domenica 29 marzo 2015

Il rapporto tra croce e altare nell'antichità cristiana





Testimonianze storiche ed archeologiche


(I)

di Stefano Carusi

19 marzo 2015, San Giuseppe

Lo studio della liturgia antica, in particolare romana, si scontra fin dal suo delinearsi, con la difficoltà a ricostruire con precisione la disposizione dello spazio presbiterale dei primi otto secoli dell’era cristiana. Non è sempre facile ricostruire con precisione lo spazio absidale e la stessa posizione dell’altare con i relativi arredi pone ancor oggi dei problemi in parte irrisolti. Sappiamo con certezza che in epoca medievale e moderna la prescrizione della presenza della croce in corrispondenza della mensa è raccomandata come fondamentale dai messali e dalla tradizione dei diversi riti. Siamo anche certi che già a partire dai primi secoli del secondo millennio, nelle differenti famiglie liturgiche dell’orbe cristiano, la rappresentazione nello spazio d’altare della croce è ormai generalizzata: la sua presenza ricorda il sacrificio del Venerdì Santo e sottolinea il significato teologico della Messa. Più discussa fra gli studiosi è l’epoca dell’introduzione di tale elemento come arredo centrale dell’altare, soprattutto se il dibattito storico riguarda il primo millennio dell’era cristiana.

Nell’analisi che segue si tenterà di approfondire il legame simbolico-liturgico tra la celebrazione eucaristica, l’altare e la croce. Si cercherà, a seconda dei territori analizzati e con particolare riferimento alla penisola italiana, di verificare se sia possibile proporre una datazione relativa alla sicura presenza della croce in ambito cultuale, quale elemento fondamentale e centrale nella disposizione dell’altare.

E’ bene premettere che le fonti letterarie e i ritrovamenti archeologici in proposito sono di una disarmante esiguità e che i ritrovamenti locali e sporadici - tenendo conto anche del particolarismo liturgico dell’orbe cristiano antico - mal si prestano a generalizzazioni troppo affrettate. E’ noto che nel campo della storia della liturgia la prudenza deve essere particolare preoccupazione del ricercatore, non solo per la delicatezza dell’argomento, ma anche perché le molte ricostruzioni accademiche fatte “a tavolino”, hanno col tempo rivelato le incertezze e le incongruenze di tesi audaci e a volte infondate. Per converso è noto quanto il conservatorismo rituale incida sulla liturgia, al punto che, almeno fino ad epoca recente, è più facile incontrare usi di cui si fosse persa la ragione che assistere ad introduzioni ex nihilo. Nel caso di una tradizione nota e ricorrente - come la presenza della croce sull’altare - è metodologicamente più corretto dimostrare l’epoca della sua introduzione, piuttosto che negarne l’esistenza in epoca antica sulla base di silenzi delle fonti, giacchè l’assenza di prove non è sempre prova di un’assenza[1].

Per inciso giova anche rammentare che la storia della liturgia si trova, per più ragioni, esposta a interpretazioni spesso arbitrarie; la proiezione nell’antichità di dibattiti teologici recenti ha spesso falsato la panoramica e un primitivismo dalle utopie retrospettive ha attribuito ai cristiani della tarda antichità problemi molto lontani dalle loro menti.


Status quaestionis


La preghiera liturgica della testimonianza vetero-testamentaria, così come la successiva tradizione cristiana, è essenzialmente un rivolgimento a Dio per impetrare propiziazione, lodare, ringraziare, adorare per mezzo di un mediatore, il sacerdote istituito da Dio stesso[2]; il rapporto tra Dio e gli uomini è legato da un patto, da un’alleanza; segno di quest’alleanza era in antico l’Arca, nei tempi nuovi la Croce. E’ il sacrificio del Figlio che riconcilia gli uomini con il Padre, è la Crocifissione, che si rinnova in maniera incruenta sugli altari, che ha restaurato la caduta d’Adamo[3]; bisogna quindi determinare se sia coerente con i dati storico-archeologici pensare che ciò che si realizza in maniera non direttamente visibile con gli occhi di carne, fosse rappresentato in maniera visibile in uno spazio in connessione all’altare.

E’ dato assodato che la presenza della croce sull’altare sia una costante per la maggioranza dei riti in Oriente a partire dal secolo VII-VIII, più discussa è la situazione in Occidente, per le incertezze sull’epoca di introduzione a seconda delle zone. Appare alquanto singolare che questa uniformità si noti anche nelle comunità cristiane separate da Roma e Costantinopoli fin dal VI secolo, come è il caso di alcune comunità della Siria e dell’Egitto, della Mesopotamia e dell’India. Bisogna stabilire se il fattore sia tanto primitivo da essere precedente alla separazione o se vi sia stata emulazione, in questo caso valutare in che senso vi sia stata influenza.

In ambito romano e occidentale, a parere di alcuni autori, non si può parlare di presenza della croce sull’altare prima del XII - XIII secolo[4]. Il silenzio sull’argomento da parte dell’Ordo Romanus I[5] e alcune rappresentazioni dello spazio dell’altare ascrivibili ai sec. X-XI, che ancora non riproducono la croce sopra la mensa, ne sarebbero la testimonianza ( per citare alcuni esempi di ambito romano e centroeuropeo si possono menzionare il noto affresco della Messa di S. Clemente dipinto presso l’omonima basilica di Roma o le miniature nell’evangeliario per l’Abbadessa Uta di Niedermunster[6] o dell’evangeliario di San Bernward di Hildesheim[7]).

Lo studio della documentazione dell’alta antichità cristiana pone però degli interrogativi che, sebbene di non facile soluzione, non permettono tuttavia il carattere categorico attribuito in passato alla tesi di un’introduzione tardo-medievale della croce.
Difficile stabilire con certezza se una rappresentazione dello strumento della Passione fosse o meno sull’altare in epoca antica o se fosse in posizione centrale e visibile, benché non direttamente appoggiata sulla mensa, o se infine vi fosse una relazione col rivolgimento a Oriente. Appare comunque con evidenza, oggi più che in passato, la necessità di ampliare la prospettiva nei suoi risvolti archeologici e simbolico-teologici, analizzando la possibilità di una retrodatazione della presenza della croce sull’altare.


Oriente e Croce in alcune passiones e scritti antichi


Gli atti di alcuni martiri di Samosata vissuti nei secoli III - IV[8], offrono dei dati d’interesse; negli Acta Hipparchi Philothei et sociorum[9], si legge che alcuni cristiani erano convenuti nella casa di un certo Ipparco per pregare verso Oriente e verso la Croce: “[…] crucemque pinxerat in orientali pariete. Ibi, ante crucis imaginem, converso ad orientem ore, Dominum Iesum Christum quotidie septies adorabant”[10]. Si evince chiaramente che i cristiani di Samosata pregavano rivolti verso Oriente e in quella direzione dipingevano una Croce sulla parete. Nel citato testo si legge più avanti che i pagani accusarono i cristiani di venerare una croce lignea; essendo il testo databile al V secolo, il Peterson deduce che il riferimento alla croce lignea è probabilmente un’interpolazione avvenuta al momento della redazione, ma il riferimento alla croce dipinta sul muro è da considerarsi autentico, perciò di III-IV secolo[11]; abbiamo quindi, anche considerando le recenti critiche che il Wallraff ha mosso al testo[12], una prova di preghiera “versus crucem et orientem” attestata almeno nel IV secolo; non meno interessante è l’interpolazione di V secolo sulla croce lignea, perché non è improbabile che una pratica liturgica coeva possa aver influenzato i redattori.

Il rivolgimento ad Oriente durante alcune fasi della preghiera, ampiamente noto dagli scritti di Tertulliano[13] e di numerosi Padri, è da tempo oggetto di dibattito scientifico ma, tanto il Dölger[14] che il Gamber,[15] che hanno studiato l’argomento e dimostrato come il fenomeno interessasse gran parte dell’orbe cristiano antico, si sono occupati marginalmente del legame con la croce.
Nei secoli V, VI la relazione fra Oriente e croce sembra un’acquisizione almeno per la Siria: negli atti di Kardagh si legge che il Santo dopo la conversione “subito surgens ingressus est cubiculum et delineavit in pariete orientali signum crucis, et cecidit super faciem suam in terram et oravit coram illo”[16]. Il documento costituisce una ulteriore prova della pratica di dipingere una croce nella parete orientale in occasione della preghiera, quindi dell’esigenza di avere dinanzi agli occhi lo strumento della Passione.
Il problema della croce sui muri è conosciuto anche in uno scritto attribuito un tempo a S. Giovanni Crisostomo[17]. Origene riferisce il dato interessante di un rivolgimento della preghiera verso Oriente in direzione di un muro[18].
L’eresiologia fornisce ulteriori indizi: i Marcioniti, che erano fortemente ostili al culto della croce, pregavano verso Occidente con un preciso intento polemico[19], il legame tra i due elementi sembra di nuovo attestato anche se da una prova “a contrario”.
La preghiera rivolta a Oriente e verso la croce, sosteneva il Peterson[20], avrebbe un significato escatologico; sarebbe il rivolgersi, secondo il noto passo di Matteo[21], verso la direzione da cui Cristo ha promesso di tornare sulla terra preceduto dalla croce; l’interpretazione di quest’associazione, nel suo aspetto storico e teologico-simbolico, è stata oggetto di recenti studi e dibattiti[22].

Nella polemica anticristiana del II secolo è d’interesse il discorso attribuito a Frontone e riferito nell’ “Octavius” di Minucio Felice; tra alcune accuse alla nuova religione si trova la menzione che i cristiani non solo compissero cerimonie con il legno della croce “crucis ligna feralia eorum caerimonias fabulatur”, ma che ad essa erigessero altari, “congruentia perditis sceleratisque tribuit altaria, ut id colant quod merentur”[23]. Il dato che vi fossero a Roma nella seconda metà del II secolo altari nei quali si venerasse la croce doveva inorridire i contemporanei pagani, esso appare nel testo insieme ad accuse infondate contro i cristiani, ma a differenza di esse appare alquanto verosimile e pone interessanti interrogativi, specie tenendo conto della continuità con la prassi posteriore.


Alcune testimonianze sulle Basiliche romane e il Liber Pontificalis di Roma e Ravenna


Risulta piuttosto arduo indagare la storia liturgica attraverso i resti dei “tituli romani”[24] così come la ricostruzione dello spazio presbiterale delle stesse basiliche costantiniane di Roma presenta dei nodi di difficile soluzione[25], nuoce agli studi la continuità del culto cristiano e le sovrastrutture successive non sempre rendono identificabili i resti antichi. La testimonianza offerta dal Liber Pontificalis[26] sembra invece permettere l’avanzamento di alcune ipotesi più circostanziate.
Le donazioni costantiniane alla Basilica Salvatoris ci permettono di ricostruire alcuni elementi fondamentali[27]: sappiamo che Costantino donò i noti “septem altaria” d’argento, unitamente a sette candelieri da porre davanti ad essi, la questione ha sempre sollevato numerosi dubbi sulla funzione di questi oggetti preziosi, il fatto che gli altari fossero di eguale peso lascia supporre che fra essi non vi fosse compreso l’altare della consacrazione, che avrebbe dovuto avere maggiori dimensioni e differente monumentalità. L’assenza di una donazione imperiale in proposito, proprio per la basilica dei Pontefici Romani, lascia ulteriormente propendere per la veridicità della tradizione pervenutaci, cioè che fosse in uso nella basilica, ancora ai tempi di Costantino, un antico altare usato dai vescovi precedenti, che, in virtù della sua antichità e venerazione, avrebbe conservato la funzione primigenia anche nel pieno IV secolo[28]. Il dato ridimensionerebbe le teorie sugli stravolgimenti liturgici operati in epoca costantiniana e testimonierebbe di cambiamenti solo marginali, retrodatando quindi l’introduzione di alcuni usi.
Sulla base di questi presupposti, il Klauser avanza l’ipotesi che i sette altari avessero la funzione di mensa per le offerte e ne ipotizza una collocazione ai lati del Fastigium, nella asimmetrica disposizione di quattro da una parte e tre dall’altra. Studi più recenti sullo spazio intorno al Fastigium si sono concentrati sulla ricostruzione dello spazio presbiterale, ma rimane difficile avanzare ricostruzioni dettagliate sul rito che doveva compiersi al suo interno[29].

La ricostruzione dello spazio absidale della Basilica Vaticana di S. Pietro è stata resa possibile da una scoperta archeologica dei primi del Novecento, fatta nella chiesa di S. Ermagora a Pola, il ritrovamento della cosiddetta capsella di Samagher: “difficile immaginare un altro cimelio che al pari di esso assuma tanta importanza in diversi campi, nella storia dell’arte paleocristiana, nella storia dell’impero, nella storia della Chiesa”[30]. La cassetta fu realizzata a Roma intorno al 440 e destinata a contenere delle reliquie, fu forse donata da Sisto III o da Leone Magno a Valentiniano. Nelle quattro facce sono rappresentati alcuni luoghi santi della Cristianità, sul lato posteriore è la rappresentazione della Basilica di San Pietro; oltre la cosiddetta “Pergula Vaticana”, è rappresentato un corpo quadrangolare, al di sopra del quale è visibile una croce, non è facile stabilire se essa sia infissa sulla superficie o se sia decorazione di una nicchia retrostante, ma la sua innegabile presenza in questo contesto è da ricondurre alla memoria dell’Apostolo Pietro e forse ad un ruolo liturgico, le due ipotesi non si escludono a vicenda. L’altare poteva, supponendo la sua mobilità, essere apposto in prossimità della confessione durante il rito e non essere quindi rappresentato nella capsella, ma resta ragionevole pensare che la celebrazione avvenisse in prossimità della memoria dell’Apostolo; la posizione laterale dei personaggi rappresentati, determinata dall’impossibilità di essere sul fronte per la presenza della “fenestella confessionis”, pone l’interrogativo tuttora irrisolto della posizione precisa della mensa d’altare[31].


Lato posteriore della Capsella di Samagher, la "Pergula Vaticana" e la Memoria di San Pietro


L’ipotesi che nella Basilica Vaticana si celebrasse in presenza di una croce, intenzionalmente o meno, già agli inizi del V secolo, non può essere elusa, la croce è al centro dello spazio presbiterale. L’ipotesi che sia solo segno della memoria dell’Apostolo, o che si trovasse in una retrostante nicchia, non inficia il rapporto con la liturgia, perché lo spazio della memoria dell’Apostolo è anche lo spazio privilegiato della celebrazione.

Un altro nodo della disposizione dello spazio liturgico è costituito dagli oratori ed altari laterali, presenti almeno dall’epoca di Papa Ilario ( 461-468) nella Basilica Salvatoris e dall’epoca di Papa Simmaco (498 - 514) nella Basilica Vaticana, essi appaiono addossati a nicchie e orientati in maniera difforme. Nel caso della Basilica Vaticana, l’ “Oratorium Sanctae Crucis”, che sappiamo essere situato nello spazio del transetto destro, era dotato di una croce gemmata contenente una reliquia della Vera Croce, posta in una nicchia, e di un relativo altare, verisimilmente rivolto verso la nicchia; nello spazio del Battistero, gli altari di S. Giovanni Evangelista e quello del Battista, erano entrambi addossati al muro; nella cosiddetta “Rotonda” l’altare di S. Andrea e quelli ad esso contigui, erano orientati in differenti direzioni, ma tutti verso un muro[32]; non è sempre facile stabilire quando e come si celebrasse su questi altari, ma è probabile che il celebrante fosse rivolto verso il muro o l’eventuale immagine o reliquia che vi era deposta.

Secondo il Liber Pontificalis di Roma, le donazioni di croci alla Basilica Vaticana e ad altri edifici dell’Urbe si susseguono con continuità. Costantino, sotto papa Silvestro (314-335), dona alla basilica di S. Pietro una grande croce di 150 libbre da mettere davanti al corpo di S. Pietro[33], un’altra dello stesso peso da collocare “super locum Beati Pauli”[34]; leggiamo che Vigilio (537-555) “obtulit crucem auream cum gemmis”[35]; all’epoca di Pelagio II la croce donata da Belisario, si trova ancora “ante corpus Beati Petri”[36]; interessante il dono di una croce da parte di Leone III (795-816), “pendentem in pergola ante altare”[37]; lo stesso pontefice “fecit crucem maiorem (…) stat iuxta altare maiore”[38], in questo caso è una grande croce, la principale (maiorem) e soprattutto destinata all’altare maggiore, “iuxta” può significare sopra, sospesa o infissa su un supporto. Sappiamo di una croce col nome di Leone IV alla quale fu riargentata la “virga in qua cruce continetur” e la quale “stat parte dextra iuxta altare maiore”[39], la collocazione e la funzione di questo elemento interroga particolarmente, vi potrebbe essere un rimando ad una croce processionale collocata presso l’altare, ancora una volta il maggiore, e che necessitava di un supporto eventualmente fisso.

Le donazioni di croci interessano anche gli altari laterali, il papa Ilario dona a ciascuno degli oratori della Basilica Salvatoris, l’uno di S. Giovanni Evangelista, l’altro di S. Giovanni Battista, una “confessio” con una croce d’oro e fa un simile donativo, ma in questo caso col legno della Santa Croce, per l’Oratorio della Santa Croce[40]; per un altro Oratorio della Santa Croce, quello della Basilica Sancti Petri, Papa Simmaco dona una “confessionem et crucem ex auro”[41]. Appare estremamente significativo che il Liber Pontificalis parli di “confessionem et crucem ex auro” come di un insieme e il legame - o la citazione dei due elementi in associazione - si riscontra in più di un passaggio, tanto per le due maggiori basiliche dell’Urbe che per Santa Maria Maggiore, per la quale non mancano donativi di croci per l’altare[42].

La connessione tra sepolcro venerato, altare maggiore e croce sembra un dato sufficientemente documentato, più ardua risulta la ricostruzione della disposizione strettamente liturgica.
L’enfasi data a certe donazioni, la preziosità del materiale utilizzato, l’unicità del pezzo donato, lasciano intendere che l’oggetto fosse destinato ad un uso che prevedesse centralità, rilievo e visibilità.

Nell’ambito ravennate, sappiamo che il vescovo Maximianus “crucem vero auream maiorem ipse fieri iussit et pretiosissimis gemmis et margaritis ornavit”[43], ricorre il termine “maiorem” ad evidenziare la monumentalità che l’oggetto doveva avere anche nella sua collocazione. Nel VI secolo il vescovo Agnellus (557-570) “fecit crucem magnam de argento in Ursiana ecclesia super sedem post tergum pontificis in qua sua effigies manibus expansis orat”[44]; l’esistenza di una croce argentea di notevoli dimensioni collocata sopra la cathedra o al centro del catino absidale, può rinviare ad una centralità liturgica del manufatto metallico[45].

...CONTINUA


* Desidero ringraziare il Rev. do Prof. Stefan Heid del Pontificio Istituto d’Archeologia Cristiana e il prof. Philippe Bernard dell’Università di Aix-en-Provence, uno speciale riconoscente pensiero va alla prof. Simonetta Minguzzi dell’Università di Udine


[1] Si tratta di un dibattito fiorito intorno alle visioni storiciste del secolo scorso che ha influenzato tanto l’archeologia che la storiografia ecclesiastica; le discipline storiche antichistiche ne furono anch’esse influenzate, specie in rapporto al dato della tradizione al quale si negava sistematicamente il valore di “fonte”, Cfr. Maurice Blondel, Histoire et dogme. Les lacunes philosophique de l'exégèse moderne, in La Quinzaine 16 janvier 1904, pp. 145-167, 1er février, pp. 349-373, e 16 février, pp. 433-458, ripreso in Les premiers écrits de Maurice Blondel, Paris, 1956 (Bibliothèque de philosophie contemporaine), pp. 149-228, e in M. Blondel, Œuvres complètes, t. 2, Paris, 1997, pp. 387-453 ; Id., De la valeur historique du dogme, in Bulletin de littérature ecclésiastique 7 (1905), pp. 61-77, ripreso in Les premiers écrits de Maurice Blondel, pp. 229-245, e in M. Blondel, Œuvres complètes, t. 2, pp. 494-507. Cfr. Pierre Gauthier, Newman et Blondel : tradition et développement du dogme, Paris, 1988 (Cogitatio fidei, 147) ; Rèné Virgoulay, Blondel face à l'historicisme : Histoire et dogme, in De Renan à Marrou : l'histoire du christianisme et les progrès de la méthode historique, 1863-1968, Villeneuve-d'Ascq, 1999 (Histoire et civilisations), pp. 83-93 ; Rosanna Ciappa, Rivelazione e storia. Il problema ermeneutico nel carteggio tra Alfred Loisy e Maurice Blondel (febbraio-marzo 1903), Napoli, 2001 (Pubblicazioni del Dipartimento di discipline storiche, 14) ; Louis-Pierre Sardella, Mgr Eudoxe Mignot (1842-1918). Un évêque français au temps du modernisme, Paris, 2004 (Histoire religieuse de la France, 25), pp. 689-699 ; Giacomo Losito, “De la valeur historique du dogme” (1905). L’epilogo del confronto di Maurice Blondel con la storicismo critico di Loisy , in Cristianesimo nella storia 27 (2006), pp. 471-511.
[2] Cfr. Martin Klöckener, Conversi ad Dominum in Augustinus-Lexikon, t. 1, col. 1280-1282 ; Id. Die Bedeutung der neu entdeckten Augustinus-Predigten (Sermones Dolbeau) für die liturgiegeschichtliche Forschung, in Augustin prédicateur (395-411). Actes du colloque international de Chantilly (5-7 septembre 1996), Paris 1998, pp. 153-154 ; François Dolbeau, Augustin d'Hippone, Vingt-six sermons au peuple d'Afrique retrouvés à Mayence, Paris 1996, pp. 171-175 e 623 ; Noël Duval, Les églises africaines à deux absides. Recherches archéologiques sur la liturgie chrétienne en Afrique du Nord, Rome, 1971 (BEFAR 218 bis), pp. 303 ss. e 350-351 ; Id., Les installations liturgiques dans les églises paléochrétiennes, in Hortus artium medievalium 5, Zagreb (1999), p. 15 ; Id., Commentaire topographique et archéologique de sept dossiers des nouveaux sermons, in Augustin prédicateur (395-411). Actes du colloque international de Chantilly (5-7 septembre 1996), Paris 1998, pp. 196-198; Id., Architecture et liturgie : les rapports de l’Afrique et de l’Hispanie à l’époque byzantine, in V reunió d’arqueologia cristiana hispànica (Cartagena, 1998), Barcelone, 2000, p. 16; Raymond Étaix, Le sermon 17 de saint Césaire d'Arles. Texte complet, in Philologia sacra. Biblische und patristische Studien für Hermann J. Frede und Walter Thiele zu ihrem siebzigsten Geburtstag, t. 2, Fribourg, 1993 (AGLB 24), pp. 560-567; Sible de Blaauw, In vista della luce, in Arte medievale, le vie dello spazio liturgico, a cura di Paolo Piva, Milano 2010, pp. 15-45.
[3] Marius Lepin, L’idée du Sacrifice de la Messe, Parigi 1926, pp. 37-94.
[4] Josef Andreas Jungmann, La liturgie de l’église romaine, Mulhouse 1957, p. 69; la stessa opinione in Mario Righetti, Manuale di storia liturgica, Milano 1964, t. I, p. 535; entrambi i testi sono di taglio manualistico, ma l’opinione sul posizionamento della croce da essi riferita ebbe una notevole diffusione anche in ambito specialistico, sebbene essa mancasse di un solido fondamento archeologico.
[5] Michel Andrieu, Les Ordines Romani du Haut Moyen Age 2, Lovanio, 1948, pp. 67 e ss.
[6] Louis Grodecki, Florentine Mutherich, Jean Taralon, Le siècle de l’an mil, 1973, p. 157.
[7] Ibidem, p. 108, 109.
[8] Bibliotheca Sanctorum, Roma 1961-1969, vol. VII, p. 864 s.
[9] Evodio Assemani, Acta Hipparchi, Philothei et sociorum, in Acta sanctorum martyrum orientalium et occidentalium, II, Romae 1748, pp. 124-147.
[10] Ibidem, p. 125.
[11] Erik Peterson, La Croce e la preghiera verso Oriente in Ephemerides Liturgicae, vol. 59 (1945), p. 52.
[12] Sul legame simbolico frequente nella letteratura dei Padri tra Cristo Redentore e la luce di Cristo “Sole di salvezza”: Franz Joseph Dölger , Sol salutis. Gebet und Gesang im christlichen Altertum, Münster, 2 ed., 1925 (LQF 4/5); Martin Wallraff, Christus verus sol. Sonnenverehrung und Christentum in der Spätantike, Münster, 2001 (JAC, Ergänzungsband 32). Cfr. anche Ignazio Tantillo, L’impero della luce. Riflessione su Costantino e il sole, in MEFRA 115 (2003), pp. 985-1048, e Stephan Berrens, Sonnenkult und Kaisertum von den Severern bis zu Constantin I. (193-337 n. Chr.), Stuttgart, 2004, pp. 229-234 (Historia Einzelschriften 185).
[13] Tert., Apol. XVI, (ed. E. Dekkers, CCL 1/1).
[14] F.J. Dölger, Sol Salutis.
[15] Klaus Gamber, Conversi ad Dominum, in Romische Quartalsschrift fur christiliche Altertumskunde und fur Kirchengeschichte 67 (1972), pp. 49- 64.
[16] Jean Baptiste Abbeloos, Acta Mar Kardaghi martyris, Bruxelles 1890, p. 34 s.; Anton Baumstark, Geschichte der syrischen Literatur, Bonn 1922, l’autore data gli atti al VI secolo; non si può dedurre con certezza in che epoca sia vissuto il santo, ma, trattandosi di un abate, è stato ipotizzato sia vissuto non prima del sec. IV; E.Peterson, La Croce, p. 53.
[17] [Io. Chr.], Hom. in Matth. LIV, 4 (P.G. 58, 537); cfr. anche Io. Chr., Contra Iudeos et Gentiles (P.G. 48, 826).
[18] Orig., De orat., 32 (ed. Koetschau, GCS 3).
[19] Tert., Advers. Marcion., III, 22 (ed. Kroymann, CCL 1/1). ; F.G. Dölger, Sol salutis, p.173.
[20] E. Peterson, La Croce, p. 63.
[21] Mt, 24, 30.
[22] Uwe Michel Lang, Rivolti al Signore, Siena 2006, passim.
[23] Min. Fel., Oct., IX, 4 (ed. B. Kytzler, “Bibliotheca Teubneriana”). Enrico Cattaneo, Il culto cristiano in Occidente, Roma 1992, pp. 59-60, Carlo Maria Kaufmann, Manuale d’Archeologia Cristiana, Roma 1992, pp. 59-60.
[24] Guglielmo Matthiae, Le chiese di Roma dal IV al X secolo, Rocca San Casciano 1962, p. 24.
[25] cfr. Richard Krautheimer, Architettura sacra, passim.
[26] Louis Duchesne, Liber pontificalis, Roma 1880, (LP), pp. 172- 176; cfr. anche Eus., V. C., III, 45; IV, 46 (ed. Winkelmann, GCS 7/1). L’attendibilità degli elenchi contenuti nel Liber pontificalis è stata confermata da studi recenti, che hanno evidenziato la veridicità dei dati riguardanti l’elencazione delle proprietà terriere, R. Krautheimer, Architettura sacra paleocristiana e medievale, op. cit., p. 22; cfr. anche Hermann Geertmann, Hic Fecit Basilicam, Leuven 2004.
[27] Sible de Blaauw, Cultus et Decor, liturgia e architettura nella Roma tardo antica e medievale, Città del Vaticano 1994.
[28] Theodor Klauser, Die konstantinischen altäre der Lateranbasilika, in Römische Quartalsschrift fur christliche Altertumskunde und für Kirchengeschichte, 43, 1935, pp. 179-186.
[29] Ursula Nilgen, Das fastigium in der basilica constantiniana un vier bronzesaulen des Lateran, in Romische Quartalsschrift fur christiliche Altertumskunde und fur Kirchengeschichte, 72, 1977, pp. 20 ss.
[30] Angela Donati (a cura di), Dalla Terra alle Genti, Milano 1996, p. 327; Margherita Guarducci, La capsella eburnea di Samagher, un cimelio di arte paleocristiana nella storia del tardo impero, Trieste 1978 (Estratto da Atti e memorie della Società Istriana di Archeologia e storia Patria, vol. 78, 1978, pp. 5-141)
[31] S. de Blaauw, Cultus et Decor, t. 2, p. 470 e ss.
[32] Ibidem, t. 2, pp. 485-492, pp. 566-579 e fig .19, l’autore propone anche una eventuale croce all’interno di una nicchia sul fronte dell’altare in basso.
[33] LP, 34, 17; H. Geertmann, Hic Fecit Basilicam, p. 63.
[34] LP, 34, 21.
[35] LP, 62, 2.
[36] LP, 59, 2.
[37] LP, 98, 49 .
[38] LP, 98, 87.
[39] LP, 105, 56.
[40] LP, 48, 2-3.
[41] LP, 53,7.
[42] LP, 98, 50; 98, 86.
[43] Giuseppe Bovini, Suppellettile d’oro e d’argento nelle antiche chiese di Ravenna in Corsi di cultura sull’arte ravennate e bizantina (1975), Ravenna, pp.139 e ss.
[44] Ibidem.
[45] G. Bovini, ”Le imagines Epicoporum” Ravennae ricordate nel Liber Pontificalis di Andrea Agnello”, in Corsi di cultura sull’arte ravennate e bizantina (1974), Ravenna, pp. 58, 61.



Pubblicato da Disputationes Theologicae



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