febbraio 2, 2015 Benedetta Frigerio
Disfarsi nel pensiero mondano o «farsi cultura». Famiglia, sesso, moralità, fede e salvezza. Intervista a monsignor Livio Melina, preside del Pontificio istituto Giovanni Paolo II per gli studi su matrimonio e famiglia
Monsignor Livio Melina (foto sotto a destra) è il preside di uno dei più autorevoli think tank vaticani. Il “Pontificio istituto Giovanni Paolo II per gli studi su matrimonio e famiglia”. Istituto che ha “casa madre” a Roma e undici sedi nel mondo. Fondato nel 1981 dallo stesso san Giovanni Paolo II – «il Papa della famiglia» come lo ha definito il suo successore Francesco – prima di Melina (in carica dal 2006) al vertice di quella che è certamente la più tipica delle creature wojtyliane, si sono avvicendati Carlo Caffarra, attuale arcivescovo e cardinale di Bologna, e Angelo Scola, arcivescovo e cardinale di Milano. Sessantadue anni, sacerdote originario di Adria, oltre che dirigere il “Giovanni Paolo II”, Melina insegna teologia morale ed è visiting professor a Washington D.C. e Melbourne. Direttore scientifico della rivista Anthropotes, autore prolifico, membro e consultore di diverse accademie vaticane (Pontificia Accademia di Teologia, Pontificio Consiglio per la famiglia e Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari), collaboratore di storiche riviste teologiche (Révue Théologique des Bernardins e Communio), Melina è anche corrispondente dell’Académie d’Education et d’Etudes Sociales di Parigi.
A detta del cardinale di Milano Angelo Scola, il contesto storico attuale è caratterizzato da un «erotismo pervasivo». È la conseguenza della cosiddetta “rivoluzione sessuale”?
La rivoluzione sessuale si può definire come una serie di rotture del contesto naturale e culturale in cui l’esperienza dell’amore umano era vissuta nella tradizione cattolica: rottura del nesso tra sessualità e matrimonio (con una sessualità extraconiugale); rottura del nesso tra sessualità e procreazione (mediante la contraccezione e la riproduzione artificiale), rottura del nesso tra sessualità e amore (con una sessualità “liquida”). In tal modo il sesso è diventato una mina vagante e onnipresente, che invade lo scenario dell’esistenza attuale con la forza di un’autoevidenza che si impone. Mi ricordo che don Giussani una volta disse che per distruggere la mentalità cristiana del popolo, nell’immediato Dopoguerra i comunisti avevano cominciato a diffondere la pornografia, ricattando così l’uomo nel suo punto più debole. Negli anni Sessanta Marcuse segnalò lo stesso fenomeno di strumentalizzazione dell’eros nella società consumistica avanzata, che vuole “l’uomo a una dimensione”…
In effetti grava un forte pregiudizio puritano sul cristianesimo: si identifica infatti il cristianesimo con la morale, la morale con un sistema di proibizioni, e si pensa che queste proibizioni si diano soprattutto nell’ambito sessuale, così che alla fine di questa serie di false equazioni il cristianesimo è equiparato alla repressione sessuale. Come acutamente rilevò papa Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est: grava sul cristianesimo l’accusa nietzschiana di aver avvelenato l’esperienza più bella e attraente della vita. Entra qui poi una specie di complesso di colpa dei chierici, ulteriormente accentuato dai deplorevoli scandali di pedofilia. Così alla fine non solo alla Chiesa è intimato il silenzio su questo tema, ma anche nella Chiesa si finisce col pensare che sia meglio tacerne per non ostacolare l’evangelizzazione. E così il tema culturalmente più imponente, educativamente più decisivo, viene abbandonato alla mentalità mondana che pervade anche i fedeli, che quando ragionano di queste cose esprimono ormai non più un sensus fidelium teologicamente significativo, ma la mentalità mondana da cui dovremmo tutti convertirci per aderire alla novità di Cristo, che sola ci libera. Gesù non fece sondaggi quando propose il perdono dei nemici, l’indissolubilità del matrimonio, l’eucaristia o la parola della croce: sapeva benissimo come la pensavano persino i discepoli. Disse piuttosto: «Volete andarvene anche voi?».
Dunque? Cos’è in gioco oggi?
Si dovrebbero meditare le parole di papa Ratzinger in uno dei suoi ultimi discorsi: quello del 22 dicembre 2012 per gli auguri natalizi alla curia romana. Egli disse che nelle mutazioni e deformazioni che minacciano la famiglia, con la pretesa dei cosiddetti presunti “nuovi diritti”, con la ridefinizione del matrimonio, con l’abrogazione della paternità e maternità, è in gioco niente di meno che l’identità umana: senza le relazioni costitutive che ci danno identità – figlio, padre, madre, sposo e sposa, fratello e sorella – l’uomo è solo un individuo fragile manipolabile da parte del potere. Ma la questione è anche radicalmente teologica: è in gioco cioè il linguaggio originario dell’umano, di cui si è servito Dio nella Rivelazione per parlarci. Che parole ci resteranno per parlare di Dio senza il lessico di queste relazioni familiari?
Tra le questioni pubbliche più dibattute vi è certamente il tema della differenza/indifferenza sessuale. Tant’è che, tentati da una certa educazione sentimentale, spesso anche i cattolici faticano a sostenere con sicurezza che il matrimonio è fra un uomo e una donna.
La differenza sessuale, che segna il corpo fin nelle fibre più intime e lo orienta a un modo specifico di relazione, rappresenta un fondamentale riferimento antropologico, con uno spiccato carattere vocazionale. È una chiamata: cioè non è solo un dato biologico casuale e neppure un fattore esaurientemente stabilito nella biologia. È invito a una risposta e a un cammino che chiede educazione per assumere la forma di un legame in cui si realizzi il dono di sé nell’amore, col carattere di esclusività, totalità e irrevocabilità di una promessa e con un’intrinseca sovrabbondanza di apertura alla vita nella procreazione. La perdita dell’idea che esista una natura umana comune non manipolabile, che ci siano legami originari che danno identità e missione alla vita (come avviene nell’ideologia del gender), rende impossibile pensare a un bene comune della società. Un conto è il rispetto dovuto a tutte le persone indipendentemente dal loro orientamento sessuale, un conto sono i diritti della famiglia autentica, base del bene comune della società. Come si può non comprendere che è la famiglia composta da uomo e donna, radicata stabilmente nel matrimonio e impegnata all’educazione dei figli che crea quel “capitale sociale” di atteggiamenti, di cultura e di virtù su cui si basa il vivere insieme? Come non capire che se questo manca si frantuma il legame sociale?
Come attestano tante risposte al questionario di preparazione al Sinodo dei vescovi sulla famiglia, su morale e concezione dell’uomo c’è grande confusione tra i fedeli. Una confusione esasperata dal bombardamento mediatico tecnologico sempre più pervasivo.
La morale gode oggi di una cattiva fama nella società e anche nella Chiesa stessa. Il discorso corrente facilmente ha come obiettivo scontato il “moralismo”. E non senza ragioni: quando si pensa alla morale come a una serie di proibizioni che limitano la libertà e pretendono di violare la coscienza, non può che risultare giustificata un’istintiva avversione. Ma è davvero questa la morale? D’altra parte, quando non si riesce a distinguere tra moralismo e autentica esperienza morale, si finisce nell’arbitrarietà del soggettivismo, nella subordinazione a ciò che stabiliscono le statistiche sull’opinione prevalente o in un nuovo più opprimente legalismo delle regole (“non fumare nei parchi pubblici”, “non diventare obesi”, “non mangiare carne di animali”, “non gettare rifiuti nei cassonetti sbagliati” …). Alla radice di questa reputazione negativa della morale sta la frattura tra la persona e le sue azioni. Le nostre azioni, come scrisse Karol Wojtyla in Persona e atto, sono espressione della nostra persona e nello stesso tempo esse ci costruiscono, sono i nostri genitori, secondo la suggestiva osservazione di san Gregorio di Nissa: infatti agendo noi non solo provochiamo cambiamenti nel mondo esteriore, ma diventiamo quello che facciamo, cambiando prima di tutto noi stessi con le nostre scelte. Chi ruba diventa un ladro e chi mente diventa un bugiardo. Noi non siamo un soggetto astratto costruito indipendentemente dal nostro agire: siamo un io-in-azione, che realizza liberamente il dono originario del suo essere attraverso le sue azioni, nelle relazioni con gli altri e in un contesto culturale che egli contribuisce a configurare. Per questo le nostre azioni hanno sempre una dimensione morale.
Ma la società plurale contemporanea è segnata dalla coesistenza di differenti visioni del mondo. Come concepire il rapporto tra morale e leggi?
È una domanda cruciale. Infatti la morale esige di fondarsi in una visione globale della vita, in un’antropologia, in una concezione dell’uomo e di Dio, mentre le leggi delle nostre società pluralistiche hanno bisogno di godere del consenso di tutti. D’altra parte mentre la morale ha come prospettiva quella del bene della persona, la legge civile mira come suo ideale alla giustizia nella convivenza tra gli uomini, che è uno scopo più limitato. L’appello alla condivisione di una serie di princìpi universali di giustizia fondati sulla ragione comune, pur essendo ancora teoreticamente argomentabile, è pragmaticamente impercorribile, stante il pluralismo e la perplessità post-moderna sulla universalità della razionalità umana. Come procedere allora? Mi pare si possa convenire con il cardinale Scola su due presupposti per una convivenza pubblica. In primo luogo occorre riconoscere che, al di là del pluralismo delle visioni, il fatto della convivenza con gli altri rappresenta un bene da preservare e da coltivare, e questo esige il rispetto per la libertà e i diritti delle persone. Non è libertà quella che pensa di poter irridere tutto, anche ciò che è sacro per l’altro. In secondo luogo, sulle tante questioni controverse, va pragmaticamente percorsa la via del dialogo aperto tra le varie identità: la chiarezza del proporre la propria visione delle cose, senza presunzione di imporre la propria visione agli altri, ma anche senza la censura di una laicità sospettosa e ostile alla religione, permette un confronto aperto nel quale poi democraticamente potrà affermarsi la soluzione concreta che riuscirà a convincere di più della propria bontà.
Di fronte al diffondersi della mentalità laicista, che tende a espellere Dio dalla vita concreta dell’uomo, con quale criterio i cristiani devono tentare un pensiero e un’azione pubblica da offrire alla riflessione comune?
L’affermazione di san Giovanni Paolo II che «la fede deve farsi cultura» non è una scelta strategica valida solo in certi momenti storici. È la descrizione di un’esigenza intrinseca e irrinunciabile dell’identità cristiana, che deve esprimersi nell’agire e quindi deve confrontarsi con le grandi questioni culturali che si agitano nella società. Se non lo fa, il cristiano non solo viene meno al suo compito specifico di missione nel mondo e si trasforma in sale scipito, che presto o tardi finirà calpestato dai passanti, ma egli stesso non riuscirà più a capire il senso di quella fede che professa ma che ha relegato nell’intimismo. Egli, senza accorgersene, sulle questioni antropologicamente e socialmente decisive finirà con una sottomissione agli “schemi del mondo”, come dice san Paolo e come ripeteva spesso don Giussani sulla scorta della famosa Lettera ai cristiani dell’Occidente scritta all’inizio degli anni Settanta dal teologo ceco Josef Zverina.
Per i cristiani la ragione ultima della difesa dei valori è Cristo stesso. Perché possono proporli anche ai non credenti?
Invece che di “valori”, preferisco parlare di “beni”. Il discorso dei valori infatti rimanda alla percezione soggettiva della coscienza, mentre il bene è qualcosa che oggettivamente si dà nella realtà ed è accessibile alla ragione secondo un ordine e una gerarchia. La questione che lei pone riguarda ultimamente il nesso tra incontro con Cristo ed esperienza dell’umano. L’incontro con Cristo si verifica nella sua capacità di trasformare la vita e di renderla più conforme a ciò che il cuore di ciascun uomo attende. E proprio così è in grado di convincere della sua convenienza e addirittura della sua verità. È una verifica che ciascuna persona deve continuamente fare nel vivo delle sfide della propria esistenza e che la stessa comunità dei discepoli di Gesù con umile fierezza può proporre alla comunità degli uomini. E gli uomini, anche non cristiani, possono riconoscere così che alcuni beni, rivelatisi storicamente in un contesto cristiano, corrispondono davvero a quanto anch’essi possono apprezzare come valido e quindi adottarli, pur senza arrivare ad aderire alla fede, che è la sorgente della loro emergenza storica. Così storicamente è accaduto per il valore unico e il primato della persona rispetto allo Stato, anche a partire dalla testimonianza dei martiri cristiani («si deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini»); così è accaduto per il matrimonio monogamico nel mondo della Roma antica, che ha saputo trasformare la cultura permissiva che conosceva, legittimava e praticava già il divorzio, l’aborto e l’omosessualità, dell’epoca. La Lettera a Diogneto, antico testo patristico, parla proprio di questa “differenza” cristiana ma anche della sua capacità attrattiva e trasformante. È una sfida affascinante che si pone a ogni epoca della storia e in forme sempre singolari.
Tempi, 2 febbraio 2015
Nessun commento:
Posta un commento