sabato 28 febbraio 2015

50 anni fa la prima Messa in lingua italiana : sì, ma nel rito tradizionale e bilingue!









Il Quotidiano Avvenire ha voluto dedicare un Articolo alla prima Messa celebrata dal Beato Paolo VI il 7 marzo 1965 con il Messale riformato italiano-latino a norma dal Concilio Vaticano II e pubblicato il 12 marzo di quello stesso anno con l'imprimatur, in Italia, del Cardinale Giacomo Lercaro, Presidente per la Liturgia della Conferenza Episcopale Italiana.
L' illustre Teologo (e Compositore) Mons. Pierangelo Sequeri ha scritto alcune “considerazioni” di circostanza. 

Su Vatican Insider A.Tornielli ha invece sottolineato la provvisorietà temporale del Messale del ’65 protagonista dell’anniversario.
Il titolo del lungo Articolo è eloquente: “Cinquant'anni fa la prima versione del rito romano post-conciliare, introdotta in forma sperimentale nel marzo 1965. È il primo abbozzo della riforma liturgica che porterà al nuovo messale, entrato in vigore nel novembre 1969” . L'Articolo di Tornielli reca però qualche inesattezza quando parla di "nuovo rito" : in realtà il Messale del '65 sia pur con alcuni tagli è ancora il Messale Romano che i Padri Conciliari tennero a tutelare.

E’ vero che la brevissima vita del Messale del '65 induce a considerare la sua transitorietà prima dei cambiamenti radicali operati dal Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, ma le dichiarazioni di alcuni protagonisti del Concilio fanno pensare che dopo la pubblicazione del Messale del '65 la "riforma liturgica conciliare" fosse stata ritenuta conclusa.

L’orientamento liturgico dei Padri Conciliari fu difatti ribadito in occasione del primo Sinodo dei Vescovi quando la cosiddetta “messa normativa” venne rifiutata con 43 non placet, moltissime e sostanziali riserve 62 juxta modum e 4 astensioni.
La determinazione dei 187 Padri Sinodali non bastò perché appena un anno dopo la stessa rifiutata "messa normativa" venne imposta d'autorità come "Novus Ordo Missæ".
Non mortifichiamo dunque i ricordi di coloro che hanno vissuto quei momenti : l’Ordo Missae di cinquant’anni fa, come si può chiaramente vedere dalle due foto del Messale, era bilingue e, sostanzialmente, nella forma tradizionale del Messale Romano.


Dall'Offertorio al Per ipsum le preghiere Sacerdotali erano solo in latino.



Επίσης, σε μας τους αμαρτωλούς ( A.C.)




Messainlatino, 28 febbraio 2015
 

ESPOSIZIONE BANDIERONE FAMIGLIA A FIRENZE E PISA- FOTO BELLISSIME PER LA FAMIGLIA!






Con questo gesto simbolico intendiamo riaffermare la centralità assoluta della famiglia per lo sviluppo personale e il progresso sociale, oggi che la famiglia è tenuta nella peggiore indifferenza politica ed è sotto l’attacco di ideologie relativiste che ne vorrebbero dissolvere le inimitabili specificità, fondate soprattutto sulla naturale complementarietà sessuale tra l’uomo e la donna.

In particolare, La Manif ribadisce il diritto intangibile di ogni persona di poter crescere con un papà e una mamma, e di non essere degradata a prodotto commerciabile con le tecniche di fecondazione artificiale o di utero in affitto. La Manif denuncia anche i gravi attentati contro la libertà educativa delle famiglie attualmente in corso nelle scuole italiane, dove tengono lezioni sulla sessualità e l’affettività associazioni gay o femministe ispirate ad ideologie prive di ogni fondamento scientifico e psicopedagogico.





Per approfondimenti: www.lamanifpourtous.it
Info: lamanifpourtouspistoia@gmail.com
https://www.facebook.com/lmptpistoia

Sposarsi salva la vita!

matrimonio

venerdì 27 febbraio 2015

Fatima, Padre G. Elia (Esorcista): “Avanzano tenebre e tribolazioni. Ma non si sente il grido della Chiesa”






Marta Moriconi

E’ stato il Servo di Dio Candido Amantini, Santo esorcista, a renderlo partecipe del suo ministero e a condurlo su questa strada. Padre Giacobbe Elia aveva infatti con lui un legame non solo di amicizia, ma anche spirituale e fortissimo. Grazie a quest’incontro ha cambiato la sua vita di medico ed esperto di bioetica. Nel 1987 viene incaricato esorcista per la Diocesi di Roma (sarà il primo sacerdote dopo P. Candido Amantini a ricevere questo mandato). Da allora la sua vita è fatta di preghiere, iniziative, scrittura: tanta. L’ultimo libro è “L’inganno delle ideologie,  Il graffio del diavolo”, edito Koinè e ha al suo attivo numerosi articoli e pubblicazioni tra cui: “L’urlo muto”, “La caduta del Diavolo di sant’Anselmo d’Aosta”, “Le preghiere del popolo di Dio”, “Le preghiere della Tradizione Cristiana”, “Il segreto di Fatima”, “Salvati da una profezia”. A lui abbiamo chiesto di chiarire e interpretare il momento che stiamo vivendo, con l’Isis “a Sud di Roma”, e che significato dare alle persecuzioni fisiche e culturali che i cristiani stanno subendo.


La persecuzione cristiana da parte dell’Isis. Come va letta, è diabolica Padre o cos’altro? 

A mio avviso la persecuzione contro i cristiani è nel Dna stesso dell’islamismo e affonda le radici in Maometto, ed è sbagliato considerarla una rivendicazione contro le Crociate. Questo può farlo chi non ha alcuna cognizione storica. Le Crociate sono state una risposta all’invasione islamica in luoghi che storicamente erano cristiani. Secondo: la prima ondata che vide Maometto stesso vincitore con la quinta colonna costituita dagli ebrei si risolse in una decapitazione totale di tutta questa tribù ebraica che poi non volle aderire a Maometto. Quindi la persecuzione non è solo contro i cristiani ma anche contro gli ebrei. Certo con  una differenza: per loro, lo ricorda proprio una loro notissima ammonizione, i cristiani sono considerati dei blasfemi idolatri perché adorano un Dio che non è unico ma è Trino e quindi come tali degni di morte. A questo punto parlare delle varie fazioni è sbagliato perché al massimo possono avere al loro interno leggere sfumature di differenza”.

Ha esperienza di quanto dice? Davvero ci considerano idolatri blasfemi senza possibilità di salvezza? 

Io ero amico di mons. Luigi Padovese (il 3 giugno 2010 fu ucciso a coltellate dal suo autista a Iskenderun. ndr)  con cui feci il giro della Turchia. Bene, quando lui fu fatto Vescovo fu decapitato. Fu detto al suo inserviente, l’autista, di fare quest’operazione e fu fatta. Hanno detto che era matto… ma bisogna ricordare i fatti, la storia spiega“.

La persecuzione fisica che i cristiani stanno subendo non solo in Medio Oriente, ma anche in Africa, nasce dall’odio alla fede cattolica o è altro? 

“Assolutamente sì. Una delle scrittrici più note che se ne accorse fu proprio la Fallaci. Guerra culturale e di costumi? Rispose che è stupido chi parla di questo, e che non avevamo ancora capito che era in atto una guerra di religione. E come tale per lei trascinava gli aspetti culturali, ma era un effetto questo. Per lei l’Islam non poteva considerarsi una religione vera e propria perché non aveva prodotto cultura”.

La persecuzione fisica è una cosa. Però c’è chi denuncia anche una persecuzione culturale in Occidente nei confronti del cristianesimo. Lei la rintraccia? E dove? 

“L’Occidente sta andando incontro a un desiderio di suicidio. Il mio pensiero poggia sempre su una base storica. Papa Paolo VI, al di là della considerazione di questa figura, da Sommo Sacerdote parlò di un fumo di Satana penetrato nel Tempio stesso di Dio. Bene: questo avanzare delle tenebre non è altro che rifiutare la luce, che è Dio. Tanto è vero che si stanno distruggendo i segni, il Cristianesimo è fatto di Chiese e Cattedrali che hanno fatto lo splendore dell’Europa e che non si rispettano più. Si sta cercando di cancellare ciò che rimarrà incancellabile. Per dirla con Goethe l’Europa si è costituita camminando in latino. Però c’è questo desiderio di distruzione, che è nato con il Comunismo e… qua torniamo a Fatima. Ormai c’è una sorta di senso di colpa di cui l’Occidente si è fatto carico quasi avesse commesso un delitto”.

Fatima annuncia tribolazioni per il mondo. Dopo di che trionferà il Cuore Immacolato di Maria. Lei lo rintraccia in questa fase storica? E’ questo il periodo di sofferenze e atrocità? 

“Assolutamente sì. Ci siamo. In pieno”.

Passiamo all’apparizione a Leone XIII che vede  Satana che chiede a Gesù di concedergli il mondo per 100 anni. Facendolo partire dall’apparizione di Fatima ad oggi sembrerebbe che ci siamo dentro… Per chi crede e ci crede, come può prepararsi un cristiano a fuggire il male? 

“La Madonna appare nel ’17 a maggio e poco dopo c’è l’ingresso di Lenin. E dà un rimedio: il Santo rosario. E’ l’unico rimedio contro i mali che verranno. Per questo ho scritto un libro su Fatima, l’ha detto Lei che Satana avrebbe sparso i suoi errori nel mondo. Io commentando ho scritto che gli errori nel mondo vanno intesi anche all’interno della Chiesa. Se c’è un momento dove il Magistero e chi dovrebbe dare grande forza e orientamento chiaro ai cristiani non grida è questo… Mi viene in mente la grande Santa Caterina da Siena quando parlando al Papa disse: “Voglio che voi facciate sentire il mugghio vostro”, rifacendosi a quell’idea antica che il leone ruggendo potesse ridar vita ai morti, “perché loro possano reagire e seguirti” disse. E ancora: “Voglio che tornate a Roma”. Lo squillo della tromba, per usare la metafora di San Paolo, non si sente. Per cui c’è una frantumazione tra i cristiani e un individualismo accentuato”.

Parlo all’esorcista prima ancora che all’uomo di cultura: il male è facilmente rintracciabile a livello mondiale, ma a livello personale dove lavora?

“Nell’infelicità. In maniera anche molto chiara. L’ho scritto nel libro di Fatima. Silvano Areti, tra i più grandi psichiatri mondiali e inattaccabile in quanto si professa ateo, riconosce che la nostra società per la prima volta nella storia viene aggredita da una delle peggiori malattie: la depressione. Io da medico posso dire che la depressione aggredisce le persone quando incorrono in una perdita di senso. Perché se la persona ha un senso nella sua vita e lo persegue quel senso ha la capacità di risollevarla continuamente. Senza senso è tutto senza luce”.

Considerando che ha scritto il libro su Fatima… il Terzo Segreto è stato rivelato completamente? 

“Paradossalmente, mentre aumenta da parte dei fedeli la richiesta degli esorcisti e di sacerdoti preparati a fare esorcismi siamo in un campo lasciato assolutamente al fai da te. Di fronte a una battaglia vera c’è la diserzione da parte nostra. Da parte della Chiesa e dei sacerdoti. C’è un deserto: dov’è la dottrina che viene presentata nella sua genuinità? Se la fede è una proposta la proposta deve essere totale. Il peccato implica un cammino ed è previsto, ma in questo modo non ci viene più detto che via seguire. Ma semplicemente si è fatta la retorica del dialogo che non ha nulla a che fare con la fede: Dialogo è un termine che non è mai presente in nessuno dei libri della Scrittura. Non esiste proprio. Nei libri c’è l’Annuncio. Quando una mamma vede che il figlio è in pericolo sull’orlo del precipizio e sta andando di sotto non gli dice di non fare quella cosa ma grida!”












intelligonews.it   27 febbraio 2015



MARX O LUTERO? «NON SIAMO UNA FILIALE DI ROMA E NON SARÀ UN SINODO A DIRCI COSA FARE IN GERMANIA»





di Matteo Matzuzzi


Che i vescovi tedeschi fossero i più battaglieri sulle materie oggetto della riflessione sinodale lo si sapeva già. Lo scorso agosto, dopotutto, annunciarono che sarebbero calati su Roma con un documento recante in calce tutte le firme dei presuli favorevoli alle tesi proposte dal cardinale Walter Kasper. Oggi, poco soddisfatti dei risultati del primo appuntamento, il Sinodo straordinario dello scorso ottobre, si preparano alla sfida finale. Il presidente della loro conferenza episcopale, il cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e Frisinga, chiarisce in conferenza stampa che "noi non siamo una filiale di Roma".

Il porporato ha osservato che se nell'insegnamento si rimane in comunione con la Chiesa, nelle questioni meramente pastorali "il Sinodo non può prescrivere nel dettaglio ciò che dobbiamo fare in Germania". Come scrive il Tagespost, la conferenza episcopale di Germania corre e non pare avere intenzione di attendere quel che accadrà il prossimo autunno e le successive decisioni papali: "Non possiamo aspettare fino a quando un Sinodo ci dirà come dobbiamo comportarci qui sul matrimonio e la pastorale familiare". Marx ha anche annunciato che nelle prossime settimane sarà pubblicato un documento in vista dell'appuntamento di ottobre, verso il quale la Germania “ha una certa aspettativa”. Necessario, a giudizio del presidente della conferenza episcopale tedesca, trovare “nuovi approcci” in grado di “aiutare a garantire che le porte sono aperte”.

In una lunga intervista apparsa lo scorso gennaio sulla prestigiosa rivista America, edita dalla Comapgnia di Gesù, Marx chiariva che c’è tanto lavoro da fare in campo teologico. Dobbiamo trovare il modo perché le persone ricevano l’eucaristia. Non si tratta di trovare modi per tenerle fuori! Dobbiamo trovare modi per accoglierle. Dobbiamo usare la nostra immaginazione e chiederci se possiamo fare qualcosa. L’attenzione deve focalizzarsi su come accogliere le persone”.


da «Il Foglio»





giovedì 26 febbraio 2015

Scuola statale addio, mio figlio studia a casa






di Costanza Signorelli

È ancora possibile oggi parlare di libertà di educazione? In una realtà dove lo Stato prepotente si è preso il monopolio dell’istruzione e la scuola paritaria rischia di essere ridotta, suo malgrado, ad una fotocopia sbiadita e costosa della formula pubblica, c’è ancora spazio per i genitori che desiderano essere i protagonisti dell’educazione dei propri figli? Esiste una possibilità perché mamme e papà si riapproprino del “diritto e dovere di educare e istruire”, senza stare a guardare impotenti il cocktail letale che lo Stato somministra ai propri pargoli? Leggasi da ultimo, l’imminente obbligo ministeriale all’insegnamento delle teorie gender nelle scuole di ogni ordine e grado. È tutto già scritto? Ai genitori non rimane che il compito di tamponare e arginare - se va bene - i danni della mala educación scolastica?

Non esageriamo nel denunciare la deriva del sistema scolastico pubblico
, cosi come non sono retorica le nostre domande. Questi stessi interrogativi animano la mente e il cuore di molti genitori, tutti quei genitori che desiderano educare i propri figli secondo i sani principi della nostra tradizione: l’amore incondizionato per la vita, dall’inizio alla fine; il valore della famiglia, una e indivisibile; il senso del bene, del vero e del bello. Ma si scontrano con una Scuola che, sempre più, li tradisce e li ostacola. Se molti di loro, per come possono, cercano di darvi una risposta, alcuni hanno deciso di farlo in un modo davvero speciale.

È quanto sta accadendo a Staggia Senese
, un paesello di poco più di tremila anime in provincia di Siena (Toscana). È qui che un gruppo di mamme e papà hanno capito che per avere una scuola libera-per-davvero, non gli rimaneva che farsela da sé. Nasce così la Scuola Hobbit (clicca qui), una scuola parentale che si ispira al modello di Home-schooling nato in America una trentina di anni fa. Questa esperienza, in verità, non è che l’inizio di un’onda che sta coprendo tutte le regioni d’Italia, con una serie d’iniziative destinate a moltiplicarsi assai rapidamente. Il motivo? Lo ha detto in modo molto semplice Papa Francesco: “Per favore, non lasciamoci rubare l’amore per la scuola!” .

Ne abbiamo parlato con Giulia Pieragnoli,
coordinatrice della Scuola Hobbit. Giulia come nasce l’idea della Scuola Hobbit?
Come gruppo di giovani genitori della nostra parrocchia, avendo ciascuno due o tre figli in età scolare, ci siamo posti la semplice domanda: dove mandiamo i nostri bambini a scuola? Desideravamo una scuola cattolica, ma soprattutto libera, cioè una scuola che ci garantisse la piena responsabilità educativa dei nostri figli. Cercando, abbiamo scoperto la realtà delle scuole parentali già presenti in tutta Italia, per esempio a Bologna la scuola parentale "Mariele Ventre". In Toscana non ne esisteva ancora una, dunque ci siamo detti: perché non iniziare noi? Abbiamo chiesto la disponibilità dei locali della parrocchia al nostro parroco don Stefano Bimbi e lui si è dimostrato molto accogliente.

Cos’è l’educazione parentale?

Significa che il genitore si prende carico personalmente dell’educazione e dell’istruzione dei propri figli.

Cioè non manda i figli a scuola?

Il genitore può decidere di istruirli lui stesso a casa, oppure, come accade per la Scuola Hobbit, può decidere di affidare l’istruzione dei figli a persone di sua fiducia, cioè gli insegnanti della nostra scuola.

Ma è legale non mandare i figli alle cosiddette “scuole dell’obbligo”?

Non solo è legale. È un diritto sancito dalla Costituzione. L’articolo 34 della Costituzione Italiana recita: “L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”. Quindi è l’istruzione ad essere obbligatoria, non la scuola. La “scuola dell’obbligo” non esiste. Inoltre l’articolo 30 dice che “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli”. Ciò significa che l’istruzione dei figli è in primis una responsabilità dei genitori, non dello Stato. In concreto, è sufficiente inoltrare una comunicazione formale e scritta alla direzione didattica di competenza in cui il singolo dichiara di prendersi carico in prima persona dell’istruzione del figlio. A quel punto la palla passa ai genitori che decidono personalmente come procedere.

Ma perché costruire una scuola parentale? Non bastava la scuola paritaria?

No, purtroppo oggi nemmeno la scuola paritaria cattolica è lasciata libera di insegnare ai bambini solo e precisamente quei principi che vogliono i genitori.

Per esempio?

Per esempio la teoria del gender entrerà a pieno regime nel sistema scolastico statale e presto diventerà insegnamento obbligatorio anche nella scuola paritaria. Il metodo è sempre lo stesso: lo Stato, per concedere la parificazione, costringe la scuola paritaria a ricalcare in tutto e per tutto la scuola statale. Come, del resto, è già accaduto in Inghilterra, dove lo Stato ha detto alle scuole paritarie: o insegnate la teoria del gender o vi ritiriamo l’autorizzazione. Bene, è realistico pensare che questo accadrà anche in Italia. Invece noi, sganciandoci completamente dal sistema dello Stato, saremo veramente liberi di insegnare ciò che riteniamo positivo e di non insegnare ciò che riconosciamo come negativo per i bambini. Noi non siamo una scuola autorizzata dallo Stato proprio perché non vogliamo alcuna autorizzazione. Quello che vogliamo, al contrario, è realizzare un ambito di piena libertà di educazione in capo a genitori e insegnanti. E’ questo il vero motivo per cui nasce la Scuola Hobbit: la libertà di educazione. Tutti a parole la invocano, ma poi di fatto non esiste. Nel nostro caso sì.

Parliamo della Scuola Hobbit. Quali sono gli elementi di novità rispetto alle scuole che conosciamo?

Nella Scuola Hobbit le classi saranno massimo di dieci bambini, perché crediamo sia fondamentale che gli insegnanti seguano personalmente ogni singolo alunno. Alle elementari abbiamo recuperato il vecchio e sano modello della maestra unica, la cosiddetta maestra-mamma, affinché i bambini possano avere una figura unica e stabile di riferimento. A livello didattico, non solo svolgeremo i programmi ministeriali come tutti, ma faremo molto di più.
Il nostro obiettivo è la personalizzazione del percorso educativo: i bambini non sono tutti uguali e perciò non apprendono tutti in modo uguale. Inoltre ognuno ha le sue inclinazioni e interessi per cui è giusto dare di più a chi ne ha la possibilità. Dunque la scuola Hobbit vede la diversità di ciascun bambino come una ricchezza e intende valorizzarla invece che livellarla, come è obbligato a fare chi si trova a insegnare in classi di 25/30 alunni.
Arricchiremo i programmi ministeriali con moltissime altre attività. C’è una mostra interessante in città? Si va. Il bambino racconta del nonno che coltiva la terra, si coglie l’occasione per una lezione nell’orto. Un genitore è esperto di musica? Si assiste insieme ad un concerto e via dicendo. Con massima libertà e in un filo diretto tra genitore e insegnante.

Come si svolge una mattinata in una scuola parentale?

La Scuola Hobbit è una scuola cattolica, è per noi fondamentale iniziare la mattinata con un momento di preghiera insieme e l’ascolto di un canto sacro. Poi il tempo sarà gestito liberamente, giorno per giorno, dagli insegnanti, vale a dire: non ci sono gli schemi rigidi della campanella, il cambio d’insegnante, le materie a rotazione, l’intervallo fisso, ma sarà un tempo a misura di bambino. Se insieme ci si sta appassionando alla lettura di un racconto, non ci sarà certo la campanella e l’ingresso di una seconda maestra a interrompere l’attenzione. Sarà, per esempio, l’interesse del bambino a segnalare l’approfondimento di un dato argomento o la sua stanchezza ad indicare la necessità di una pausa, magari all’aria aperta. Il pomeriggio invece i bambini torneranno a casa dove saranno liberi di giocare, i compiti alla Scuola Hobbit si fanno la mattina. Il fatto di avere un tempo a misura di bambino, non ha nulla a che vedere con l’improvvisazione. Tutti gli insegnanti sono preparatissimi, ma soprattutto molto appassionati allo studio e all’insegnamento.

In un ambiente così confidenziale, familiare e ristretto, non c’è il rischio che i bambini siano tenuti sotto una campana di vetro?

Questo è il punto più difficile da fare comprendere alle persone che non conoscono la realtà delle scuole parentale. Cioè, c’è la convinzione che si crei un ghetto, un ambiente ovattato e autoreferenziale e che, di conseguenza, i bambini facciano più fatica a socializzare, trovandosi poi disorientati nell’impatto con la realtà. Ecco tutto questo è assolutamente un falso mito, una leggenda. Anzi, l’esperienza che raccontano i genitori delle scuole parentali è l’esatto opposto. Tutti testimoniano una maggiore capacità di socializzazione dei propri bambini rispetto ai loro coetanei.

Perché?

Il fatto che la scuola rappresenti un contesto protetto e sicuro fa crescere l’autostima nel bambino. Lo rende più sicuro di sé. Per esempio, è difficile che nella scuola parentale si verifichino episodi di bullismo, perché i ragazzi sono seguiti personalmente anche nelle loro difficoltà e nei loro disagi. Sicché, un bambino che si sente sicuro e fa un’esperienza di relazione positiva nel piccolo, è poi portato ad aprirsi con fiducia anche in situazioni più articolate. Viceversa, il bambino che - pur in mezzo a 20 o 30 bambini - è però lasciato a se stesso ha più paura di socializzare.

Alla Scuola Hobbit, cosa significa educare?

Papa Francesco, nell’incontro con il mondo della Scuola italiana, lo scorso maggio ha detto: “Amo la scuola perché ci educa al vero, al bene e al bello. Vanno insieme tutti e tre. L’educazione non può essere neutra. O è positiva o è negativa; o arricchisce o impoverisce; o fa crescere la persona o la deprime, persino può corromperla. La missione della scuola è di sviluppare il senso del vero, il senso del bene e il senso del bello. (…) La vera educazione ci fa amare la vita, ci apre alla pienezza della vita! E per favore... per favore, non lasciamoci rubare l’amore per la scuola!” Questo, per noi della Scuola Hobbit, significa educare.

- LA SCUOLA HOBBIT

- GUIDA ALL'EDUCAZIONE PARENTALE, di G. Brienza











La nuova Bussola Quotidiana 26-02-2015 




Decalogo per il prete e il suo telefonino





Onde evitare scene ambigue come quella rappresentata nella foto, che fa ridere - una volta che si capisce la situazione-, ma altrimenti fa proprio piangere, meglio attenersi, cari fratelli sacerdoti, a qualche buon comandamento (più di galateo e buona creanza sacerdotale che d'imperativo morale):


1) Spegni il telefonino quando vai a celebrare la S.Messa: non ti serve per parlare con Dio e a quelli che hai in chiesa basta il microfono dell'altare.


2) Se poi - capita - ti dimentichi il telefonino acceso in tasca e stai dicendo la Messa, non presumere "tanto non mi chiama nessuno": il demonio è terribile e tenterà qualche pia persona a telefonarti. Meglio spegnere con elegante noncuranza.... prima che suoni. E soprattutto MAI rispondere se suona (capita anche quello!).


3) Spegni il telefonino quando parli con le persone: è sempre mancanza di attenzione nei loro confronti mettersi a parlare o guardare il telefono mentre ti raccontano le loro tragedie.... o i loro peccati!


4) Già che ci sei: lascia normalmente la VIBRAZIONE o meglio ancora il SILENZIATORE (ce l'ha ogni telefonino, anche quelli vecchi....). Perderai qualche chiamata, ma la tua preghiera se ne avvantaggerà e avrai meno distrazioni nel tuo ministero.


5) Non usare lo Smartphone per dire l'Ufficio divino, almeno quando sei in Chiesa o lo reciti in comune. Le app della Liturgia delle Ore sono una grande comodità in caso di viaggio o di dimenticanza dei grossi volumi liturgici. Ma vedere un prete che guarda per un quarto d'ora il telefonico con grande attenzione davanti al tabernacolo può far pensare male più d'uno.... E comunque l'effetto dello schermo è distraente e non fa pregare come la buona vecchia carta.


6) Non pensare nemmeno - perché ti leggo nel pensiero! - di usare il tablet o il telefono al posto del Messale, sull'altare, neanche in caso di assoluta necessità. E' un abominio troppo grosso anche per pensarlo e peggio per farlo (ci sono arrivati perfino i vescovi australiani, che non sono proprio chiusi....).


7) Limitati con 'sto Whattsapp: non hai 15 anni, non puoi perdere metà della tua giornata a chattare o ricevere milioni di messaggini - anche se gratis - da tutti gli adolescenti della parrocchia. No, non fa per te.


8) Non usare la fotocamera mentre stai celebrando e nemmeno se stai concelebrando la Messa. A volte alcuni sacerdoti pensano che ai concelebranti sia consentito, in caso di solennità e partecipazione a qualche festa particolare, lo scatto più o meno furtivo di foto ricordo o selfie, nonostante l'ingombro dei paramenti (vedi foto sopra...). Risposta: "Ma nemmeno a San Pietro in Vaticano quanto esce il Papa!".


9) Non usare né lasciare che altri usino il registratore in confessione, nemmeno per prendere appunti vocali dei tuoi meravigliosi consigli di Padre spirituale: non è permesso né ai fedeli né al ministro. C'è un'apposita scomunica latae sententiae, mica bazzecole (leggi qua)


10) Chiediti: "come mai non riesco più a fare a meno del telefonino?". Eppure pochi anni fa non sapevi nemmeno cosa fosse, né tantomeno di averne così bisogno. Dopo tutto, per consultare internet bastano ancora i vecchi e cari PC ;-)!










Cantuale Antonianum   25 febbraio 2015 



Il film CRISTIADA a Pistoia

Dominus Production 
è lieta di presentare

un film dai GRANDI valori di FEDE e LIBERTA'

CRISTIADA
Quando pochi valorosi uomini riescono a cambiare le sorti di un intero Paese


La prima a PISTOIA è VENERDI' 06 MARZO ore 21.00


repliche MARTEDI' 10 Marzo ore 18.00 e ore 21.00


Invitati d'onore alla prima serata:
S.E.R. Mons. Fausto Tardelli, Vescovo di Pistoia
Samuele Bertinelli, Sindaco di Pistoia
  
CINEMA GLOBO

Via di Buti, 7, 51100 Pistoia PT
Per acquisto biglietti on-line:
Per gli acquisti effettuati dai gruppi di almeno 15 persone direttamente in biglietteria entro il giorno prima dello spettacolo
il CINEMA applicherà il prezzo di ingresso ridotto invece che intero*






se vuoi film di qualità al cinema ….PASSAPAROLA!!!!! 

*Si consiglia la visione ad un pubblico maggiore di 11 anni





mercoledì 25 febbraio 2015

Pellegrinaggio a Lourdes, dal 29 aprile al 4 maggio ICRSS




L'Istituto di Cristo Re Sommo Sacerdote organizza per voi un pellegrinaggio a Lourdes, dal 29 aprile al 4 maggio. Ancora 40 giorni, e il 31 marzo si chiudono le iscrizioni!... 

Qui sotto trovate il programma del pellegrinaggio. Chi è interessato può inviare una mail per ricevere la scheda di iscrizione. Sulla pagina facebook del pellegrinaggio, potete facilmente mandare l'invito ai vostri amici. 

Sono già pronti a partire 4 pullman (Livorno, Firenze, Milano), ma forse anche in Liguria e nel Veneto si parla di organizzare dei pullman.
In ogni pullman ci sarà un sacerdote dell'Istituto e a Dio piacendo anche dei diaconi o seminaristi di Gricigliano vi accompagneranno durante il pellegrinaggio. Quest'anno si parte la sera e si arriva la mattina, perché con l'esperienza ci siamo accorti che forse è il modo meno stancante di fare il viaggio; e così possiamo anche rimanere più tempo a Lourdes.

pagina internet del Prossimo Pellegrinaggio a Lourdes




Pellegrinaggio a Lourdes 

con l’Istituto di Cristo Re Sommo Sacerdote


29 aprile – 4 maggio

Presieduto da S.E.R. il Cardinale Burke, Cardinalis Patronus del Sovrano Ordine di Malta

Gruppi di pellegrini di tutta l’Italia

290€ a persona, quota ridotta per le famiglie

Iscrizioni entro il 31 marzo




Partenza il 29 aprile alle ore 21 in pullman Gran Turismo; Arrivo a Lourdes la mattina del giovedì 30 aprile. Sistemazione nei alberghi ***



Programma riassunto:


Giovedì 30 aprile:
Mattina: Arrivo a Lourdes e sistemazione. Visita e preghiera alla Grotta. Pomeriggio: Piscine. Santo Rosario alla Grotta e devozioni personali. Confessioni. Messa di apertura del pellegrinaggio.

Venerdì 1° maggio:
Mattina: Visita alla Grotta. Ore 10.30: Messa Solenne nella chiesa parrocchiale. Confessioni. Pomeriggio: Santo Rosario alla Grotta (indulgenza plenaria), via Crucis, Conferenza del Cardinal Burke. Vespri. Sera: ore 21.00 Processione mariana “aux flambeaux”.

Sabato 2 maggio :
Mattina : Visita alla Grotta. Ore 10: Messa pontificale alla Chiesa parrocchiale. Confessioni. Pomeriggio: conferenza di Mons. Wach, Priore gen. dell’Istituto. Per i ragazzi, cascia al tesoro sui passi di Santa Bernadette. Benedizione del Santissimo Sacramento e Te Deum. Santo Rosario (indulgenza plenaria).

Domenica 3 maggio:
Mattina : Visita alla Grotta. Piscine. Ore 12: Messa solenne nella Basilica Superiore celebrata da Mons. Wach, Priore generale.

Ore 16: Partenza in pullman. Arrivo a destinazione all’alba del 4 maggio.



4 giorni a Lourdes: Quota: 290€ a persona, tutto compreso, in camera doppia, pensione completa. 345€ col supplemento per la camera singola. Prezzo ridotto per le famiglie, prezzo ridottissimo per le famiglie numerose!



Informazione, programma dettagliato e iscrizione al pellegrinaggio a Lourdes:


Notizie aggiornate e organizzazione dei gruppi di pellegrini:





PREGHIERA ALLA VERGINE SANTA dell' Abate PERREYVE



VERGINE SANTA, nei vostri giorni gloriosi, non dimenticate le tristezze della terra. Date uno sguardo di bontà a coloro che soffrono che lottano contro le difficoltà e che non cessano di immergere le loro labbra nelle amarezze della vita.

Abbiate pietà di coloro che si amano e che sono stati separati.

Abbiate pietà della solitudine del cuore.

Abbiate pietà della debolezza della nostra fede.

Abbiate pietà degli oggetti della nostra tenerezza.

Abbiate pietà di quelli che piangono, di quelli che pregano, di quelli che temono e date a tutti la speranza e la Pace.




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Canonico don Joseph Luzuy 
Istituto di Cristo Re Sommo Sacerdote 
Veritatem facientes in Caritate





Comunione a tutti? Il Sacro Cuore dice no


sacrocuore



di Sandro Magister


Sui giornali del 25 febbraio, nei resoconti della messa da Requiem per la sepoltura del regista di teatro Luca Ronconi, celebrata nella piccola parrocchia umbra di Civitella Benazzone, si legge che il parroco al momento della comunione ha detto: “Chi non è battezzato o non è cristiano, non può fare la comunione”, e che tali parole “hanno gelato i presenti, creato imbarazzo e qualche mormorio”, fino all’esclamazione: “Forse perché noi teatranti un tempo venivamo sepolti in luoghi sconsacrati?”.

Ecco l’ennesimo sintomo di quale sia l’idea corrente della comunione eucaristica e di come la proposta di dare la comunione ai divorziati risposati dipenda in buona misura proprio da questa riduzione dell’eucaristia a semplice gesto di amicizia, da estendere doverosamente a tutti.

Ma l’idea della comunione non è stata affatto questa, fino a pochi decenni fa, nemmeno nell’Occidente secolarizzato. E non lo è tuttora per una larga parte dei fedeli di tutto il mondo, dove continua a valere la visione classica dell’eucaristia.

Quelli che seguono sono alcuni appunti che un valoroso prete italiano in terra di missione ha scritto sul suo taccuino, riflettendo sulla distanza abissale che intercorre tra certi indirizzi teologici e pastorali e la devozione della gente comune.


*


SACRO CUORE DI GESÙ AIUTACI



di ***

Mi sembra che fino ad ora sulla comunione ai divorziati risposati il dibattito sia rimasto chiuso nei due poli della dottrina e della pastorale.
Ma la nostra fede cattolica non è composta solo di questi due elementi. L’ascetica, la mistica, le devozioni dove le abbiamo lasciate?
La dottrina la studiano i teologi che saranno forse un migliaio. La pastorale la impostano il papa, i vescovi, i pastori d’anime che saranno forse un milione.
Ma l’ascetica e la mistica e le devozioni le praticano i cristiani semplici che saranno forse un miliardo.

Di devozioni ne sono sorte molte e tra queste parecchie sono state riconosciute e approvate dal magistero della Chiesa: il rosario, il Sacro Cuore di Gesù, il Cuore Immacolato di Maria, le Quarant’Ore, la Via Crucis e tante altre ancora.
Addentrandosi in questa abbondanza di devozioni il cristiano viene aiutato moltissimo a sentire il soprannaturale e a trovare le consolazioni necessarie per la sua vita immancabilmente seminata da prove, gioie, trepidazioni.
Mi vorrei soffermare sulla devozione al Sacro Cuore di Gesù.

Margherita Maria Alacoque, nata e morta in Francia tra il 1647 e il 1690, entrata  nel monastero della Visitazione di Paray-le-Monial, ha avuto molte apparizioni e rivelazioni nell’arco di 17 anni a cominciare dal 27 Dicembre 1673.
Gesù appare a questa suora e mostra sempre il suo cuore come lo vediamo nei dipinti. Un cuore con in cima una piccola croce avvolta da una fiamma. Il cuore è circondato da una corona di spine. Il simbolo parla molto chiaro. Un cuore che arde di amore ma che soffre terribilmente per le spine che vi sono conficcate.

Tra le dodici promesse raccolte da Gesù nel corso delle apparizioni fa spicco quella che dice:
“A tutti quelli che per nove mesi consecutivi si comunicheranno al primo venerdì d’ogni mese io prometto la grazia della perseveranza finale. Essi non moriranno in mia disgrazia, ma riceveranno i santi sacramenti, ed il mio Cuore sarà per loro sicuro asilo in quel momento estremo”.

Margherita Maria Alacoque voleva tenersi per sé tutte queste rivelazioni ma il suo confessore, padre Claude de la Colombière, poi proclamato santo, la obbligò a scrivere tutto quello che aveva ricevuto.
Claude La Colombiere era un membro della Compagnia di Gesù. E fu grazie a lui e a tanti altri suoi confratelli gesuiti che questa devozione ebbe un impulso grandioso e universale. Ma purtroppo ai giorni nostri tanti membri di questa stessa Compagnia di Gesù sono paladini di un movimento che va nella direzione opposta.

Sostenuta dai papi e approvata per la Chiesa universale, da 350 anni questa devozione è entrata nella vita pratica di moltissimi cristiani.
Tantissime Chiese e parrocchie sono state  intitolate al Sacro Cuore di Gesù, per avere la protezione da lui promessa.
Nel mio paese di missione abbiamo otto parrocchie intitolate al Sacro Cuore. Una di queste è la mia ultima, in un luogo molto difficile dove ho avuto le prove che il Sacro Cuore ci ha protetti.
Sulla base dell’altra promessa che dice: “La mia benedizione si poserà sulle case dove sarà esposta ed onorata l’immagine del mio Cuore”, in moltissime case è esposta l’immagine del Sacro Cuore, anche tra persone appartenenti ad altre religioni.
Traggo da tutto ciò alcune considerazioni.

Il Corpo di Cristo. Scopriamo attraverso queste rivelazioni che Gesù dà una grande importanza al dono che ci ha fatto dell’eucaristia, di questo suo Corpo di Cristo, e soffre terribilmente per il fatto che persino i cattolici non gli diano questa importanza. Da qui mi vengono alcune domande. La devozione al Sacro Cuore di Gesù va d’accordo con le nuove teorie di “apertura” riguardo la comunione? Se queste teorie fossero approvate non dovremmo allora buttare a mare il povero san Thomas More e tutti i martiri del tempo dello scisma anglicano? Non è che dovremmo cestinare anche tutta la devozione al Sacro Cuore con i suoi 350 anni di fede e pratica cristiana? Chi avrà il coraggio di andare contro anche al Sacro Cuore?

Misericordia. Anche nella devozione al Sacro Cuore si parla molto di misericordia, ma in tutto un altro senso di come se ne parla nel dibattito per dare la comunione ai risposati. Qui è una faccenda di dolore da parte di Gesù, perché quelli che dovrebbero amarlo invece l’offendono. Anzi è Gesù che chiede in elemosina un po’ di misericordia da parte degli uomini e che si accontenta di un giorno di festa e di una comunione fatta bene per sentirsi amato.

Mistica. Da questo humus mistico sono nate la devozione al Sacro Cuore come tante altre devozioni. Ma allora io mi chiedo da quale altra sponda e da quale altra mistica nasca questo movimento che si dice di “apertura” verso comportamenti che non mi pare proprio siano in sintonia con l’ascetica, la mistica e la morale cristiana. Queste teorie vengono da qualche libro e da qualche teologo. Ma non mi risulta che dal soprannaturale ci sia venuta nel passato qualche rivelazione mistica che abbia sostenuto simili teorie. Oso anche dire che probabilmente non ne verranno nemmeno nel futuro. Ed allora con quale sicurezza si ha il coraggio di capovolgere tutta la dottrina e la mistica e l’ascetica di millenni di cristianesimo?

Aperture. Di aperture verso chi è debole ed è peccatore nella Chiesa ce ne sono sempre state e ce ne saranno. Non vedo la necessità di compilare un documento in cui si debba esplicitare una regola che non fa altro che generare confusione. La carità si fa, non si mette in pubblico.

Cattolicesimo. Ho l’impressione che tanti sono stanchi di essere cattolici. Quando invece il cattolicesimo è una realtà unica di cui dobbiamo essere felici e fieri. Abbiamo il papa che è il vicario di Cristo. Abbiamo sette sacramenti mentre i protestanti ne hanno solo uno che è il battessimo. Tra questi sacramenti la confessione è un dono immenso che ci dà la pace. Il Corpo e Sangue di Cristo ci fanno diventare una cosa sola con la seconda persona della Trinità. Abbiamo il sacerdozio celibe che è il mezzo più appropriato per amministrare la grazia. Abbiamo, unico in tutto il mondo, il matrimonio sacramentale che è la miglior celebrazione della cosa più importante che c’è al mondo e che è l’amore. Perché guardarci in giro e invidiare gli idoli e le effimere pompe che presenta il mondo?








magister.blogautore.espresso.repubblica.it   25 feb '15



Sposarsi in chiesa fa durare il matrimonio

di Giuliano Guzzo


“La famiglia italiana è cambiata”, titola un’articolata indagine de L’Espresso che, basandosi sui dati Istat, sottolinea come «per quanto la politica provi a ignorare o rimandare le riforme in tema di famiglia e diritti riproduttivi, sui temi etici gli italiani» abbiano «già fatto quel salto che i loro legislatori non sembrano voler accompagnare». Nell’articolo si evidenziano, da un lato, l’aumento del numero delle convivenze e delle separazioni - ma non quello dei divorzi, che «calano per colpa della crisi» - e, dall’altro, la progressiva riduzione dei matrimoni celebrati, specie in chiesa. Il messaggio che traspare è quindi quello del declino della cosiddetta famiglia tradizionale, descritta ormai sul viale del tramonto. Ora, i numeri sulle unioni familiari italiane, da qualunque parte li si prenda, sono in effetti sconfortanti.

Vi sono tuttavia alcune considerazioni, con specifico riferimento alle coppie sposate e al matrimonio religioso, che possono tornare utili. La prima è che a L’Espresso, quando scrivono che il numero delle nozze celebrate è in calo, non dicono nulla di nuovo: dopo il record assoluto dei 420.300 matrimoni del 1963, l’Italia non ci è più andata vicino; anzi, per la precisione è dai 418.944 matrimoni del 1972 che la curva delle nozze – guarda caso proprio nel periodo in cui il divorzio, la prima di tante “conquiste” civili, faceva la propria comparsa – ha iniziato una picchiata verticale che in decenni ha conosciuto solo debolissimi segnali di ripresa nei periodi fra il 1987 ed il 1992, fra il 1998 ed il 1999 e nell’anno 2007. Se invece si considerano i matrimoni religiosi, è dai 414.652 del già ricordato anno record 1963 che si verifica, purtroppo, un calo costante.


Si è volutamente scritto “purtroppo” – e passiamo qui ad una considerazione successiva - dal momento che il matrimonio religioso, benché non goda della popolarità di un tempo e sia oggetto di una sistematica irrisione, rimane un bene apprezzabile: oggettivamente apprezzabile. Anzitutto perché più stabile nel tempo: «Mettendo a confronto i matrimoni del 1995 con quelli del 2005 – è scritto in un report Istat - si osserva come la propensione a separarsi nei matrimoni celebrati con il rito religioso sia molto inferiore e molto più stabile nel tempo rispetto a quella nelle nozze civili. Dopo sette anni i matrimoni religiosi sopravviventi sono praticamente gli stessi per le due coorti di matrimonio considerate (rispettivamente 933 e 935 su 1.000). I matrimoni civili sopravviventi scendono a 897 per la coorte del 1995 e a 880 per quella del 2005».

Gli effetti positivi della religione sul matrimonio, già notevoli, non si esauriscono però nella stabilità coniugale: dalla letteratura scientifica apprendiamo come la stessa partecipazione alle funzioni generalmente diminuisca il rischio di tradimenti (Journal of Marriage and Family, 2008), e come pregare per il proprio partner accresca la percezione della sacralità del rapporto di coppia riducendo conseguentemente pensieri e condotte infedeli (Journal of Personality and Social Psychology, 2010). Non solo: la comune e regolare frequenza alle funzioni religiose risulta positivamente correlata perfino a minori tassi di violenza domestica (Journal of Family Issues, 1999); e dire che, ad ascoltare i media – che, parlando astutamente di “violenza del partner”, non distinguono fra coniuge, convivente e separato –, il matrimonio, tanto più se religioso, dovrebbe essere una sorta di camera della tortura.

Un’ultima ma non meno centrale considerazione sulla cosiddetta famiglia tradizionale, quella che la cultura dominante fa tutto il possibile per ridicolizzare, concerne il fatto che, per quanto in una situazione di difficoltà, costituisce sempre e comunque un modello di vita non solo valido ed esemplare - come si è brevemente ricordato -, ma trasgressivo. Del resto, cosa c’è di più controcorrente, oggi, del promettersi reciprocamente quella fedeltà che appare sempre più difficile da mantenere, per di più chiamando a testimone quel Dio che i più, ormai, preferiscono ignorare o del quale si ricordano solo a volte, quando fa comodo? Cosa c’è di più sanamente folle che sfidare la crisi economica con la ripresa della stabilità affettiva? Quale modo migliore per combattere fino in fondo solitudine e tristezza del tornare a scommettere, insieme, sull’Amore per sempre? Nessuno dice che sia semplice, ma ne vale la pena.






La Croce 25/02/2015




martedì 24 febbraio 2015

Denatalità, tasse, immigrazione. Ecco perché finiremo come l'Impero Romano






di Massimo Introvigne

Si può parlare male della Francia finché si vuole, ma bisogna riconoscere ai francesi la capacità di promuovere dibattiti culturali che vanno al di là delle banalità quotidiane. Ne è un buon esempio la vasta discussione che continua sul libro dello storico e giornalista Michel De Jaeghere «Gli ultimi giorni. La fine dell'Impero romano d'Occidente» (Les Belles Lettres, Parigi 2014). Nel febbraio 2015 il mensile cattolico «La Nef» ha dedicato a questo tomo di oltre seicento pagine un numero speciale con diversi articoli pertinenti, ma del libro si continua a parlare negli ambienti più diversi, talora con toni molto accesi.

Perché appassionarsi nel 2015 alla caduta dell'Impero romano? Si tratta certo di uno degli eventi più importanti della storia universale. Ma in realtà il dibattito francese è divenuto rapidamente politico, perché le vicende finali dell'Impero romano ricordano da vicino - lo aveva del resto già notato Benedetto XVI - quelle di un'altra civiltà che sta morendo, la nostra.

De Jaeghere ripete anzitutto quello che è ovvio per gli storici accademici,
anche se talora è negato da propagandisti dell'ateismo e nostalgici del paganesimo - forse più presenti e molesti in Francia che altrove -: l'Impero romano non cadde per colpa del cristianesimo. La tesi secondo cui i cristiani, con il loro messaggio di amore e di pace, avrebbero reso l'Impero imbelle di fronte ai barbari - per non risalire a polemisti pagani dei primi secoli come Celso - è stata diffusa dall'Illuminismo, con Voltaire e con lo storico inglese Edward Gibbon. Ma, come ricorda De Jaeghere, è totalmente falsa. Agli inizi del quinto secolo i cristiani nell'Impero romano d'Occidente sono solo il dieci per cento. Sono maggioranza nell'Impero d'Oriente, ma questo resisterà alle invasioni e sopravvivrà per mille anni. Ed è il dieci per cento cristiano che cerca di mantenere in vita Roma e la sua cultura, con vescovi e intellettuali come Ambrogio e Agostino ma anche con generali che si battono fino allo spasimo per difendere l'Impero, come Stilicone ed Ezio, e con tanti soldati cristiani protagonisti di fatti d'arme eroici.

Accantonate le sciocchezze sul cristianesimo, resta la domanda su come l'immenso Impero romano sia potuto cadere. Oggi gli storici sono molto cauti nell'usare la parola «decadenza». È vero che, nell'attuale Italia, negli ultimi secoli dell'Impero duecentomila capifamiglia avevano diritto a somministrazioni gratuite di cibo, che lavorassero o meno, e che i cittadini romani che lavoravano, militari esclusi, avevano centottanta giorni di vacanza all'anno, allietati da spettacoli spesso di dubbio gusto o crudeli. Ma di questa decadenza gli scrittori e i filosofi avevano cominciato a lamentarsi all'epoca di Gesù Cristo, quattrocento anni prima che l'Impero cadesse, in un'epoca in cui Roma le sue battaglie le vinceva ancora.

Alla categoria di «decadenza», suggerisce De Jaeghere, non si può rinunciare a cuor leggero.
Ed è giusta l'osservazione di molti storici secondo cui le spiegazioni che attribuiscono la caduta dell'Impero a un'unica causa sono ideologiche. Ma questo non significa che ci si debba arrendere e dichiarare l'evento inspiegabile. Al contrario, De Jaeghere parla di un «processo», che lega le diverse spiegazioni proposte tra loro.

Ancora come Benedetto XVI - senza citarlo - lo storico francese identifica come causa principale
che sta all'origine del processo la denatalità. Il controllo delle nascite presso i romani non ha i mezzi tecnici di oggi, ma dilagano l'aborto e l'infanticidio, e aumenta il numero di maschi adulti che dichiarano di volere avere esclusivamente relazioni omosessuali. Il risultato è demograficamente disastroso: Roma passa dal milione di abitanti dei secoli d'oro dell'Impero ai ventimila della fine del quinto secolo, con una caduta del 98%. Le statistiche sulle campagne sono meno sicure, ma dal trenta al cinquanta per cento degli insediamenti agricoli sono abbandonati negli ultimi due secoli dell'Impero, non perché non siano più redditizi ma perché non c'è più nessuno per coltivare la terra.

Quali sono le conseguenze della denatalità? Sono molte, e tutte negative.
Dal punto di vista economico, meno popolazione significa meno produttori e meno soggetti che pagano le tasse. L'Impero romano cede alla tentazione di tanti Stati che si sono trovati in condizioni simili. Aumenta le tasse, fino ad ammazzare l'economia: e anche fino a incassare meno tasse, anche se non ci sono economisti per spiegare in termini matematici la curva per cui, se le imposte aumentano troppo, lo Stato finisce per incassare di meno, perché molti vanno in rovina e non pagano più nulla. La caduta dell'Impero è annunciata nel suo ultimo secolo da una rovinosa caduta del novanta per cento degli introiti fiscali. Nelle campagne molti piccoli proprietari che non possono più pagare le tasse vanno a ingrossare le fila, fiorenti, della criminalità e del banditismo.

Roma è alla testa di un sistema che prevede la schiavitù, e la soluzione alla denatalità dei liberi è cercata anzitutto nell'accrescere la natalità degli schiavi, cui è fatto divieto di praticare l'aborto e che sono incitati con le buone e con le cattive a fare più figli. Nell'ultimo secolo dell'Impero nell'attuale Italia il 35% della popolazione è costituito da schiavi. Gli schiavi, però, non pagano tasse, lavorano in modo poco zelante e non hanno alcun interesse a difendere in armi i loro padroni attaccati. L'economia schiavista degli ultimi secoli dell'Impero diventa anche statalista. Sempre di più è lo Stato a gestire grande imprese agricole dove lavorano esclusivamente schiavi.

Sia pure con caratteristiche diverse, il loro contributo scarsamente entusiasta all'economia ricorda quello dei lavoratori e dei contadini sovietici.

Se scarseggiano i cittadini a causa della denatalità, e gli schiavi non risolvono i problemi, l'altra misura cui gli Stati e gli imperi ricorrono di solito per ripopolare i loro territori è la massiccia immigrazione. Si parla molto delle invasioni barbariche. Ma si dimentica, suggerisce De Jaeghere, che la più grande invasione non è avvenuta per conquista ma per immigrazione. L'invasione di Alarico, per esempio, porta all'interno dell'Impero ventimila visigoti. Ma le misure prese per invitare popolazioni germaniche a immigrare, non solo legalmente ma con facilitazioni, per fare fronte al problema della denatalità, portano nel territorio imperiale in trentacinque anni, dal 376 al 411, un milione di immigrati. Certamente i «barbari» emigrano nell'Impero, o lo invadono, perché a casa loro non si sta bene a causa della pressione degli Unni venuti dall'Asia Centrale, una delle cause della caduta di Roma che non possono essere imputate alle classi dirigenti romane. Ma il non governo dell'immigrazione è colpa loro.

Così come la decisione fatale di reclutare gli immigrati per l'esercito - se qualcuno protesta perché non sono cittadini romani, si concede loro rapidamente la cittadinanza - che snatura le legioni. All'inizio del quinto secolo l'esercito romano non è piccolo. È grande più del doppio rispetto ai tempi di Augusto: da 240.000 uomini si è passati a oltre mezzo milione. Il problema è che più della metà sono immigrati di origine germanica: e dichiararli frettolosamente cittadini romani non cambia la loro condizione. È vero, sono «barbari» in maggioranza i legionari, ma sono romani i comandanti e romani gli imperatori da cui prendono ordini. Senonché a un certo punto i «barbari» si rendono conto appunto di essere la maggioranza dei soldati, la maggioranza di coloro che faticano e muoiono. Perché dovrebbero farsi comandare dai romani? Così, alla fine, uccidono i generali romani e li sostituiscono con uomini loro, si uniscono agli invasori etnicamente affini anziché respingerli e, nell'atto conclusivo, marciano su Roma e pongono fine all'Impero.

Del resto, secondo De Jaeghere, da secoli Roma verso le popolazioni germaniche
aveva rinunciato ad avere una «politica estera» che non fosse l'invito all'immigrazione. Le foreste del Nord sembravano ai romani un mondo caotico, dove bande e capi diversi e imprevedibili si uccidevano tra loro, e un mondo con poche ricchezze da portare a Roma. Di qui la decisione - gravemente sbagliata - di disinteressarsi di una vasta area nord-europea, lasciando che lì si formassero lentamente le forze che avrebbero aggredito e distrutto l'Impero, anche perché la globalizzazione dei commerci - pur senza televisione e senza Internet - informava questi «barbari» delle favolose ricchezze di Roma, e scatenava i loro appetiti.

Si comprende come questa sequenza che vede le cause della caduta di Roma in un processo che va dalla denatalità alla persecuzione fiscale dei cittadini, allo statalismo dell'economia e all'immigrazione non governata non piaccia a qualcuno. A De Jaeghere è stato opposto che l'immigrazione è una risorsa, che gli imperatori avrebbero dovuto valorizzare, e che il vero problema fu la loro incapacità di pensare l'Impero in termini nuovi e multiculturali, non l'aumento degli immigrati. È evidente che queste obiezioni «politicamente corrette» nascono dal timore del paragone con l'Europa di oggi, paragone cui lo stesso De Jaeghere non si sottrae, pur invitando alla cautela.

Nello stesso tempo, il suo libro offre una risposta alle obiezioni che allarga il quadro. A Roma venne meno un tasso di natalità capace di sostenere un Impero, con conseguenze a cascata sull'economia e la difesa. Ma perché questo avvenne? Perché a un certo punto i romani scelsero la strada di quello che, con riferimento all'Europa dei giorni nostri, San Giovanni Paolo II avrebbe chiamato «suicidio demografico»? Il libro sostiene che vennero lentamente meno i due pilastri della cultura romana, la «pietas» e la «fides», la lealtà alle tradizioni morali e religiose trasmesse dai padri e la fedeltà alla parola data e agli impegni assunti come cittadino romano nei confronti della patria.

Le cause di questa «decadenza» - in questo senso la parola non va abbandonata - sono molteplici.
Intorno all'epoca di Gesù Cristo l'aristocrazia romana si trasforma da élite guerriera e militare a élite terriera e latifondista, che riceve a Roma i proventi di possedimenti che spesso non ha neppure mai visitato. Questa nuova élite è più interessata ai piaceri che alla difesa dell'Impero, che considera comunque eterno e invincibile. E comincia a non fare figli: tutte le famiglie tradizionalmente aristocratiche dell'epoca di Gesù Cristo si estinguono prima del 300 d.C. tranne una, la gens Acilia, che si converte al cristianesimo. L'esempio delle classi dirigenti, come sempre accade, fa proseliti. La moda del figlio unico, o di nessun figlio, arriva fino alla plebe.

L'obiezione degli storici, soprattutto inglesi e americani, che negano la tesi della decadenza,
è che tutto questo riguarda soprattutto Roma o comunque le grandi città, mentre ancora nell'ultimo secolo dell'Impero l'85% della sua popolazione vive nelle campagne. Ma anche qui, nota De Jaeghere, vengono meno la «pietas» e la «fides». Perché l'Impero, troppo multiculturalista e cosmopolita e non troppo poco, è percepito come una lontana burocrazia che prende decisioni incomprensibili e si fa viva soprattutto per aumentare le tasse. Il piccolo proprietario di campagna nel migliore dei casi è disposto a battersi per difendere il suo villaggio, non i remoti confini di un Impero che percepisce come lontano e verso il quale non sente più nessun «patriottismo», nel peggiore accoglie i «barbari» come liberatori dal fisco romano che lo sta mandando in rovina.

Certamente De Jaeghere potrebbe dedicare più attenzione alle ragioni strettamente religiose del declino, studiate in chiave sociologica da Rodney Stark. Il declino della religione pagana, non più persuasiva per nessuno, è alle origini del declino della «pietas». Avrebbe potuto sostituirla il cristianesimo - di fatto lo farà, ma più tardi - che, come dimostra anche solo una rapida lettura di Sant'Agostino, sapeva trovare in sé le ragioni per difendere l'Impero e la cosa pubblica, di cui non si disinteressava affatto. Ma nell'Impero Romano d'Occidente, anche quando lo professavano gli imperatori, il cristianesimo era minoritario.

Le lezioni per il nostro mondo sono ovvie. Con tutte le cautele che richiede ogni paragone fra epoche diversissime, la caduta di Roma mostra come grandi civiltà possano finire, e che il modo della loro fine normalmente è demografico. Gli imperi cadono quando non fanno più figli, e la denatalità innesca una spirale diabolica di tasse insostenibili, statalismo dell'economia, immigrazione non governata ed eserciti imbelli. Per capire la pertinenza della parabola romana rispetto ai giorni nostri non servono troppi libri, basta aprire le finestre e guardarsi intorno.

Su un punto, peraltro, i critici di De Jaeghere hanno qualche ragione. Gli immigrati e gli invasori di Roma avevano un vantaggio rispetto a immigrati e «invasori» di oggi. In gran parte germanici, non erano portatori di una cultura forte. Riconoscevano la superiorità della cultura romana: cercarono di appropriarsene e finirono anche per convertirsi al cristianesimo. Attraverso secoli di sangue, sudore e fatica la caduta dell'Impero romano d'Occidente prepara così la cristianità del Medioevo.

Oggi gli immigrati e gli «invasori» - invasori tramite l'economia, o aspiranti invasori
in armi come il Califfo - sono portatori di un pensiero fortissimo, sia quello islamico o quello cinese: non pensano di dovere assimilare la nostra cultura ma vogliono convincerci della superiorità della loro. La crisi che potrebbe seguirne potrebbe essere ancora più letale di quanto fu per l'Europa la caduta di Roma. Per questo, discutere sulle ragioni della caduta dell'Impero romano d'Occidente non è un puro esercizio intellettuale.


















La nuova Bussola Quotidiana 23 febbraio 2015