I testi di riferimento in preparazione al prossimo Sinodo sulla famiglia sono tre: la Relatio finale (= R), l’Intervento di Papa Francesco alla chiusura del Sinodo straordinario e il Questionario (= Q) inviato a tutte le diocesi. Non sono così sicuro che questi testi saranno letti da tutti con la dovuta attenzione. Per questo vorrei suggerire una griglia di lettura per R e Q (lascio fuori l’Intervento, perché è parola del Papa). Questa analisi, evidentemente, porta i limiti del mio modo di interpretare i testi, e vuole solo essere un contributo alla loro comprensione. Mi baso anzitutto sull’esame delle parole, accompagnandole con i numeri delle ricorrenze. Siccome Q ci invita anche a rilevare eventuali carenze, non mancherò di fare anche qualche osservazione. Ricordiamo che in R ci sono dei paragrafi da “bollino rosso”, in quanto non hanno ottenuto la maggioranza richiesta dei 2/3. Essi sono tre, e noi li segnaleremo con un asterisco: R 52*.53* e 55*. Il n. 41 è passato per soli 3 voti.
Chiediamoci anzitutto chi sono i destinatari di questi testi: certamente sono le famiglie, cattoliche o cristiane, ma anche «tutte le famiglie del mondo» (R 1). La Chiesa vuole parlare a tutti, e quindi anche alle istituzioni civili e a coloro che operano nella politica: «È responsabilità dello Stato creare le condizioni legislative e di lavoro per garantire l’avvenire dei giovani e aiutarli a realizzare il loro progetto di fondare una famiglia» R 6 (cf Q 1). La parola più frequente che troviamo nei due documenti evidentemente è famiglia (71x in R, 39x in Q), insieme a famiglie (28x in R, 21x in Q). Giustamente in R 4 si ribadisce che per famiglia si intende (solo, aggiungerei io) quella «fondata sul matrimonio tra uomo e donna». (cf. anche R 14.18.19; Q 4). Seguono le parole vita (47x in R, 22x in Q), amore (42x in R, 9x in Q), misericordia (8x in R, 5x in Q). Il termine pastorale ricorre 21x sia in R che in Q, segno di un chiaro orientamento, confermato anche dalla frequenza dei termini cura pastorale, prendersi cura, curare (R 9.23.25.41.44.51x; Q 15.32.35.40.42x). Quanto al termine dottrina, esso ricorre solo 3 volte in R in contesti piuttosto marginali, come di passaggio, riferito alla dottrina che Gesù ha insegnato e tradotto nella pratica (R 14), o a quella presente nel Vangelo (R 23), o alla dottrina del Magistero (R 18); in Q (introd.) vi è una messa in guardia a non fare una «pastorale meramente applicativa della dottrina» (frase enigmatica e sibillina!). Il termine dottrinale è assente.
La parola matrimonio è chiaramente molto presente, connotato secondo la dottrina della Chiesa: indissolubile (R 14.23.52*), fedele (R 23.59), fecondo (Q 17), aperto alla trasmissione della vita (R 18.21.57.59). Significativo è l’uso del termine bellezza: b. della famiglia (R 4.23); b. del matrimonio (R 23); b. dell’apertura alla vita (R 58). Più volte compare il termine desiderio: d. di famiglia (R 2, Q 6); d. di impegnarsi (R 9); d. di Dio (R 11); d. di vivere l’indissolubilità (Q 10). Anche il termine donna ha una notevole presenza, e vale la pena analizzarla: diritti della d. (R 5); dignità della d. (R 8); la d. oggetto di discriminazione (ivi); mutilazione genitale della d. (ivi). I bambini sono pure spesso evocati: diritti dei b. (R 5); b. nati fuori del matrimonio (R 8); b. vittime delle lacerazioni familiari (R 8.47); b. di strada (R 8); l’adozione di b. (R 58); impegno educativo verso i b. (R 61); attenzione dei b. (Q 1). Frequente è anche il termine figli (16x in R, ma assente in Q!).
L’approccio a tutta la problematica relativa alla famiglia (e cioè preparazione al matrimonio, vita comune, educazione dei figli, separazioni, divorzi, ecc.), è più di tipo psicologico e sociologico che morale. Notiamo che sono assenti i termini “fidanzamento”, “fidanzati”. Con frequenza ritorna il termine crisi: c. dell’istituto familiare (R 2); c. della fede (R 5.32); c. del matrimonio e della famiglia (R 5.32.44) ; c. demografica (R 6); c. della coppia (R 10). Questa parola è sparita da Q. Nelle questioni che toccano più direttamente la sfera sessuale, la R non ha voluto cadere nel “moralismo”, che avrebbe comportato una lunga serie di divieti (questo è peccato..., questo è peccato..., questo è peccato...), ma fa un approccio più psicologico. Così si parla di «individualismo esasperato che snatura i legami familiari», di un «soggetto che si costruisce secondo i propri desideri assunti come un assoluto» (R 5); si parla di «maturazione della dimensione emozionale» (ivi). Molto rilievo è dato all’affettività: si parla di «sviluppo affettivo» (R 9); si prende atto di una tendenza verso una «affettività senza limiti di cui si vogliono esplorare tutti i versanti, anche quelli più complessi»; si nota un «fragilità affettiva... narcisistica, instabile e mutevole» (R 10). Si constata che molti «faticano a trovare i modi per crescere... e tendono a restare negli stadi primari della vita emozionale e sessuale» (ivi). Tuttavia, senza ricadere nel moralismo, una maggiore attenzione alla morale non sarebbe stata male. In effetti, il termine morale compare una sola volta, e come di passaggio, in una formulazione che mi sembra un po’ ambigua: «Va riscoperto il messaggio dell’Enciclica Humanae Vitae di Paolo VI, che sottolinea il bisogno di rispettare la dignità della persona nella valutazione morale dei metodi di regolazione della natalità» (R 58). Questo è tutto.
Il termine peccato compare 4 volte, ma sempre in senso generico: «...l’amore che salva dal peccato» (R 13); la famiglia istituita dal Dio Creatore «è stata danneggiata dal peccato» (R 15); «in Cristo siamo liberati dal peccato» (R 31); occorre distinguere tra «tra situazione oggettiva di peccato e circostanze attenuanti» (R 52*). Quest’ultima affermazione è chiara per un moralista, ma forse meno per il cristiano comune (che effetto producono le circostanze attenuanti? cambiano la natura del peccato?). Q 8 si chiede quali siano le «dimensioni di peccato da evitare e superare». La risposta è lasciata ai lettori. In R tuttavia sono segnalati alcuni comportamenti oggettivi di peccato, quali: prostituzione (R 10), poligamia (R 7), sfruttamento sessuale dell’infanzia (R 8). Sembra comunque un po’ poco. Il peccato di adulterio non è mai nominato in nessun documento! Neppure la piaga dell’aborto è menzionata, se non in Q 44. R 55* parla di persone con «orientamento omosessuale», con «tendenze omosessuali», e invita ad accoglierle «con rispetto e delicatezza», ma evita di dire che l’esercizio dell’omosessualità è oggettivamente peccato. La contraccezione non è mai nominata, come non sono mai nominate le questioni riguardanti la fecondazione artificiale (omologa o eterologa), cose tutte che concernono la vita di coppia.
Nonostante queste lacune, c’è la nota positiva di una notevole presenza del termine grazia: g. dell’alleanza (R 13); g. di Cristo (R 14.16.21.26); g. necessaria per testimoniare l’amore di Dio (R 16); g. necessaria per vivere la vita di comunione (R 16); g. propria degli sposi (R 17); g. del battesimo (R 21); g. del sacramento nuziale (R 21.30; Q 11); nel matrimonio si riflette per g. il mistero della Trinità (23); pedagogia divina della g.; la g. di Dio che opera (25); primato della g. (44); priorità della g. (Q 24); azione di riconciliazione della g. (44); la g. rende possibile il perdono (47). Il termine virtù, come cosa importante nella vita di coppia, compare in R 9.60 e in R 39 con la menzione esplicita della castità, vista come «condizione preziosa per la crescita genuina dell’amore interpersonale». Notiamo che nella Relatio introduttiva quest’ultima parola era assente. Passiamo ora a qualche a qualche punto interrogativo. Per rimanere sul terreno del linguaggio, sorprende, in un testo che vuole essere comunicativo, trovare più volte la parola nubendi (R 21.39.48; Q 28) che è sconosciuta a Word e credo a buona parte degli italiani (NB. non tutti i dizionari la portano; il Devoti dice: nubendo, “chi sta per sposarsi”; gerundio del verbo nubo, che significa “maritarsi”, perché la sposa nelle nozze andava velata alla casa dello sposo. Fine della nota). L’uso poi del termine famiglia o famiglie a volte sembra essere ambiguo, visto il contesto culturale in cui ci troviamo. Così, dire che «ogni famiglia va innanzitutto ascoltata con rispetto e amore» (R 46) potrebbe essere inteso erroneamente come “ogni tipo di famiglia”. In R 27 si chiede di «prestare attenzione alla realtà dei matrimoni civili tra uomo e donna»: la specificazione “tra uomo e donna” potrebbe sembrare superflua, ma poiché in alcuni paesi sono riconosciuti anche altri tipi di matrimonio civile, l’aggiunta sembra essere opportuna, a meno che non dia adito ad ambiguità. Non si capisce poi che cosa siano le «famiglie monoparentali» (R 47): dovrebbero essere quelle con un solo genitore: ma chi sono in concreto? Ragazze madri? Vedove/i con figli a carico? Separate/i con figli a carico?
C’è poi il concetto di «pienezza del matrimonio» che pone qualche problema. In R 7 si constata che in alcune società vige la consuetudine del «matrimonio a tappe». Non viene espresso nessun giudizio morale su di esso, ma dal contesto sembra che sia valutato in modo negativo. D’altro lato però si parla di un «cammino verso la pienezza del matrimonio» (R 43) o di «sviluppo verso il sacramento del matrimonio» (R 27). Sembra che qui si applichi un concetto usato in ambito ecumenico: nella Chiesa Cattolica, affermano i teologi, vi è la pienezza della Chiesa di Cristo, mentre nelle altre denominazioni cristiane vi sono, in misura più o meno grande, solo “elementi” della vera Chiesa. Analogamente, dice il documento, ci sono delle convivenze che attuano alcuni elementi del matrimonio cristiano (come la fedeltà e l’apertura alla vita), ma non c’è ancora «la pienezza del matrimonio» (R 41). La pastorale dovrebbe accompagnare queste coppie in questo cammino verso il sacramento del matrimonio (cf R 27 e Q 22). Mi domando però se questo non sia un modo per introdurre una specie di “matrimonio a tappe”. Mi chiedo poi se insistere sugli «elementi positivi» (Q 41) presenti nei matrimoni civili e nelle convivenze sia veramente di aiuto al cammino di quelle coppie. Ricordiamo che questo Q 41 è passato per pochissimi voti.
In conclusione, a parte i generici inviti a una maggiore attenzione alle situazioni di sofferenza e di fragilità, le uniche proposte concrete fatte da R sembrano essere quelle che riguardano i divorziati risposati. Si ha l’impressione che su questo argomento i testi facciano una specie di pressione psicologica attraverso l’uso di certe espressioni quali: «la necessità di un radicale rinnovamento della prassi pastorale» (R 37); «la necessità di scelte pastorali coraggiose» (R 45); «l’urgenza di cammini pastorali nuovi» (ivi). Da parte sua il Q (parte Ia) avverte in maniera piuttosto perentoria di evitare «schemi e prospettive proprie di una pastorale meramente applicativa della dottrina, che non rispetterebbe le conclusioni dell’Assemblea sinodale straordinaria, e allontanerebbe la loro riflessione dal cammino ormai tracciato»; e nella parte IIIa Q dice che è importante continuare nella «svolta pastorale» iniziata con il Sinodo Straordinario, e che «è necessario far di tutto perché non si ricominci da zero». Capito?
Più in concreto, si tratta di studiare l’accesso ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia per i divorziati risposati (R 52*). Oltre allo snellimento dei processi di nullità (R 48), è stata proposta, per i divorziati risposati che rimangono tali, anche la via di un “cammino penitenziale” sotto la guida del vescovo diocesano. Mentre nella Relatio introduttiva al Sinodo si prendeva a modello la “oikonomia” delle Chiese ortodosse, nell’attuale R questo richiamo è sparito, ma ritorna in Q 38: «La pastorale sacramentale nei riguardi dei divorziati risposati necessita di un ulteriore approfondimento, valutando anche la prassi ortodossa». Ho già scritto su questo, mostrando come queste “due vie” sono in realtà incompatibili (vedi...). R 53* ritiene anche interessante la proposta fatta da alcuni Padri, i quali sostengono che se le persone divorziate e risposate o conviventi non possono ricevere la Comunione sacramentale, «possono però ricorrere fruttuosamente alla comunione spirituale». Al che altri Padri hanno osservato che se possono fare la “comunione spirituale” non si vede perché «allora non possano accedere a quella sacramentale». Essi fanno questo ragionamento: se possono fare la comunione spirituale, significa che sono in grazia di Dio; se sono in grazia di Dio, allora possono fare anche la comunione sacramentale. In realtà questo ragionamento è fallace.
Anche un peccatore può essere in una qualche comunione spirituale con Dio: quando prega e chiede perdono, è sotto l’azione della grazia, ma ritrova la grazia santificante, e quindi la vera e piene comunione con Dio, solo quando ha ricevuto l’assoluzione sacramentale. In questo momento delicatissimo per la vita della Chiesa, le parole del discorso finale del Papa devono essere meditate e pregate, tenendo presente che salus animarun suprema lex (la salvezza delle anime è la legge suprema). La conclusione del discorso del Papa la facciamo anche nostra: «Quindi, la Chiesa è di Cristo - è la Sua Sposa - e tutti i vescovi, in comunione con il Successore di Pietro, hanno il compito e il dovere di custodirla e di servirla, non come padroni ma come servitori. Il Papa, in questo contesto, non è il signore supremo ma piuttosto il supremo servitore - il "servus servorum Dei"; il garante dell'ubbidienza e della conformità della Chiesa alla volontà di Dio, al Vangelo di Cristo e alla Tradizione della Chiesa, mettendo da parte ogni arbitrio personale, pur essendo - per volontà di Cristo stesso - il "Pastore e Dottore supremo di tutti i fedeli" (Can. 749) e pur godendo "della potestà ordinaria che è suprema, piena, immediata e universale nella Chiesa" (cf. Cann. 331-334)».
La nuova Bussola Quotidiana 03-02-2015
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