone e di potere vuole affermare. Le parole non corrispondono più alla realtà, non la esprimono per ciò che è.

Il Nominalismo, storicamente, è la strada maestra che porta all’Empirismo, abbracciato anche dal Positivismo. Vediamo di cosa si tratta. Secondo la concezione filosofica nominalista, la nozione a cui si era attribuito l’universalità è solo una collezione di percezioni individuali, una sensazione collettiva, secondo D. Hume (1711-1776) – in ciò debitore a Locke –, «un termine associato abitualmente con molte altre idee particolari»[6]. Il concetto astratto non si differenzia essenzialmente dalla sensazione, di cui è solo una trasformazione. Così il Nominalismo di D. Hume, J. Stuart Mill (1806-1873), H. Spencer (1820-1903), A. Huxely (1894-1963) e H. Taine (1828-1893) è compreso nel loro Empirismo e Positivismo[7]. Ad esempio, per il Mill, «la realtà è sensazione, quindi il concetto è il riassunto del contenuto sensibile, impoverito, mediante l’astrazione, dei suoi elementi specifici. Per dirla in una parola, il concetto è il nome, la generalità è vuota. E, una volta che la realtà è fatta nel senso, il giudizio non è creatore di realtà, ma è il semplice rapporto di concetti, che fonda la credenza nell’oggettività – dove per oggettività non si intende altro che la semplice costanza»[8].

Qui risulta molto interessante evidenziare la posizione dell’empirista scozzese, D. Hume, in relazione all’esistenza di Dio e alla possibilità di una religione naturale. Siccome i concetti non esprimono la realtà ma sono funzioni del pensiero, ciò che essi dicono è vero e valido solo se può essere verificato dall’esperienza. In tal modo Hume, nei suoi Dialoghi sulla religione naturale, mette in discussione il principio di causalità che la Scolastica aveva illuminato quale via privilegiata per arrivare all’esistenza di Dio. A giudizio di Hume, l’ordine, o la compatibilità delle cose con i loro fini (come la compatibilità delle gambe con il camminare) non è per sé prova che ci sia un disegnatore che progetta, eccetto il caso in cui l’esperienza ci mostra un tale ordine. Potremmo mai capire dalla crescita di un capello come un uomo inizia ad esistere?[9] Il personaggio principale dei Dialoghi sulla religione naturale, Filone, che in effetti è lo stesso filosofo che ragiona, darà in queste parole una visione adeguata dell’essenza dell’Empirismo che si muove grazie alle gambe del Nominalismo: «Quel piccolo agitarsi del cervello che chiamiamo “pensiero” – quale speciale privilegio ha per essere capace di servire da modello dell’intero universo? Si staglia ampio per noi poiché siamo sempre alla sua presenza; ma una corretta filosofia deve metterci in guardia attentamente da questo genere di illusione naturale»[10].

Il pensiero, ci dice Hume, è un’illusione e solo l’esperienza prova la verità di una cosa o del rapporto tra causa ed effetto. Epperò, potremmo obiettare a Hume, nel caso in cui un medico non riuscisse a trovare la causa della malattia nel suo paziente, potremmo dire che quel paziente non è ammalato o che lo sarà veramente solo quando il medico avrà esperito la causa della sua malattia? Se poi nel frattempo il malato muore a causa di quella malattia? Questa materializzazione del principio di causalità sarà importante per Hume per poter negare ogni possibilità alla religione naturale, cioè alla ragione di poter conoscere Dio. Non nel senso che Hume voglia così dichiararsi ateo o miscredente. Anzi, nei suoi dialoghi a più riprese fa professione di religiosità. L’Empirista scozzese non sa chi è Dio. Solo sa che Egli è ampiamente oltre la possibilità delle sue facoltà. Per cui sarà Filone a dire a Cleante che il sentimento naturale che una mente ben disposta possa avere in questa situazione è quello di anelare a un intervento divino:

«Dio sarà contento di rimuovere o almeno di diminuire questa profonda ignoranza, col dare al genere umano una particolare rivelazione, rivelando la natura, gli attributi e le operazioni dell’oggetto divino della nostra fede. Una persona che ha una comprensione corretta dell’imperfezione della ragione naturale si precipiterà volentieri verso la verità rivelata, mentre il dogmatico altezzoso (haughty dogmatist), persuaso che può erigere un perfetto sistema teologico con nessun altro aiuto se non quello della filosofia, disdegnerà ogni altro aiuto e rigetterà questo sostegno esterno. Essere scettici dal punto di vista filosofico, in un uomo letterato, è il primo e il gradino più essenziale per diventare un credente cristiano solido»[11].

La posizione scettica di Hume aprirà la strada a I. Kant (1724-1804) che renderà Dio un noumeno, non conoscibile dall’intelletto, ma accessibile solo per via morale. Quindi si arriverà alla negazione di Dio come una semplice proiezione di un’idea dell’uomo. È emblematica a tal riguardo la posizione di F. Nietzsche (1844-1900), secondo il quale il cristiano è bisognoso della redenzione per un’idea di inadeguatezza che subentra dal confrontarsi con un Dio perfetto e con il desiderio di compiere azioni perfette senza egoismo. Questo bisogno di redenzione scompare non appena l’uomo rimuove l’idea di Dio. Infatti, Nietzsche è convinto che «se cade l’idea di Dio, cade anche il sentimento di “peccato” quale trasgressione dei precetti divini, quale difetto di una creatura consacrata a Dio»[12].

Il punto è che Cristo non è un’idea, ma una persona incarnata e la Redenzione è un fatto oltre che un mistero. Le premesse però di una tale conclusione sono nominaliste.

Tuttavia, ritornando a Hume, è molto interessante e attuale la lezione che dà al «dogmatico altezzoso»: se si era pensato di offrire un sistema teologico completo con l’aiuto della filosofia e della metafisica, ora bisogna rinunciarvi perché la ragione è incapace, il pensiero è un’illusione che diventa realtà solo quando tale realtà è sensoriale, esperibile. Con una parola di papa Francesco, che sembra traduca nell’oggi queste istanze, potremmo dire che «la realtà è superiore all’idea»[13] e che tra le due non c’è rispondenza. Di qui una sorta di strana “umiltà” caratterizzerà il pensiero di molti teologi che, consci di ciò, rifiuteranno la metafisica per affidarsi al fideismo, cioè alla giustificazione aletica del dogma a partire dalla stessa fede, senza però più uscire dal labirinto del soggettivismo. Fideismo infatti fa il paio con soggettivismo, come era già accaduto con la Rivoluzione protestante. Quante volte ai nostri giorni sentiamo che la dottrina della Fede non è da considerarsi come pietre da scagliare contro chi non crede o contro chi la pensa diversamente, o che scagliare verità e formule dottrinali come pietre non è cristiano[14]. Ciò presuppone l’umiltà humiana dell’intelletto in una cornice empirista, il cui sottofondo è la visione nominalista del pensiero.

La conseguenza ultima e la riduzione all’assurdo dell’Empirismo è il Pragmatismo, nato in America nel contesto del business e della logica degli affari, ma sviluppatosi anche in contesti meno abbienti. Infatti, «se la realtà è sensazione e se il concetto non è che l’abbreviazione arbitraria dell’esperienza sensibile, il valore del concetto non sarà che quello di una finzione arbitraria, ma comoda. E d’altra parte, se il concetto è il prodotto puramente soggettivo, che non risolve in sé la realtà oggettiva, la sua validità non può essere determinata che dal successo, dalla sua riuscita in quella realtà estranea. Di qui il principio che bisogna far lavorare le idee per accertarsi del loro potere, della loro efficienza pratica»[15].

Il semplice accordo degli individui a livello sociale giudica ciò che giova chiamare verità, ciò che è vero o falso dal punto di vista sociale e utilitaristico. Un forte pragmatismo contrassegna anche i nostri giorni. Si usa molto la parola “pastorale”, si parla di “cura pastorale” o di “progetto pastorale”, ma di fatti si tratta di un pragmatismo che orienta la teoria, o meglio di una prasseologia che è già in sé teoria della prassi. Come possiamo qualificare l’operato del Sinodo amazzonico se non come mera prasseologia? Le esigenze missionarie amazzoniche disegnano nuovi ministeri amazzonici, dicevamo, e per di più come nuova dottrina in contrasto con quella ricevuta da Gesù attraverso gli Apostoli.


L’ETEROGENESI DELLE PAROLE

In un quadro dove prevale il Pragmatismo, cioè il pensiero a servizio della prassi, della risoluzione pratica e più conveniente dei problemi e delle sfide che il tempo pone alla Fede, accade spesso che le parole conoscano un mutamento di significato repentino e plurimo. Scegliendo qualche esempio dal vocabolario teologico recente – oltre alla parola “sinodo” e “sensus fidei” a cui abbiamo già accennato – riferiamoci a parole come “misericordia”, “missione”, “pastorale”, quest’ultima tra le più nominaliste del vocabolario di questi ultimi cinquant’anni, che ora è già “conversione pastorale”, ed infine “ecologia”, che però è già “conversione ecologica” e “conversione al territorio”.

La misericordia è il compimento della giustizia secondo la misura superiore dell’amore e del perdono; mai potrebbe essere posta in essere senza che si presupponga la giustizia. Eppure, per buona parte del pontificato di Francesco (grossomodo dall’inizio con l’esaltazione del libro del card. Kasper sul tema fino al Giubileo della Misericordia, chiusosi nel novembre 2016), sembrava che si volesse enfatizzare un perdono di Dio senza far riferimento alla giustizia e alla verità. Ciò fino a postulare la possibilità dell’accesso dei divorziati risposati alla Santa Comunione con Amoris lætitia e fino a riabilitare in qualche modo Lutero con le celebrazioni vaticane per il 500° anniversario della sua Rivoluzione, emblema di una giustizia perdonante senza o addirittura contro la giustizia punitiva di Dio. Se ora diciamo “misericordia” da un pulpito i fedeli capiscono quello che vogliamo dire?

La missione della Chiesa è quella espressa chiaramente dalle parole di Gesù ai suoi Apostoli prima di ascendere al Cielo: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19-20).

Per papa Francesco missione non deve essere proselitismo. Risulta però complicato non fare proseliti o discepoli nell’evangelizzazione e obbedire allo stesso tempo alle parole del Signore. Missione è invece ora espressa propriamente da una metafora cara al Papa: «Chiesa in uscita». Uscita cioè dagli schemi del passato, da ricette dottrinali già preconfezionate, dalle proprie sicurezze di possedere la verità e di imporla agli altri, ecc. È l’uscita della Chiesa da se stessa per diventare altro da sé, una realtà più dinamica, che si compia finalmente nel processo sinodale.

Allo stesso tempo però, complicando ancora di più il quadro, il Santo Padre ha voluto che ottobre 2019 fosse un mese straordinario della missione, al fine di celebrare i 100 anni dell’Enciclica di Benedetto XV, Maximum illud, che in verità rilanciava la missione della Chiesa non nell’ottica processuale della Chiesa in uscita, ma secondo il consueto imperativo di andare in tutto il mondo, di evangelizzare tutti gli uomini e di convertirli a Cristo e al suo Vangelo. La missionarietà di Francesco rischia di diventare più fortemente introversa perché si smarrisce il fine per il quale bisogna uscire. Cos’è perciò missione oggi?

In questo contesto, accanto a ciò, si segnala un sincero tentativo di rilanciare la missionarietà della Chiesa passando dalla manutenzione alla missione, tentativo però che, per quanto animato da ottime intenzioni, di fatto conduce alle medesime conclusioni di cui sopra[16]. Si parte da una costatazione di fatto: la Chiesa è affetta da una crisi di identità perché sarebbe diventata troppo introversa rinunciando alla missione. Essere discepoli del Signore significa essere missionari, fare altri discepoli. Giusto. Però il punto è l’esatto opposto: la missione è in crisi perché la Chiesa vive una crisi d’identità. L’effetto non può essere frainteso con la causa. Succede però di scambiare l’essere-Chiesa con l’agire-missionario quando si insegna che Chiesa è missione, per il suo essere “apostolica” la Chiesa deve fare altri discepoli. In realtà, essere apostolica significa anzitutto che la Chiesa, Corpo mistico del Signore, è fondata sugli Apostoli per la salvezza di tutte le genti. Questo mistero è da essere portato nell’evangelizzazione a tutti gli uomini perché tutte le genti diventino discepoli del Signore, membra del suo Corpo.

Cambiare perciò l’essere della Chiesa con l’agire, anche se con il buon intento di rilanciare a tutto campo la stessa missionarietà, non è una buona soluzione all’inceppamento della missione. Significa, in fondo, assorbire l’essere, la Chiesa, in un perenne divenire e in ultima analisi significa uscire persino dalla Chiesa, a cui mira «Chiesa in uscita». La missione è paralizzata perché ad esempio la soteriologia è stata umanizzata e la Chiesa è divenuta mero popolo di Dio in cammino che raccatta strada facendo tutti quelli che giacciono lungo i margini. Costoro sono invitati ad entrare, ma potrebbero anche più comodamente starsene fuori, tanto sono già cristiani anche se non lo sanno. Perché fare proseliti (discepoli)?

La parola “pastorale” è una delle più inflazionate. Non avendo in origine, sin dal Vaticano II che ne fece il suo proclama, una chiara identità e una definizione specifica, nel tempo si è evoluta in vari usi. Uno principale è stato quello di segnare una svolta antropologica del Cristianesimo all’insegna della prassi che diventa specchio e verifica della Teologia come tale. Se la Teologia non è più pastorale, nel senso che la pastorale assurge a metro di misura della compatibilità storica di una dottrina con il tempo, allora la Teologia non è più se stessa.

La pastorale, sinonimo anche di missionarietà, non è solo il fine ma diventa, in questo contesto antropocentrico, anche il mezzo. Così si arriva alla “conversione pastorale” che esige l’uscita della Chiesa da se stessa, una Chiesa che si comprende ormai nel suo divenire pastorale, chiamando in causa perciò lo stesso papato e le strutture centrali della Chiesa[17]. Sembra così che la pastorale converta la Chiesa gerarchica in una realtà più leggera, con meno accentramento di potere, e più vicina alle periferie esistenziali.

Infine, con l’Enciclica Laudato sì (24 maggio 2015) si è entrati in una nuova fase del pontificato di papa Francesco. La parola chiave ha smesso di essere “misericordia” – dalla fine del Giubileo ad essa dedicato non si è quasi mai più sentito enunciarla – per passare a una nuova parola d’ordine: “Ecologia”. Qui ecologia è cura della casa comune, della terra o “Madre Terra”. I pontefici precedenti avevano sempre collegato al dovere ecologico di rispetto del creato un’ecologia integrale della persona umana in relazione a Dio. Ora la persona umana è in funzione dell’ecologia che è l’impegno di non-sfruttamento della terra. Terra, poi, diventa anche un particolare territorio geografico illibato e fonte di rivelazione come nel caso della regione amazzonica secondo i dettami dell’Instrumentum laboris che ha fatto da guida ai lavori sinodali. Si perviene pertanto a una conversione ecologica che in detto Instrumentum laboris suggerisce «di recuperare i miti e attualizzare i riti e le celebrazioni comunitarie che contribuiscono in modo significativo al processo di conversione ecologica» (n. 104).

Qui, dunque, ecologia e conversione ecologica vanno completamente oltre il loro significato originario e si aprono a una comprensione dell’ecologia come legame naturale (o panteistico?) dell’uomo con la natura celebrato nel mito e da dover riflettere nelle celebrazioni comunitarie. La maggioranza sinodale ha anche deciso di poter dare vita a un rito amazzonico.


COS’È ALLORA ECOLOGIA?

Ogni parola-chiave di questa neo-lingua teologica riceve tanti significati quanti sono quelli attribuitigli dal soggetto conoscente. Si può capire facilmente che in questo modo si sfocia in un vicolo cieco della comunicazione; non c’è più Teologia che esprima non solo il contenuto della Fede, se fosse ancora importante, ma un contenuto almeno condivisibile. È questa la ragione per cui la comunicazione vaticana sempre più spesso va in tilt?


ETEROGENESI DEI FINI

L’eterogenesi delle parole conduce necessariamente a una sorta di eterogenesi dei fini. Un insegnamento nuovo sviluppato con le medesime parole ormai si presta a raggiungere fini diversi da quelli perseguiti fino a pochi anni or sono dal Magistero della Chiesa. Se le parole non esprimono più la realtà perché di essa esprimono l’essenza, allora diventano facilmente uno strumento di potere, un veicolo della propria volontà di potenza, a volte demagogico, a volte opportunista, il più delle volte rivoluzionario. Le parole diventano solo strumenti per raggiungere un fine che non è la conoscenza della verità ma la propagazione delle proprie idee. Se questo modo di fare diventa maggioritario e finisce con l’affermarsi, la dottrina della Fede, soggetta ai venti di tutte le mode, viene fatta a pezzi. Non si può evitare, in ogni caso, anche nella visione nominalista più intransigente, che una dottrina (un’idea) esprima la realtà: la esprimerà in quanto vi è di conveniente, di utile per l’oggi. Il Nominalismo si compie e si invera nel Pragmatismo.

Una via d’uscita da questo impasse linguistico che non ci consente più di conoscere la Fede per ciò che è e di poter giudicare una Teologia o una visione pastorale per ciò che esse rappresentano ovviamente c’è e non può che essere un sano ritorno al realismo scolastico. Bisogna studiare la metafisica e la logica nei seminari. Gli universali non ci ingannano perché derivano dalla realtà. La esprimono in ciò che essa veramente è e non sono finzioni intellettuali o sensazioni alquanto evolute. I concetti sono derivati dalla realtà e corrispondono pertanto alle cose reali, a ciò che è, sintetizzandolo in un’essenza universale. I dogmi della Fede che professiamo non sono formule vuote, ma esprimono la verità che Cristo ci ha insegnato e che la Chiesa ci ha trasmesso ininterrottamente.

Se diciamo “missione” o “conversione” non possiamo intendere che ciò che Cristo ci ha detto e che la Chiesa ha continuamente insegnato e trasmesso. La parola “missione” (un solo esempio che può ricapitolare il discorso) è derivata dall’insegnamento di Cristo e degli Apostoli e non è un guscio vuoto che ognuno può riempire secondo la stagione in cui si vive. Se cambiamo il suo significato perché non sappiamo cosa essa sia, ma lo apprendiamo dalle scienze umane o dalle religioni degli uomini, cambiamo la realtà, cambiamo il Vangelo.

L’intelletto non ci inganna perché la realtà in fondo non è una finzione e non può essere fittizia. Cristo non è una finzione. È urgente riappropriarsi del vocabolario teologico.




NOTE

[1] Una delle menti principali del Sinodo amazzonico, il vescovo austro-brasiliano Erwin Kräutler, nel rispondere in sede di conferenza stampa alla domanda circa la possibilità nella Chiesa dell’Ordinazione sacerdotale delle donne, mettendo da parte ciò che la Chiesa crede, in modo interessante pre-mette il “secondo me” (cf l’intervista concessa a E. Pentin.

[2] Lunedì-martedì, 28-29 ottobre 2019, p. 7.

[3] «Para caminar juntos la Iglesia necesita una conversión Sinodal, sinodalidad del Pueblo de Dios bajo la guía del Espíritu en la Amazonía».

[4] Questa «conversione sinodale» inizia ufficialmente con il Motu proprio Episcopalis communio, del 15 settembre 2018, in cui il Papa andava a modificare alcune norme regolanti il Sinodo, tra cui quella per cui se il pontefice approva espressamente il documento finale, esso partecipa del Magistero ordinario del successore di Pietro; qualora invece il pontefice avesse conferito potestà deliberativa al Sinodo, il documento finale partecipa del suo Magistero ordinario di successore di Pietro, quando da questi ratificato e promulgato. In quel caso il documento viene promulgato con la firma del Papa insieme a quella degli altri membri. Il documento finale del Sinodo amazzonico appoggia questa visione e fa suo il proclama di una «conversione integrale», tra cui quella sinodale.

[5] Cf padre J. Glenn, The History of Philosophy, B. Herder Book Co., Londra 1948, p. 288.

[6] M. De Wulf, Nominalism, in The Catholic Encyclopedia, Robert Ampleton Company, New York 1911, vol. XI, p. 92.

[7] Cf ivi, p. 93.

[8] G. De Ruggiero, La filosofia contemporanea, Laterza, Bari 1947, vol. II, pp. 18-19.

[9] Cf. D. Hume, Dialogues concerning Natural Religion, Jonathan Bennett 2017, pp. 12-13.

[10] Ivi, p. 13.

[11] Ivi, p. 62.

[12] F. Nietzsche, Umano troppo umano, 1878-1880, vol. 1, parte terza, 133.

[13] Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, n. 232.

[14] Cf Francesco, Senza di lui non possiamo far nulla. Essere missionari oggi nel mondo. Una conversazione con Gianni Valente, LEV, Città del Vaticano 2019. Si veda anche Amoris lætitia, n. 49.

[15] G. De Ruggiero, La filosofia contemporanea, pp. 38-39.

[16] In ambito inglese è molto popolare il libro di padre J. Mallon, Divine Renovation. Bringing your parish from maintenance to mission, TwentyThird Publication, New London (CT) 2014. Su questo libro ragiono nel prosieguo della mia critica.

[17] Cf Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii gaudium, n. 32.

(fonte: FidesCatholica)