L’indignazione per lo scempio a Mosul dei combattenti barbuti del Califfato è stata tanto unanime quanto ipocritamente smemorata. Si è gridato (giustamente) alla barbarie, alla blasfema (in senso laico) profanazione della civiltà e della storia ad opera dello Stato islamico, definito addirittura “sedicente” da Adriano Sofri.
di Luigi Santambrogio
L’indignazione generale per lo scempio a Mosul, l’antica capitale assira Ninive, di statue, bassorilievi e antichissimi reperti fatti a pezzi dai combattenti barbuti del Califfato a colpi di piccone e martello pneumatico, è stato tanto unanime quanto ipocritamente smemorato. Si è gridato (giustamente) alla barbarie, alla blasfema (in senso laico) profanazione della cultura e della storia ad opera dello Stato islamico, definito addirittura “sedicente” da Adriano Sofri. Pure l’incauto lapsus ci riporta a un’altra barbarie, quella del terrorismo rosso (le sedicenti Brigate Rosse) inizialmente misconosciuta da intellos e opinionisti. Ma a parte ciò, resta la grande truffa della dimenticanza. Quella di cui soffrono i nostri sedicenti difensori della laicità e della libertà senza vincoli dalla violenza delle religioni.
Oggi i devastatori della civiltà hanno il volto truce degli uomini in nero dell’Isis o dei talebani che fecero saltare con la dinamite i Buddha di Bamiyan, macellai con barbe e sneaker americane ai piedi che accompagnano le loro mattanze con le shure del Corano e le lodi al Profeta. Ma la furia iconoclasta dei picconatori di Ninive è drammaticamente simile a quella messa in scena dai rivoluzionari della ragione laica, libertaria e fraterna nella Francia del Terrore giacobino. Quel che ha scritto ieri monsignor Luigi Negri, vescovo di Ferrara (clicca qui) trova tragica conferma e plastica raffigurazione nelle centinaia di statue di re e santi decapitati a Parigi dalle guardie di Robespierre, nelle cattedrali gotiche incendiate e distrutte per ordine dei comitati rivoluzionari, nelle preziose opere d’arte trafugate, nelle migliaia di teste di religiosi e cittadini cristiani messe alla ghigliottina. Un orrore costantemente censurato per il fatto che i vandali, qui sbarbati e con le coccarde, sono i celebrati protagonisti di quelle “rivoluzioni” della ragione che i manuali scolastici e il pensiero unico presentano come svolte di progresso epocali. La barbarie come l’altra faccia, il dark side, dell’umanesimo dei Lumi e della sua ragione atea e assoluta.
La rivoluzione del 1789, come scrive Duccio Rampoldi (Capolavori al rogo, Apulia, dicembre 2000) «è stata probabilmente la più grande distruzione di opere d’arte della storia umana». Ecco l’elenco che fa lo storico: le abbazie di Cluny e di Citeaux, che sono il grembo della civiltà europea, furono rase al suolo. Con i massacri di preti e di suore, l’abolizione degli ordini religiosi, la confisca di tutti i loro beni, la chiusura delle chiese dal novembre 1793 al marzo 1795 e dal 1798 al 1799, si procede anche a un piano sistematico di distruzione: decapitate le statue di tutte le cattedrali francesi, definite «indecenti e ridicole» da Albert Louis Mille, direttore della Bibliothèque Nationale. Furono devastate, a Parigi, Nôtre Dame e Saint-Germain-des-Près (quest’ultima poi trasformata in arsenale), fino a Semur-en-Auxerrois, Sens e Vézelay e le altre splendide chiese romaniche e gotiche del sud. Distrutte chiese millenarie come quella di Saint-Denis (con la tomba del Santo), la certosa di Champmol, la cappella sepolcrale dei duchi di Borgogna (ma si tratta solo di pochi esempi, l’elenco sarebbe lunghissimo). Dal novembre 1793 furono distrutti 434 dipinti nel deposito del Museo Centrale e nell’aprile ‘94 il Comitato di salute pubblica ne fece bruciare molti altri. Candelabri, ostensori e reliquiari furono portati alla Zecca per essere fusi (persino i fonti battesimali in bronzo); si arrivò a distruggere le grandi tappezzerie per prelevare i fili d’oro e d’argento. Una perdita irreparabile e senza eguali, che si somma alle razzie selvagge. Tutto per «schiacciare l’infame», come diceva Voltaire.
Ma la distruzione lucida, «per fanatico dogmatismo», è ancora Rampoldi a ricordarlo, ebbe luogo anche nel nostro Paese, col Risorgimento. Dopo le immense confische del patrimonio ecclesiastico, anche meravigliose chiese vennero trasformate in depositi del sale (con conseguenze micidiali sugli affreschi), bellissimi chioschi diventarono stalle di cavalli e antichi archivi delle abbazie finirono in fiamme. Una barbarie che Federico Zeri ebbe a denunciare, ma che nessuno mai ha studiato e quantificato. Vi fu, ad esempio, la demolizione dello splendido chiostro bramantesco dell’abbazia di Chiaravalle (pochi chilometri a sud di Milano). Pur essendo circondata da ogni lato da un’immensa pianura disabitata, nel 1862 si volle pervicacemente far passare la ferrovia per Pavia sopra quel chiostro, imitando anche in questo i francesi.
Nel Novecento, un’altra rivoluzione, quella comunista, si incaricò di “liberare” l’Europa dalle tenebre dell’oscurantismo e della superstizione che avevano riempito il Vecchio Continente di arte. Così a Mosca venne demolita la Cattedrale del Redentore, mentre centinaia di altre chiese furono rase al suolo, o saccheggiate e poi adibite a stalle o a granai o a musei dell’ateismo (dopo aver bruciato o derubato icone e arredi sacri). Silenzio anche sul rogo che nel 1945 – dopo la capitolazione di Berlino – divampò “misteriosamente” nei Musei di quella città. Lo stesso Zeri puntava il dito contro l’Armata Rossa. Il rogo divorò 417 opere, fra cui 158 capolavori italiani (in fiamme tre Caravaggio e cinque Paolo Veronese). Il critico romano denunciò anche i crimini consumati dagli antifranchisti durante la guerra civile spagnola, come «l’incendio della splendida cattedrale di Lerida, di età romanica (che venne fatta ardere per tre giorni, con le sue sculture, i suoi quadri, i codici miniati e gli arredi)». «Attraverso il corpo di Cristo, per secoli, la pittura europea ha affrontato il tema della sofferenza», sostiene il direttore della londinese National Gallery. É la cultura visiva che ha educato l’intero Occidente, cristiano e laico.
Insomma, nella storia anche recente della nostra civiltà, il jihadistmo ateo e laicista non è stato da meno di quell’orrore che adesso i tagliagola dello Stato islamico ci offrono come spettacolo mondiale. Non per ristabilire assurde parità, ma per capire fin dove si allungano le radici dell’intolleranza e della disumanità. Per scoprire quanto hanno tragicamente in comune i barbuti barbari del Califfato islamico e la laicitè simboleggiata in quel “Je suis Charlie” dei terribili giorni di Parigi: negarlo impedirebbe la comprensione di quello che sta accadendo. In Medioriente ma soprattutto nella nostra spaesata Europa.
© La Nuova Bussola Quotidiana (01/03/2015)
Nessun commento:
Posta un commento