mercoledì 29 febbraio 2012

Gesù Cristo e i suoi nemici








di Padre Giovanni Cavalcoli


Un aspetto importante della vita di Gesù è la sua condotta con i suoi nemici. Secondo le narrazioni evangeliche Gesù nel corso della sua vita, certo involontariamente e pur di attuare il piano del Padre celeste, si fece gradualmente dei nemici, la cui ostilità crescente si concluse con la condanna al supplizio della croce. Ma l’ostilità contro Cristo continua anche dopo la sua morte contro la sua persona e contro i suoi discepoli, contro la religione e la Chiesa da lui fondata, sino ai nostri giorni, e ciò sarà sino alla fine del mondo. Si tratta di un aspetto essenziale della vita della Chiesa.

Certamente esiste una differenza fra i nemici di Cristo e i nemici dei cristiani, anche se santi: mentre infatti nemici di Cristo non possono avere alcun motivo per osteggiarlo, dato che il Signore è l’Incarnazione stessa della Bontà, della Giustizia e della Santità, i nemici dei cristiani possono avere qualche motivo per il fatto che i cristiani, per quanto attuino fedelmente i comandi del Signore, mantengono in questa vita difetti e carenze che possono prestare il fianco a giuste critiche od essere oggetto di motivate riprovazioni da parte di chi, su quei punti, segue meglio la dottrina e l’esempio di Cristo.

Chiediamoci in questo articolo in che cosa consistette questa ostilità, i suoi motivi, con quali scopi e da quali ambienti partì. Certo sono cose note; ma vorrei soprattutto qui mostrare come oggi anche i discepoli di Cristo devono attendersi di essere osteggiati e perseguitati, da chi, come e perchè, nonché come devono comportarsi e come possono difendersi.

Innanzitutto si deve dire che Cristo non è stato nemico di nessuno, se per nemico intendiamo una persona malevola, che coltiva l’odio e il rancore o che si lascia vincere dall’ira o che ama litigare e offendere. Se qualcosa di questo può pallidamente apparire in Cristo da certi episodi del Vangelo, dobbiamo convincerci che non li interpretiamo bene e per i motivi che dirò. E’ importante infatti ricordare che tutto l’agire del Signore è motivato dalla carità. Anche quando Gesù esce nei confronti dei suoi nemici con le espressioni più dure, esse non devono essere considerate come insulti o sfoghi di rabbia o atti di violenza – anche se come tali sono considerate dai suoi nemici -, ma come forti richiami di un Dio di amore e di giustizia.

Questo non vuol dire che Cristo non abbia combattuto dei nemici e non li abbia vinti. Ma ha combattuto senza odiare, per puro amore della verità e della giustizia: Egli ha combattuto e vinto il mondo, il peccato, la morte e Satana. Ha combattuto anche e polemizzato con persone umane a lui ostili, confutandole, svergognandole, accusandole, ed attirandosi così il loro odio.

In altri casi i rimproveri severi di Gesù, come per esempio quelli rivolti agli apostoli, sortiscono il loro effetto educativo e correttivo. Certo Egli peraltro avrebbe ottenuto pace e benevolenza dai nemici se fosse sceso a patti con loro o li avesse lisciati nei loro peccati e nelle loro ingiustizie. Ma come allora Egli sarebbe stato nemico del peccato e dell’ingiustizia?

Gesù Cristo comunque per sua espressa dichiarazione è venuto a portare al mondo la pace, la “sua pace”, come Egli si esprime, non quella che dà il “mondo”(Gv 14,27). La pace che egli ci dona è soprattutto interiore, è la pace messianica, pace della coscienza che nasce dall’obbedienza a Dio, per cui Dante rispecchia bene la concezione cristiana della pace quando fa dire ad un personaggio della Divina Commedia: “nella sua volontà è la nostra pace”. Pace interiore che non esclude peraltro quaggiù il fervore e l’energia di quella che Paolo chiama la “buona battaglia” contro le forze del male e della menzogna. Pace che resta anche nel momento della sofferenza, della prova e dell’oppressione subìta dal nemico.

In particolare la pace che Cristo ci consente di raggiungere è ad un tempo ardua conquista e dono di Dio, frutto della giustizia che fa trionfare il diritto, della sapienza che compone i conflitti e della carità che unisce i cuori a Dio e ai fratelli mediante il sacrificio della croce. La pace può essere conquistata proprio come frutto della vittoria sul nemico della pace, similmente a quanto recita l’antico motto romano: si vis pacem, para bellum.

Invece la pace che viene da Dio vince forze maligne soverchianti, dalle quali non potremmo liberarci senza il suo aiuto ed è effetto di beni soprannaturali superiori ad ogni umano desiderio. Il martirio è una forma di suprema vittoria contro il massimo dei nemici, che è il peccato, ed ineffabile è la pace raggiunta dal martire per sé e per coloro che sanno apprezzare la sua testimonianza.

Da notare che Cristo, benchè giunto fra la sua gente con le migliori intenzioni e come messaggero di pace, ricevette ostilità soprattutto da coloro, come il suo popolo e i suoi capi, che, secondo i piani divini, maggiormente avrebbero dovuto accoglierlo con riconoscenza e trattarlo benevolmente. E tuttora gli Ebrei non hanno capito quanto il Messia li ha amati. Come dice Giovanni: “Venne tra i suoi e i suoi non lo hanno accolto”(Gv 1,11). E Gesù stesso afferma: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria” (Mt 13,57). Da qui le sue parole: “i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa” (Mt 10, 35).

E chi vuol seguire Cristo deve attendersi queste sue stesse sofferenze: “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi”(Gv 15,20). Per questo nella Chiesa esistono sempre persecutori e perseguitati. Non esiste un santo canonizzato che non abbia avuto da soffrire da parte di fratelli di fede e spesso anche da parte di superiori o membri della gerarchia. Anzi può capitare che un santo resti solo, come Cristo è rimasto solo, in un ambiente che pur essendo ecclesiale, gli è ostile. Ma egli, come Cristo, trova consolazione nella presenza ed approvazione del Padre.

Ma Gesù, con un apparente paradosso, dice anche di non esser venuto a portare la pace, ma “una spada”, per cui, per sua stessa dichiarazione, è venuto a “separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera”(Mt 10,35). Un avvertimento su questa linea lo troviamo anche laddove il Signore dice che per amor suo “in una casa di cinque persone si divideranno due contro tre e tre contro due”(Lc 12,53). Che senso dare a queste espressioni che sembrerebbero contraddire la suddetta dichiarata volontà di Cristo di donare al mondo la pace?

Gesù, con queste parole, intende riferirsi al dovere in certe circostanze di testimoniare a favore del Padre celeste anche in situazioni di minoranza, anche a costo di farsi dei nemici. Egli inoltre non esclude il diritto alla legittima difesa anche con l’uso della forza. Queste azioni tuttavia vanno compiute senza odio, con autocontrollo e moderazione ed anzi sempre animati dalla carità e dalla giustizia, per il bene stesso di coloro che ci insultano o ci affliggono o ci perseguitano, pronti a perdonare e pregando per loro. Come sappiamo, il subire l’attacco dei nemici di Cristo per amore di Cristo è una delle beatitudini del Vangelo.

Nemico irriducibile di Cristo è il diavolo, il “divisore” (dal greco diabolos, da diaballo che significa “divido”). Infatti Cristo unisce laddove il diavolo divide. Questi è il suscitatore dei conflitti, delle divisioni e delle guerre, mentre l’opera di Cristo è tutta tesa a riunire chi è diviso, a conciliare i belligeranti a metter pace laddove c’è l’odio, l’invidia e la contrapposizione. Ma Satana nulla può contro Cristo e egli vince solo coloro che si lasciano vincere perché non si pongono sotto la protezione del Signore.

Quanto al famoso precetto dell’“amore per i nemici”, esso certo non va inteso come invito ad amare i nemici in quanto nemici; ossia, non si tratta di approvare, far nostra o permettere la loro cattiva azione, perché così diventeremmo loro complici e conniventi col loro peccato, ma in quanto occorre saper riconoscere anche nei nemici lati buoni, amabili e oggetto dell’amore stesso del Padre.

Il nemico resta nemico; non si può considerare buona l’azione cattiva che compie contro di noi. Non possiamo chiamare bene il male. Invece si devono poter vedere al di là dell’odio che il nemico ci porta gli aspetti positivi della sua personalità ed apprezzare quelli, chiedendo a Dio che egli, basandosi su quegli aspetti buoni, si penta e si converta.

Inoltre, dovere grande del cristiano, che nasce dall’esempio di Cristo, è – per quanto gli è possibile – trasformare i nemici in amici mediante il buon esempio, la preghiera ed una perseverante opera di persuasione: è l’opera della conversione, condotta con sapienza, competenza, carità e pazienza. L’evangelizzazione, il dialogo ecumenico ed interreligioso hanno come fine ultimo quello di condurre i lontani da Cristo ad essere pienamente suoi amici nella Chiesa cattolica.

Gesù dal canto suo, tenta più volte un atteggiamento conciliante nei confronti dei suoi nemici, ma nel contempo la loro arroganza, ipocrisia ed empietà lo spinge a rimproverarli spesso ed aspramente e ad accusarli dei peccati che essi compivano minacciandoli dell’eterno castigo, svelando le loro imposture e i loro vizi nascosti. Gesù fa questo non certo mosso dalla passione, ma nel tentativo di scuotere le loro coscienze, le quali tuttavia restano sorde ai suoi richiami ed anzi si induriscono nel rancore e nella superbia sino a che si giunge al momento fatale della condanna a morte, dopo molti segni di disprezzo e di ostilità.

Nella vita terrena Gesù appare come sconfitto e castigato dai suoi nemici. Tuttavia Gesù ad un certo punto della sua vita, obbedendo alla volontà del Padre, vista l’ostinazione dei suoi nemici, si consegna nelle loro mani senza più difendersi e si lascia inchiodare alla croce come “mite agnello immolato” per la remissione dei peccati e per il trionfo della pace.

La croce di Gesù è stata un efficacissimo mezzo per intenerire molti cuori induriti nel peccato e nell’odio e spingerli a pensieri di pace e conversione. Unirsi alla sua croce vuol dire essere costruttori di pace e vincere il demonio, principe dell’odio e della menzogna.

Invece nell’Apocalisse Gesù, nella guerra escatologica contro le potenze del male, appare terribile e trionfante contro tutti i suoi nemici, uomini e demòni, Giudice e Giustiziere che infligge il castigo eterno non solo ai suoi persecutori, ma anche a tutti coloro che nella storia hanno offeso, osteggiato e perseguitato i suoi discepoli. Gesù è così anche il Vendicatore, il Goèl, come si dice in ebraico. Come dice Paolo, Cristo alla fine della storia, nella sua venuta parusiaca che comporta il giudizio universale, “mette tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi”.

La missione di Cristo è una missione di pace. Egli viene per riconciliare gli uomini con Dio ed offre a tutti i mezzi per questo fine. La pace con Dio non è tanto opera dell’uomo, quanto di Dio stesso. Per questo S.Paolo invita i suoi discepoli: “Lasciatevi riconciliare con Dio”(II Cor 5,20). Il Dio cristiano non è bellicoso, come certi dèi pagani, in particolare quelli della mitologia germanica. Non è un Dio vendicativo, però è un Dio giusto, nel senso che castiga coloro che gli resistono. Indubbiamente la Bibbia parla di un “dio degli eserciti”, anche se traduzione migliore sarebbe “delle schiere” (scèbaot); ma questa espressione significa la potenza di Dio nella vittoria sul male.

Così il “castigo” divino non va inteso come un intervento arbitrario dal di fuori nei confronti del peccatore, ma come la sventura che il peccatore stesso si tira addosso col suo peccato. La Bibbia parla bensì di “ira” divina, ma si tratta di un’espressione metaforica per esprimere semplicemente il fatto che l’uomo, disobbedendo a Dio, cade in uno stato di miseria, dal quale però, nella vita presente, può essere liberato da Cristo, mentre, se non accetta la missione di pace di Cristo, dopo la morte è perduto per sempre.

Gesù Cristo è sommo e divino operatore di pace. Ma la sua missione esclude che certe forze ribelli a Dio possano riconciliarsi con Dio. E queste sono innanzitutto le potenze sataniche, ma anche alcuni uomini, i quali, pur ricevendo da Cristo in questa vita i mezzi per tornare a Dio, oppongono il loro rifiuto, per cui, se in punto di morte non si pentono, vengono a far parte, nell’inferno, delle forze irrimediabilmente perdute ed ostili a Dio.

La missione di Cristo, quindi, rispetto ai suoi nemici, è duplice: Egli riconcilia a sé alcuni nemici, ma gli altri che non vogliono fare la pace, vengono sottomessi per forza alla sua signoria a cominciare da questa vita ma in pienezza e per sempre alla Parusia. Quindi o per amore o per forza alla fine del mondo tutte le potenze spirituali del creato piccole o grandi, uomini o angeli, si sottometteranno alla signoria di Cristo.

I discepoli di Cristo sono, sull’esempio del Maestro, uomini di pace, pacifici e pacificatori, offrendo al mondo le condizioni ed i mezzi della pace che provengono da Cristo. A somiglianza di Cristo, il suo discepolo ottiene il pentimento e la conversione di alcuni nemici, mentre altri restano ostinatamente tali e, come hanno perseguitato Cristo, costoro perseguitano anche i suoi discepoli.

Ma similmente, come Cristo trionfa sui propri nemici, anche il discepolo di Cristo al momento opportuno è destinato a trionfare sui propri nemici, che sono gli stessi nemici di Cristo. Compito del discepolo pertanto è far sì che i propri nemici siano i nemici di Cristo e i propri amici gli amici di Cristo.

Viceversa, per i nemici di Cristo gli amici sono nemici di Cristo, i nemici sono gli amici di Cristo. Nel contempo il discepolo di Cristo, seguendo l’esempio del Maestro sulla croce, perdona ai propri nemici. Quelli che però non si pentono non possono essere perdonati, ma subiscono invece il giusto castigo.

Stando così le cose, l’idea oggi corrente secondo la quale la missione pacificatrice e riconciliatrice di Cristo estinguerebbe ogni forma di ostilità a Dio salvando tutti gli uomini, è falsa ed eretica, perché in realtà, come appare chiaro dagli stessi insegnamenti di Cristo e della Chiesa, non tutti gli uomini accettano di diventare amici di Cristo e pertanto questi si dannano.

Inoltre altra eresia oggi diffusa è il rifiuto di credere all’esistenza ed all’azione del demonio, altra creatura che non si riconcilia con Dio. Su questo punto si può fare un paragone con l’eresia di Origene, il quale, benchè sapesse che il demonio esiste, credeva che alla fine del mondo anche il demonio venga perdonato e faccia la pace con Dio.

Perché – ci si potrebbe chiedere – Dio permette che non tutto il mondo sia riconciliato con Dio, ma una parte di esso resta in un’eterna opposizione? Infatti il piano divino prevede che una parte del mondo, quella che si converte, sia “salvata” ed una parte, quella ribelle, sia “vinta”. Che significa tutto ciò? Vuol dire per caso un’imperfezione nell’opera divina della salvezza? Un parziale insuccesso? No, perché Cristo da parte sua ha compiuto tutto quello che il Padre gli aveva comandato di compiere.

La colpa della ribellione è solo a carico dei ribelli; Cristo resta del tutto innocente. E non è a dire che i mezzi che Cristo offre per ottenere la pace siano insufficienti: essi sono sufficientissimi. Se pertanto alcune creature restano per sempre ostili a Dio, la colpa è solo la loro, e in questa loro condizione non fa che venire in evidenza la giustizia divina che dà a ciascuno il frutto delle sue opere.


Libertà e Persona - 28 feb 2012

martedì 28 febbraio 2012

CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA E MINISTERO PRESBITERALE (II parte)


Rivista Liturgica - BIMESTRALE PER LA FORMAZIONE LITURGICA fondata nel 1914 dall'abbazia benedettina di Finalpia
terza serie anno XCVII fascicolo 1 gennaio-febbraio 2010

Liturgia e presbiteri: oltre l'anno sacerdotale






di Goffredo Boselli


2. TRARRE LEZIONE DALLA STORIA PER PROSEGUIRE LA RIFLESSIONE TEOLOGICA


Giunti alla seconda parte, è doveroso riformulare la domanda di base e chiedersi se vi è un altro modo possibile per i presbiteri di celebrare l'eucaristia che non sia unicamente il presiederla o il concelebrarla. Per rispondere a questo interrogativo è necessario, come sempre nelle questioni legate alla vita della Chiesa, trarre lezione dalla storia ascoltando la grande tradizione della Chiesa al fine di progredire nella riflessione teologica e individuare possibili vie da percorre e prassi da avviare.

Per rispondere alla nostra domanda, ci sia sufficiente ricordare tre dati storici di epoche diverse. Una testimonianza dei primi secoli, una di epoca medioevale e una moderna, testimonianze che sono degli autentici frammenti della prassi liturgica della Chiesa. Queste testimonianze sono vere e propri échantillions che possono essere confermati da altri numerosi dati che la storia attesta.

I documenti canonico-liturgici dei primi secoli prescrivono con precisione la modalità con la quale accogliere nelle assemblee i vescovi e presbiteri e di altre Chiese. Nella Didascalia degli apostoli, documento di origine siriaca datato alla prima metà del III secolo, si stabilisce quanto segue:

«Se un presbitero arriva da un'altra assemblea, voi presbiteri accoglietelo al vostro posto (communiter in loco vestro), e se è vescovo siederà con il vescovo che condividerà con lui il suo posto. Tu, o vescovo, gli domanderai di parlare al tuo popolo poiché i consigli e le ammonizioni degli estranei sono molto utili... E pronuncerà le parole nell'azione di grazie, ma se per saggezza ti lascia questo onore e non vuole offrire, pronuncerà invece le parole sul calice (super calicem dicat)»(18).


Questo passaggio sarà ripreso verso il 380 nel libro II delle Costituzioni apostoliche; ma il compilatore correggerà l'invito rivolto al vescovo ospite di pronunciare le parole «super calicem», facendo pronunciare al vescovo ospite la benedizione sul popolo:
«E se non vuole offrire, tu lo persuaderai a dare almeno la benedizione al popolo»(19).

Due sono gli elementi da trarre da questa prima testimonianza in ordine al nostro interrogativo. Primo elemento: il presbitero ospite è invitato a prendere posto tra i presbiteri della Chiesa che lo ospita all'interno della «comunità presbiterale», del «presbytéron koinonikós», si legge nel testo greco delle Costituzioni apostoliche. Questo significa che all'interno dell'assemblea liturgica i presbiteri hanno un posto specifico e dunque sono riconoscibili dai fedeli presenti; tuttavia non è specificato se essi fossero tenuti a porre gesti particolari o indossare abiti liturgici propri. Secondo elemento: il testo ci informa anche del modo con il quale deve essere accolto un vescovo ospite e ciò che egli è invitato a fare dal vescovo locale.

Abbiamo qui attestate le più antiche modalità di condivisione della presidenza eucaristica tra due vescovi: al vescovo ospite è offerta la possibilità di predicare e di pronunciare le parole sul calice, quest'ultima successivamente sostituita dalla benedizione sul popolo. Appare decisivo questo dato: il vescovo ospite non è obbligato per il suo ministero a pronunciare parole o porre gesti sacramentali nel corso dell'eucaristia, ma a lui è semplicemente rivolta una richiesta, un invito. La Didascalia e le Costituzioni apostoliche ordinano al vescovo locale: «Tu, o vescovo, gli domanderai (petes eum) di parlare al tuo popolo». Il redattore delle Costituzioni corregge e aggiunge anche «gli proporrai di offrire l'eucaristia». Inoltre, prevedono che il vescovo ospite possa «per rispetto e sapienza» declinare l'invito e lasciare al vescovo locale la preghiera dell'anafora.

In sintesi, non c'è alcun obbligo ex ministerio, ossia nessuna norma disciplinare, canonica o liturgica e tanto meno morale derivante dal ministero episcopale di porre atti e pronunciare formule sacramentali all'interno di una sinassi eucaristica. La predicazione, le parole sul calice e la benedizione al popolo non sono un diritto, ma il frutto di un invito. In sintesi, la Didascalia e le Costituzioni apostoliche stabiliscono unicamente il posto da occupare nell'assemblea, i presbiteri all'interno del presbyterón koinonikós e il vescovo ospite accanto al vescovo locale. Sono tenuti a occupare la sede loro assegnata, così che il posto all'interno dell'assemblea liturgica è, da come emerge da questi documenti, il solo elemento che li distingue dagli altri fedeli e dona loro una visibilità ministeriale propria.

Il secondo frammento, di epoca medioevale, è la lettera detta Epistola missa una, inviata nel 1224 da Francesco d'Assisi ai suoi fratelli riuniti in capitolo. Tra le altre cose si legge nella lettera:
«Ammonisco ed esorto nel Signore che, nei luoghi dove i fratelli risiedono, sia celebrata una sola messa al giorno, secondo la norma della santa Chiesa. Se, tuttavia, ci fossero in uno stesso luogo più sacerdoti, l'uno si accontenterà, per amore della carità, di ascoltare la celebrazione dell'altro sacerdote, poiché il Signore Gesù colma dei suoi doni i presenti e gli assenti che sono degni di lui» (20).

Con questa lettera capitolare Francesco stabilisce due norme. La prima: nei conventi dei suoi frati deve essere celebrata una sola eucaristia al giorno anche quando ci sono più presbiteri, a differenza dei certosini ai quali alla fine del XII secolo era stato permesso di celebrare più messe private. Francesco fissa una seconda norma: nei conventi dove sono presenti più frati presbiteri «l'uno si accontenterà, per amore della carità, di ascoltare la celebrazione dell'altro sacerdote (contentus auditu celebrationis alterius sacerdotis)».

Questa lettera attesta dunque che ancora nel XIII secolo, quando la prassi delle messe private era già ampiamente affermata, un superiore poteva legittimamente prescrivere che nelle comunità ai lui soggette fosse celebrata una sola messa al giorno e che i presbiteri del convento si accontentassero di «ascoltare» l'eucaristia presieduta da uno di loro e lo faceva appellandosi alla norma della santa Chiesa (secundum formam sanctae Eccelsiae). Il verbo impiegato da Francesco per definire la modalità di partecipazione dei presbiteri all'unica eucaristia è audire, ovvero «ascoltare» la celebrazione com'è proprio dei fedeli laici, escludendo di fatto ogni gesto o parola sacramentale. Va da sé che, a differenza della Didascalia e delle Costituzioni apostoliche, Francesco non debba stabilire un posto particolare per i frati, in quanto era il coro del convento il luogo da dove partecipare alla celebrazione eucaristica.

Infine, il terzo frammento è la memoria della prassi in uso fino al 1922, secondo la quale in conclave non si celebrassero messe private ma una sola eucaristia al giorno, che i cardinali ascoltavano, essendo la concelebrazione allora esclusa. Ancora Pio X nella Vacante Sede Apostolica del 1904 prevede che i cardinali ricevano la comunione durante la messa celebrata all'inizio della riunione per l'elezione (21).

Solamente Pio XI modificò questo uso antichissimo e nel Motu proprio Cum proxime (1 marzo 1922) permise ai cardinali la celebrazione della messa privata (22).

Questi tre frammenti della grande tradizione della Chiesa, attestano che ininterrottamente dal III al XX secolo i vescovi e i presbiteri per celebrare l'eucaristia non fossero tenuti a porre atti o pronunciare parole sacramentali proprie del loro ministero ma che, per utilizzare le parole di Francesco d'Assisi, si accontentavano di partecipare «auditu» all'eucaristia presieduta da un altro presbitero, ricevendo da lui comunione.
Pertanto, l'alternativa tra presiedere o concelebrare alla quale i presbiteri oggi sono confrontati è un'alternativa priva di conferma nella grande tradizione della Chiesa, la quale riconosceva che i presbiteri celebravano l’eucaristia sebbene non ponessero atti ministeriali o pronunciassero formule sacramentali.


3. CONCLUSIONI

La problematica delle «grandi concelebrazioni» e la conseguente questione del numero dei concelebranti posta in questi ultimi anni dal magistero della Chiesa ci sono parse strettamente legate all'alternativa tra il presiedere l'eucaristia o il concelebrarla, alla quale oggi i presbiteri sono spesso tenuti. La riflessione compiuta ci ha portati a due conclusioni.

a) La normativa liturgica in vigore - attestata dal Ritus servandus e dall'Ordinamento generale del Messale Romano -sebbene non fissi un numero massimo di concelebranti, stabilisce tuttavia un criterio decisivo: «Il numero dei concelebranti sarà stabilito... in modo tale che i concelebranti possano stare intorno all'altare». É questo un criterio autenticamente liturgico, comunemente osservato anche dalle liturgie ortodosse e orientali. Un secondo criterio in base al quale stabilire l'opportunità di una concelebrazione è indicato dall'Istruzione per l'applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei canoni delle Chiese orientali, la quale non esita a sconsigliare la concelebrazione «quando il numero dei concelebranti sia sproporzionato rispetto a quello dei laici presenti». Da questo criterio si deduce la
non opportunità di una concelebrazione dove il numero dei presbiteri concelebranti supera quello dei laici presenti e, a maggior ragione, la non opportunità di un'assemblea formata da soli concelebranti.

b) La seconda conclusione risponde direttamente alla domanda alla quale abbiamo cercato una possibile risposta: vi è per i presbiteri una reale via di uscita all'alternativa tra presiedere l'eucaristia o concelebrarla? La riflessione teologica supportata dai dati della tradizione della Chiesa mostra che è possibile sia superare l'alternativa posta oggi ai presbiteri di presiedere o di concelebrare. Secondo un'antica tradizione della liturgia romana, che la prassi attuale della concelebrazione ha posto in ombra, i presbiteri che non sono chiamati a presiedere una celebrazione eucaristica né a concelebrarla possono celebrare l'eucaristia nella visibilità ministeriale che è loro propria all'interno della Chiesa (in altro linguaggio si direbbe «da preti», e «secondo la loro dignità), essendo chiaramente riconoscibili per il posto a loro riservato e per l'abito corale indossato. Questa antica prassi liturgica attesta che è possibile celebrare l'eucaristia come presbiteri all'interno dell'assemblea senza necessariamente porre gesti ministeriali e pronunciare formule sacramentali.


Monastero di Bose

goffredo@monasterodibose.it


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17) CONGREGAZIONE PER LE CHIESE ORIENTALI, Istruzione per l'applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei canoni delle Chiese orientali, LEV, Città del Vaticano 2006, n. 57, pp. 59-50.
18) Didascalia II, 58, 1-3, in F.X. FUNK (ed.), Didascalia et Constitutiones Apostolorum, Bottega d'Erasmo, Torino 1979 (ed. anas.), pp. 166.168.
19) Costitutioni apostoliche II, 58, 1-3, in M. METZGER (ed.), Les Constitutions Apostoliques, vol. I, du Cerf, Paris 1985, pp. 320.322.
20) E. MENESTÒ - S. BRUFANI (edd.), Fontes Franciscani, Porziuncola, Assisi 1995, pp. 99-104, 101-102.
21) PIUS X, Constitutio apostolica Vacante Sede Apostolica (25.12.1904), in Pii
X Pontificis Maximi Acta (1908), pp. 139-288.
22) PIUS XI, Motu Proprio Cum proxime (1.3.1922), in «Acta Apostolicae Sedis» 14 (1922) 145-146.

Riapre santa Maria Maggiore. Ma mancano gli inginocchiatoi








Quanta gioia può esserci nel cuore di un parrocchiano quando viene riaperta la chiesa nella quale ha vissuto i momenti più importanti della propria vita di fedele! E quanta gioia si somma alla precedente se tale chiesa è un gioiello dell’architettura italiana sotto la cui pavimentazione hanno trovato le vestigia della prima chiesa episcopale cittadina oltre che le tracce dell’antecedente foro municipale!

Il cuore si riempie di gioia e orgoglio per il lavoro sapiente e paziente degli studiosi che per lungo tempo si sono dedicati, incuranti del freddo, nel riportare alla luce tracce di una storia che ci qualifica come il Paese con il maggiore tesoro architettonico del mondo.

Poi però arriva alle orecchie una notizia, rumors per lo più, che ci lascia perplessi.

Santa Maria Maggiore, la chiesa della terza sessione del Concilio di Trento, quello che ha ridato solidità e stabilità al mondo cattolico durante la bufera luterana, sarà sprovvista di inginocchiatoi perché l’atto del genuflettersi è stato considerato un gesto vetusto.

Non è questione di lana caprina. Stiamo parlando di un gesto con il quale testimoniamo la nostra devozione alla regalità di Cristo, con il quale veneriamo la reale presenza del Salvatore nel Santissimo Sacramento. È un gesto che esprime la nostra umiltà.

Certo, l’Ordinamento generale del Messale Romano, strumento che fornisce le indicazioni liturgiche necessarie al culto, è molto chiaro in merito: non c’è costrizione alcuna.

“S’inginocchino poi
– dice il documento riferendosi ai fedeli – alla consacrazione, a meno che lo impediscano lo stato di salute,la ristrettezza del luogo, o il gran numero dei presenti, o altri ragionevoli motivi. Quelli che non si inginocchiano alla consacrazione, facciano un profondo inchino mentre il sacerdote genuflette dopo la consacrazione.”

Il linguaggio della Chiesa, lo si evince, è materno: educa con dolcezza indicando il Giusto, conoscendo tuttavia la fragilità umana, morale e fisica. Una Chiesa che, accogliente come una madre appunto, lascia lo spazio alle varie Conferenze Episcopali di “adattare i gesti e gli atteggiamenti del corpo, descritti nel Rito della Messa, alla cultura e alle ragionevoli tradizioni dei vari popoli secondo le norme del diritto”.

Ora, dato che il concetto della desuetudine dell’inginocchiarsi pare essere stato affermato addirittura dal parroco, ci si chiede quale ragionevole tradizione popolare trentina abbia ispirato la sua decisione.

Non è forse, come al solito, il tentativo, fallimentare in partenza, di volersi uniformare allo spirito dei tempi rendendo accattivante e meno ostica la liturgia? Ma sarà poi davvero più affascinante un culto svuotato di quei pii gesti di partecipazione del fedele al compiersi, hic et nunc, del Sacrificio di Cristo, sacrificio dal quale dipende la nostra salvezza? E l’adattarsi al lassismo imperante del nostro tempo, alla ricerca spasmodica di comodità, non significa accondiscendere al mondo? Non significa impoverire una tradizione liturgica secolare? Non significa rinunciare all’impegnativo intento educativo delle nuove generazioni?

Mentre queste riflessioni si affastellano nella nostra mente, la lettura di un bellissimo breve saggio di mons. Marco Agostini, cerimoniere pontificio e cultore di liturgia e arte sacra, ci apre nel cuore uno spiraglio di soluzione. Riflettendo sulla cura che l’architettura ha riservato all’impiantito delle chiese antiche e moderne, ma non di quelle nostre contemporanee, e scorrendo con l’immaginazione su quei tappeti marmorei ricchi di pietre ed intarsi, il nostro afferma che tali pavimenti, lungi dall’essere un tentativo di esibizione di sfarzo, non erano stati realizzati per essere coperti dai banchi, “questi ultimi introdotti in età relativamente recente allorquando si pensò di disporre le navate delle chiese all’ascolto comodo di lunghi sermoni” […] Questi pavimenti sono principalmente per coloro che la liturgia la vivono e in essa si muovono, sono per coloro che si inginocchiano innanzi all’epifania di Cristo. L’inginocchiarsi è la risposta all’epifania donata per grazia a una singola persona. Colui che è colpito dal bagliore della visione si prostra a terra e da lì vede più di tutti quelli che gli sono rimasti attorno in piedi. Costoro, adorando, o riconoscendosi peccatori, vedono riflessi nelle pietre preziose, nelle tessere d’oro di cui talvolta sono composti i pavimenti antichi, la luce del mistero che rifulge dall’altare e la grandezza della misericordia divina.”

Ebbene, come novelli Magi, come il cieco nato, come la Maddalena nel giardino il mattino di Pasqua, anche noi, espropriati degli antichi banchi con gli inginocchiatoi, ci genufletteremo molto umilmente sul semplice tappeto di pietra di Santa Maria Maggiore.


Libertà e Persona 28 febbraio 2012

lunedì 27 febbraio 2012

Sul Canone Romano









«Niente in esso è contenuto che non elevi a Dio
l’animo di coloro che offrono il santo sacrificio»
Così nel decreto dogmatico De sanctissimo sacrificio missae
il Concilio di Trento parla del Canone Romano


di Lorenzo Cappelletti



Dal decreto dogmatico del Concilio di Trento sul santissimo sacrificio della Messa: «E, dato che le cose sante è bene che siano amministrate santamente e questo sacrificio è la cosa più santa fra tutte, la Chiesa cattolica, perché fosse offerto e ricevuto degnamente e con reverenza, da molti secoli ha stabilito il sacro Canone, così immune da qualunque errore che niente in esso è contenuto che non profumi di grandissima santità e pietà e che non elevi a Dio l’animo di coloro che offrono il sacrificio. Infatti esso è composto in parte dalle parole stesse del Signore, in parte da ciò che è stato tramandato dagli apostoli, e anche da ciò che è stato piamente stabilito da santi pontefici»


Il primo atto della Sessione XXII celebrata il 17 settembre 1562 a Trento, nella quale sarebbero stati approvati la dottrina e le norme sul sacrificio della messa, fu un atto ecumenico apparentemente estraneo a quella questione: la lettura della dichiarazione di obbedienza del patriarca di Mosul Ebed Iesu. Per ricevere conferma della sua elezione da papa Paolo IV era venuto a Roma alla fine dell’anno precedente dall’odierno Iraq meridionale. Costui altri non era che il lontano predecessore di Raphaël Bidawid, l’odierno patriarca dei Caldei [morto nel 2003; l’attuale patriarca è Emmanuel Delly, ndr]. Non era uno stinco di santo, eppure fu lui a unire ufficialmente da quel momento Bagdhad a Roma. Affermava – ce ne dà notizia il cardinale Da Mula incaricato di prestargli accoglienza – che dalla sua sede dipendevano più di 200mila cristiani, che loro, i Caldei, avevano ricevuto la fede dagli apostoli Tommaso e Taddeo, e da Mari loro discepolo, che possedevano tutti i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, e inoltre le traduzioni di molti padri greci e latini e altri scritti ignoti ai latini che risalivano all’età apostolica; che presso di loro si praticava la confessione auricolare, si avevano quasi gli stessi sacramenti della Chiesa romana (iisdem fere quibus nos), si veneravano le immagini dei santi e si pregava per i defunti come si faceva a Roma. E, quanto al Canone, che usavano quasi lo stesso Canone che si usava a Roma (Canone iisdem fere verbis in celebranda missa).

Quando fu letta la sua dichiarazione, peraltro, il nostro Ebed Iesu, rifornito di ricchi doni (amplis muneribus), era già tornato in patria, poiché la sua presenza vi era indispensabile, diceva. Gli storici dicono che «il vero motivo per cui non si fece vedere a Trento era il fatto che egli non capiva nessuna lingua occidentale» (Hubert Jedin). Non avrebbe capito nulla di quanto si sarebbe detto proprio in quella sessione del sacrificio della messa e del Canone. D’altronde i Caldei non lo mettevano in discussione. Il cardinale Da Mula, anzi, concludeva così la lettera di presentazione sopra ricordata: «I vani argomenti degli eretici sono refutati anche per il fatto che la dignità della Chiesa e la dottrina della salvezza oppugnata da gente a noi vicina, da mille e cinquecento anni è rimasta la medesima presso gente così lontana da noi, in mezzo a tanti mutamenti, a cambiamenti di re e di regni, sotto la pesante e costante persecuzione degli infedeli attraverso ingiustizie e malversazioni, in mezzo alla barbarie». Niente di più attuale se si pensa non solo all’Iraq, ma anche alla Cina.

I protestanti, in effetti, rifiutavano quella messa e soprattutto quel Canone che Ebed Iesu aveva riconosciuto tanto familiare. E di questo rifiuto avevano fatto una bandiera. Avevano anche le loro ragioni. In termini generali – scriveva il benedettino Gregory Dix, in un’opera composta all’epoca della Seconda guerra mondiale, ma che rimane un classico della storia della liturgia – «il corpo di Cristo aveva preso l’aspetto di una grande macchina tutta umana di salvezza attraverso sacramenti messi in opera per motivi tutti umani da uomini che agivano in nome e con la tecnica di un Cristo assente. Macchina che era venuta crescendo in modo assai complicato. [...] Tutta la sua forza e la sua energia erano assorbite dal mantenere sé stessa in funzione. [...] La vita della Chiesa era in mano alla macchina e la macchina funzionava, ma altro non si può dire».

La diffusione di ogni genere di abusi ne era l’immediata conseguenza, tanto che il Concilio stesso stabilì una speciale commissione che, in ordine alla celebrazione della messa, provvide a raccoglierne un centinaio: le chiacchiere coi fedeli prima della celebrazione e il compiacersi di gesti teatrali da parte dei sacerdoti, il piazzarsi in faccia al sacerdote celebrante da parte dei fedeli, e così via. Ma un conto era evidenziare degli abusi, un conto era abolire il prefazio, sostituire il Padre nostro con una parafrasi moraleggiante, soprattutto abolire il Canone, per la ragione che esso avrebbe introdotto il culto pagano nella Chiesa.

Lutero paragonava il Canone Romano all’altare che Acaz mise al posto dell’altare di bronzo nel Tempio di Salomone (cfr. 2Re 16, 7-18): «L’empio Acaz tolse l’altare di bronzo e lo sostituì con un altro fatto venire da Damasco. Parlo del lacero e abominevole Canone raccolta di omissioni e di immondezze: lì la messa ha preso a diventare un sacrificio, lì furono aggiunti l’offertorio e orazioni mercenarie, lì furono inserite in mezzo al Sanctus e al Gloria in excelsis sequenze e frasi. [...] E neppure oggi si smette di fare aggiunte a questo Canone». Gli altri riformatori scrivevano di peggio.

Il Concilio di Trento prese le difese del Canone. A Bologna, nel periodo travagliato eppure fecondo in cui il Concilio, o meglio parte di esso, vi si stabilì per neanche un anno fra il 1547 e il 1548 (causa un’epidemia di tifo a Trento, dove il Concilio si era aperto nel dicembre del 1545), i teologi cominciarono innanzitutto col difendere la forma della messa così come si era venuta storicamente formando, sulla base del principio guida (che fortunatamente non sarà più abbandonato) così sintetizzato da un altro grande liturgista, Burkhard Neunheuser: «Riformare, però senza perdere il contatto col periodo precedente, cioè continuando la tradizione medievale». Principio che non si risolveva in una petizione di principio.

Infatti, scrive Dix, «le implicazioni del testo della liturgia potevano essere ignorate nell’insegnamento e nella pratica del tempo, ma esso ancora racchiudeva, come in uno scrigno, non l’insegnamento medievale, ma quelle antiche e semplici verità sull’eucaristia che Gregorio Magno aveva preservato e Alcuino aveva fedelmente trasmesso». Fu un atto di umiltà e di saggezza, anche perché – di questo ci si è resi conto solo molto tempo dopo – molti dei testi patristici, su cui ci si basava da entrambe le parti, erano corrotti e molti, come «i così importanti padri siriaci, erano del tutto sconosciuti» (Dix). Magari non a Ebed Iesu.
Certo, il Canone Romano contiene passi un po’ difficili (obscuriora loca), dirà lo schema di decreto scaturito da quei primi dibattiti e abbisogna di una spiegazione. Ma il Concilio, che era tornato a Trento nel 1551, subì una nuova interruzione a partire dall’aprile 1552. Per un biennio, nelle previsioni. In realtà il Concilio si riaprì solo dopo dieci anni e quello schema rimase allo stato di crisalide.

Fu durante l’estate del 1562, quando già Ebed Iesu se ne era ritornato fra i Caldei, che si intensificò il lavoro. Jedin: «A Trento ci si rendeva conto che la dottrina del sacrificio della messa, che era allora in programma, non era inferiore per significato religioso e per importanza ecclesiastica alla dottrina della giustificazione che il Concilio aveva definito quindici anni prima, forse addirittura la sorpassava. Si trattava di comprendere il mistero centrale della fede, nel quale si attua costantemente l’unione della Chiesa col suo capo». Cominciata il 20 luglio, la discussione serrata portò a un primo “progetto d’agosto” giudicato però troppo lungo. Qualche canonista sosteneva addirittura che era superfluo esporre la dottrina sul sacrificio della messa: sarebbe bastato difendere il Canone della messa per dire la dottrina cattolica sul sacrificio.

Ma si decise tuttavia di mantenere la struttura del “progetto di agosto”, che, in analogia col decreto De iustificatione, prevedeva una serie di capitoli dottrinali seguiti da canoni. Così i padri ricevettero fra il 4 e il 5 settembre un nuovo schema, il “progetto di settembre” che verrà approvato nella seduta solenne del 17 settembre, quella con cui si apriva il nostro articolo, e che si chiuse «molto tardo. Et tutti stracchi», dicono le cronache, i padri tornarono alle loro dimore. Fatica non vana. Il vero e proprio grido con cui il vescovo di Ventimiglia aveva concluso l’omelia della messa d’apertura di quella sessione era stato ascoltato: «Salvaci, Signore, noi periamo!».

Fra il 5 settembre e il 17, peraltro, ci furono delle aggiunte, fra cui una aggiunta essenziale al capitolo IV, per le insistenze e le preghiere allo Spirito Santo di qualche padre e di qualche teologo. Il capitolo IV, ancora nell’ultimo schema, parlava del Canone come istituzione ecclesiastica, senza alcun riferimento alla sua antichità né alla tradizione da cui scaturiva. Ora invece, nel testo definitivo, senza impegnarsi giustamente nello specificare la data e le parti della sua composizione, e facendola pur sempre risalire alla Chiesa (Ecclesia catholica sacrum Canonem instituit), il Concilio dice però il Canone istituito «da molti secoli» e formato «dalle parole stesse del Signore», da «ciò che è stato tramandato dagli apostoli» e «da ciò che è stato piamente stabilito da santi pontefici». È per questo (enim si legge nel testo latino), cioè perché raccoglie il deposito della tradizione, che è immune da ogni errore. E solo così può essere condannato, nel corrispondente canone 6, chi ne chiede l’abrogazione. Non contenendo errori («infatti esso è composto in parte dalle parole stesse del Signore, in parte da ciò che è stato tramandato dagli apostoli, e anche da ciò che è stato piamente stabilito da santi pontefici»), proprio per questo (ideoque) non deve essere abrogato.

Delle parti oscure del Canone e della loro spiegazione di cui nello schema del 1552, nel testo finale non si parla più. Bisognerebbe capire perché. «Per ragioni di brevità» – scrive, in un articolo postconciliare eppure già datato sul Canone Romano, Jerome P. Theisen – e sembra sottintendere “purtroppo!”. Theisen lamenta che il Concilio di Trento, particolarmente riguardo al Canone, abbia avuto una reazione puramente difensiva, non sia stato creativo e verboso, come piace oggi.

Per favore, riflettere sul seguente passaggio preconciliare, ma solo per data, di Dix: «Il vantaggio della Controriforma fu che essa conservò il testo di una liturgia che in sostanza risaliva a molto prima dello sviluppo medievale. Con questo preservò quelle primitive formulazioni in cui riposava la vera soluzione delle difficoltà medievali, anche se ci volle del tempo prima che la Chiesa postridentina ne facesse uso per lo scopo. I protestanti al contrario abbandonarono l’intero testo della liturgia e specialmente quegli elementi in essa che erano un genuino documento di quella Chiesa primitiva che essi affermavano di restaurare. Introdussero al suo posto forme che derivavano e esprimevano la tradizione medievale dalla quale scaturiva il loro stesso movimento».
Eterogenesi dei fini.


fonte: 30GIORNI, 02/03 - 2010




Il Canone e il Concilio di Trento
Breve nota sulla traduzione italiana del Canone Romano


di Lorenzo Bianchi



Nella riforma liturgica avvenuta a seguito del Concilio ecumenico Vaticano II, il testo del Canone detto “Romano”, cioè quello in uso da tempo immemorabile presso la Chiesa di Roma, non ha subito modifiche nella sua forma, se non alcune importanti variazioni di papa Paolo VI nel nuovo Ordo Missae riformato, pubblicato con la costituzione apostolica Missale Romanum del 3 aprile 1969. Le variazioni introdotte da Paolo VI riguardano in particolare la formula di consacrazione sia del pane che del vino.

Tranne queste variazioni di Paolo VI, il testo che oggi appare nel Messale in latino di cui, il 20 aprile 2000 è stata approvata la terza edizione successiva alla riforma liturgica postconciliare, è identico al testo che il Concilio di Trento ha definito, nella sessione XXII (17 settembre 1562), come dogmaticamente immune da errori e non modificabile.
Il testo del Canone è in uso fin dai primissimi tempi della Chiesa, noto in redazioni originariamente in lingua greca e in lingua siriaca; la versione latina comincia ad apparire a partire dalla seconda metà del IV secolo, quando nella Chiesa di Roma il latino sostituisce il greco nella celebrazione del sacrificio della messa, e risale sostanzialmente nella sua attuale forma all’epoca di papa Gregorio Magno (fine VI secolo).

Il Canone è anche l’ultima parte della messa a essere stata tradotta, a seguito della riforma postconciliare, nelle lingue attuali. Le prime richieste di poter utilizzare nella celebrazione della messa traduzioni del Canone nelle varie lingue volgari risalgono già alla fine del 1966. In particolare la prima richiesta partì dalla Conferenza episcopale olandese, e il 21 ottobre 1966 venne incaricato di esaminare la questione il Consilium ad exsequendam constitutionem de sacra liturgia, di cui era segretario monsignor Annibale Bugnini. Il 13 febbraio 1967 le varie commissioni delle principali lingue vennero incaricate dal Consilium di preparare le traduzioni, «letterali e fedeli».


Intanto, l’istruzione della Congregazione dei Riti Tres abhinc annos del 4 maggio 1967 concedeva alle Conferenze episcopali la facoltà di usare la lingua volgare nel Canone. Le prime traduzioni furono inizialmente respinte, poiché risultate troppo libere e semplificate, dalla Congregazione per la Dottrina della fede, che in particolare tramite il Consilium richiese che si rendesse «fedelmente il testo del Canone Romano, senza variazioni o omissioni o inserzioni» che le differenziassero dal testo latino (comunicazione del Consilium alle conferenze episcopali del 10 agosto 1967, approvata da Paolo VI il 4 agosto precedente); nello stesso tempo si faceva presente il «desiderio del Santo Padre che i messali... portino sempre a lato della versione in lingua volgare il testo latino, su doppia colonna, o a pagine rispondenti, e non in fascicoli o libri separati»: desiderio che di fatto trovò molte resistenze, tanto che Paolo VI il 10 novembre 1969 dovette dispensare da tale principio, stabilendo che la parte latina fosse stampata in appendice al Messale (ma anche questa disposizione verrà di fatto ignorata).

Dalla documentazione dell’epoca sembra trasparire quasi una faticosa resistenza del Papa di fronte a richieste di variazioni spesso giustificate con «gravi motivi pastorali», e nello stesso tempo una sorta di malumore dei traduttori a fronte delle precisazioni del Papa (cfr. ad esempio quanto dice lo stesso Annibale Bugnini in La riforma liturgica (1948-1975), CLV-Edizioni liturgiche, Roma 1983, p. 116: «Il Consilium era perplesso...», e p. 117: «Le Conferenze, e soprattutto le Commissioni liturgiche, non rimasero molto entusiaste: vi vedevano quasi un atto di sfiducia nel loro lavoro, al quale veniva preferita la traduzione dei messalini, letterariamente spesso scadente»).
Alla fine, comunque, si giunse all’approvazione della prima traduzione, quella francese, che il 31 ottobre 1967 venne inviata come modello alle Conferenze episcopali.
Poco dopo, il 13 gennaio 1968, fu approvata la prima versione italiana che andò in uso dalla domenica Laetare, 24 marzo 1968.
Tutte queste prime traduzioni riguardano evidentemente il testo del Canone senza le variazioni introdotte da Paolo VI.
Nell’attuale traduzione italiana, la chiarezza del testo latino ha talvolta perso qualcosa: sarebbe forse opportuno correggere, in occasione della traduzione della terza edizione del Messale latino, imprecisioni nella lettera all’apparenza minime ma che rendono in qualche caso differente anche il contenuto.

Un esempio è la parte del Canone in cui si prega per i ministri celebranti. Dice il testo latino: «Nobis quoque peccatoribus famulis tuis, de multitudine miserationum tuarum sperantibus, partem aliquam et societatem donare digneris, cum tuis sanctis Apostolis et Martyribus: cum Ioanne, Stephano, Matthia, Barnaba, Ignatio, Alexandro, Marcellino, Petro, Felicitate, Perpetua, Agatha, Lucia, Agnete, Caecilia, Anastasia, et omnibus Sanctis tuis: intra quorum nos consortium, non aestimator meriti, sed veniae, quaesumus, largitor admitte».
Traduce il Messale italiano: «Anche a noi, tuoi ministri, peccatori, ma fiduciosi nella tua infinita misericordia, concedi, o Signore, di aver parte nella comunità dei tuoi santi apostoli e martiri: Giovanni, Stefano, Mattia, Barnaba, Ignazio, Alessandro, Marcellino e Pietro, Felicita, Perpetua, Agata, Lucia, Agnese, Cecilia, Anastasia e tutti i santi: ammettici a godere della loro sorte beata non per i nostri meriti, ma per la ricchezza del tuo perdono».

Il testo latino presenta due espressioni, “aestimator meriti” e “largitor veniae”, riferite al Signore, dove “aestimator” e “largitor” sono i soggetti, e “meriti” e “veniae” gli oggetti. “Aestimator” è colui che fa la stima, la valutazione puntuale, colui che conta le cose una per una: è il termine che si usa, ad esempio, per il cambiavalute. “Largitor”, al contrario, è colui che distribuisce con abbondanza, senza preoccuparsi di ricevere in cambio. È ben chiaro dal testo che la contrapposizione è tra i due atteggiamenti del Signore; e non tra i due oggetti, il merito e il perdono (la misericordia gratuita). I traduttori italiani invece, forse intendendo il “non” latino riferito a “meriti” e non anche ad “aestimator” (che non viene tradotto), hanno trasformato la frase, creandone una nuova in cui la contrapposizione appare spostata fra i due oggetti (“meriti” e “veniae”).
Si è introdotta in tal modo come una opposizione dialettica tra i meriti dell’uomo e il perdono, la misericordia, del Signore; così che i meriti possono sembrare, allo stesso modo che nell’idea protestante, contrapposti alla grazia. Cosa che non è, essendo i meriti delle opere buone innanzitutto frutto della grazia del Signore (cfr. Catechismo della Chiesa cattolica, n. 2008).

In questo caso, molto più vicina al testo latino è ad esempio la traduzione francese del Messale, che riporta: «accueille-nous dans leur compagnie, sans nous juger sur le mérite, mais en accordant ton pardon». In italiano questa parte potrebbe dunque essere trasposta alla lettera con «senza misurare il merito, ma elargendo con abbondanza il tuo perdono». Una traduzione come questa o simile a questa manterrebbe infatti, conformemente al testo latino, il riferimento dell’antitesi all’atteggiamento del Signore, cui viene chiesto di giudicare non secondo una rigida applicazione della legge, ma secondo la misericordia.

Non dunque, ripetiamo, i meriti considerati in alternativa alla grazia, ma innanzitutto come dono di Dio secondo quanto da bambini abbiamo imparato a ripetere nell’Atto di speranza: «Mio Dio, spero dalla tua bontà, per le tue promesse e per i meriti di Gesù Cristo, nostro Salvatore, la vita eterna e le grazie necessarie per meritarla con le buone opere, che io debbo e voglio fare. Signore, che io non resti confuso in eterno».



fonte: 30GIORNI, o2/03 - 2010

sabato 25 febbraio 2012

CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA E MINISTERO PRESBITERALE (I parte)


tratto da: Rivista Liturgica BIMESTRALE PER LA FORMAZIONE LITURGICA fondata nel 1914dall'abbazia benedettina di Finalpia - terza serie anno XCVII fascicolo 1 gennaio -febbraio 2010

Liturgia e presbiteri: oltre l'anno sacerdotale








di Goffredo Boselli

Se da oltre due decenni il rito della concelebrazione eucaristica è oggetto di dibattito in ambito teologico (1), da alcuni anni anche dal magistero della Chiesa provengono indicazioni circa la necessità di riflettere sull'attuale prassi della concelebrazione. Tra le propositiones formulate dal Sinodo sull'eucaristia del 2005, la propositio 37 dal titolo: Le grandi concelebrazioni, recita:

«I padri sinodali riconoscono l'alto valore delle concelebrazioni, specialmente quelle presiedute dal vescovo con il suo presbiterio, i diaconi e i fedeli. Si chiede, però, agli organismi competenti che studino meglio la prassi della concelebrazione quando il numero dei concelebranti è molto elevato» (2).

La questione è stata successivamente ripresa da papa Benedetto XVI nell'Esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis (22 febbraio 2007). Al n. 61, dal titolo: Le grandi concelebrazioni, si osserva:

«L'Assemblea sinodale si è soffermata a considerare la qualità della partecipazione nelle grandi celebrazioni che avvengono in circostanze particolari, in cui vi sono, oltre a un grande numero di fedeli, anche molti sacerdoti concelebranti. Da una parte, è facile riconoscere il valore di questi momenti, specialmente quando presiede il vescovo attorniato dal suo presbiterio e dai diaconi. Dall’altra, in tali circostanze possono verificarsi problemi quanto all'espressione sensibile dell'unità del presbiterio, specialmente nella preghiera eucaristica, e quanto alla distribuzione della santa comunione. Si deve evitare che tali grandi concelebrazioni creino dispersione. A ciò si provveda con strumenti adeguati di coordinamento e sistemando il luogo di culto in modo da consentire ai presbiteri e ai fedeli la piena e reale partecipazione. Comunque, occorre tener presente che si tratta di concelebrazioni d'indole eccezionale e limitate a situazioni straordinarie» (3).

Riconoscendo «il valore di questi momenti», si osserva al tempo stesso che «in tali circostanze possono verificarsi problemi quanto all'espressione sensibile dell'unità del presbiterio, specialmente nella preghiera eucaristica». Il 10 marzo 2007 la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti ha convocato una sessione di lavoro con alcuni consultori ed esperti per riflettere sulle difficoltà emerse in merito alle grandi celebrazioni. Dal resoconto dei lavori pubblicato sulla rivista della medesima Congregazione «Notitiae», si annota che tra le problematiche emerse vi è stata quella relativa al numero dei concelebranti, per il quale si è fissato un criterio generale per una riflessione in materia, «la limitazione -almeno in alcuni casi - del numero dei concelebranti secondo precisi parametri» (4).
Si osserva inoltre che a riguardo delle grandi celebrazioni «sotto il profilo celebrativo varie sono le perplessità finora sollevate» (5) e la posizione dei concelebranti è uno degli «elementi su cui si è ribadita spesso l'attenzione» (6).
A questo riguardo è detto:

«Si valutino con accortezza la posizione e la dislocazione dei concelebranti, in ottemperanza alla prescrizione, di profondo contenuto teologico, che essi siano vicini all'altare, ciò che viene spesso disatteso, con il rischio che alcuni sacerdoti, relegati a grande distanza dall'altare e sprovvisti di paramenti e libri, si improvvisino come concelebranti in senso pieno» (7).

A livello magisteriale si indicano dunque alcuni aspetti problematici che l'attuale prassi della concelebrazione pone, problematiche che sebbene circoscritte alle grandi concelebrazioni, e in particolare al numero dei concelebranti, sembrano tuttavia richiedere una più ampia riflessione teologica sull'attuale prassi della concelebrazione. A ben guardare, il fenomeno delle grandi concelebrazione è il riflesso su grande scala di una prassi ordinaria ormai ampiamente assunta all’interno della Chiesa cattolica. Sorgono allora spontanei alcuni interrogativi:

- sulla base di quali criteri teologici, ad esempio, limitare il numero dei celebranti in occasione di una grande celebrazione con la presenza di decine di migliaia di presbiteri, se nella prassi quotidiana delle comunità religiose, dei conventi e dei monasteri il concelebrare appare oggi l'unico modo per un presbitero di celebrare una eucaristia che non è chiamato a presiedere?
- che criterio assumere in circostanze straordinarie quando in quelle ordinarie il concelebrare è per i presbiteri un diritto ormai assunto, e quasi un obbligo morale interiore da assolvere?

Occorre giustificare in modo approfondito la ragione per la quale una regola liturgica valida nella prassi ordinaria non è più valida in una prassi liturgica straordinaria. Non è difficile dedurre che l'apparentemente semplice questione della limitazione del numero dei concelebranti è in realtà, già da se sola, una questione teologica che investe la teologia e la prassi della concelebrazione, e di conseguenza il rapporto del presbitero con la celebrazione eucaristica. La questione del numero dei concelebranti è una questione teologica.

Il presente contributo non intende dare una risposta immediata e definitiva agli interrogativi posti dalla prassi delle grandi concelebrazioni e alla relativa questione della limitazione del numero dei concelebranti, quanto piuttosto offrire alcuni dati che possano essere utili per una riflessione sul tema. È infatti compito proprio, sebbene non esclusivo, della teologia liturgica riflettere e apportare il proprio contributo a questioni direttamente poste dal magistero della Chiesa nel campo della liturgia, offrendo così elementi necessari per quel discernimento che compete agli organismi competenti in vista di un'eventuale normativa liturgica ad hoc. Al tempo stesso, il lettore, specie se presbitero, può essere stimolato a riflettere su un rito liturgico che lo coinvolge in prima persona. Affrontare il tema della concelebrazione eucaristica in questo quaderno risponde, dunque, alla volontà di riflettere sul rapporto tra liturgia e presbiteri a partire da un preciso rito liturgico qual è la concelebrazione, rito che rappresenta il crocevia di questioni attinenti all'ecclesiologica, alla teologia eucaristica e alla teologia del ministero ordinato.

L’interrogativo che sta alla base delle difficoltà create dalle concelebrazioni con un grande numero di presbiteri e al quale è necessario dare una risposta sulla base della quale individuare poi un criterio per stabilire un numero massimo di concelebranti è, a mio parere, il seguente:

- i presbiteri sono sempre e in ogni circostanza tenuti a concelebrare quelle eucaristie che non sono chiamati a presiedere? In altre parole: un presbitero può celebrare l'eucaristia senza necessariamente porre gesti ministeriali e pronunciare formule sacramentali, mantenendo tuttavia una propria visibilità ministeriale all'interno dell'assemblea liturgica e per questo non celebrare semplicemente more laicorum?

La questione del numero dei concelebranti è in realtà strettamente legata all'alternativa tra il presiedere l'eucaristia o il concelebrarla di fronte alla quale oggi i presbiteri sono posti. Da qui la domanda:

- vi è per i presbiteri una reale via di uscita all'alternativa tra presiedere l’eucaristia o concelebrarla?

Per rispondere a questi interrogativi articolerò il presente contributo in due parti. Nella prima parte presenterò una sintesi della questione del numero dei concelebranti nei testi della riforma liturgica, individuando in essi già una precisa indicazione. Nella seconda parte cercherò di mostrare come la grande tradizione della Chiesa, dal III al XX secolo, fornisca una possibile risposta al nostro interrogativo di fondo, se vi è un altro modo possibile per i presbiteri di celebrare l'eucaristia che non sono chiamati a presiedere. Nella conclusione indicherò come da questa lezione della storia la teologia possa trarre argomenti per proseguire e approfondire la sua riflessione critica sulla prassi della concelebrazione eucaristica nella Chiesa cattolica dopo il Vaticano II.


1. LA QUESTIONE DEL NUMERO DEI CONCELEBRANTI NEI TESTI DELLA RIFORMA LITURGICA CONCILIARE

La riforma liturgica conciliare ha fissato un numero massimo di concelebranti? A livello di normativa liturgica, il testo fondamentale circa il rito della concelebrazione eucaristica è il Ritus servandus in concelebratione Missae del 7 marzo 1965. Al n. 4 dei Prenotanda, dal titolo: De numero concelebrantium, si legge:

«Nei singoli casi, il numero dei concelebranti sarà stabilito tenendo conto della chiesa e dell'altare dove si svolge la concelebrazione, in modo tale che i concelebranti possano stare intorno all'altare, anche se non tutti toccano materialmente la mensa dell'altare» (8).

Il Ritus servandus non stabilisce, dunque, un numero massimo di concelebranti, ma indica un criterio: la vicinanza dei concelebranti all'altare, che essi possano stare attorno all'altare (circum altare stare possint) pur non toccando materialmente la mensa.

Da un confronto delle successive versioni del Ritus servandus si costata che il paragrafo relativo al numero dei concelebranti è stato progressivamente modificato. Nello schema che precede la redazione finale del Ritus servandus - lo schema n. 53, De concelebratione Missae, del 20 dicembre 1964 - al n. 4 (De numero concelebrantium), al termine del paragrafo sopra riportato relativo alla prossimità dei concelebranti all'altare, è riportata una norma che non compare nella redazione finale:

«I concelebranti, tuttavia, non saranno più di cinquanta. In casi particolari, la questione sarà sottoposta alla Sede Apostolica (Concelebrantes tamen plus quam quinquaginta. In casibus peculiaribus, res Apostolicae Sedi proponatur)».

In un primo tempo, dunque, il Consilium aveva fissato a 50 il numero massimo di concelebranti, riservando alla Sede Apostolica, e neppure all'ordinario del luogo, la valutazione di casi specifici. A. Bugnini, nel suo libro: La riforma liturgica, sul tema del numero dei concelebranti scrive:

«Sul numero dei concelebranti c'è stata una grande evoluzione. All'inizio il papa ne aveva dato come indicazione tra i 20 e i 25. Mancando l'esperienza, si temeva che un numero maggiore non consentisse uno svolgimento ordinato e dignitoso della celebrazione. Fuori Roma si insisteva perché il numero non fosse limitato. Il numero 50 teneva conto delle due esigenze. La soluzione definitiva lascia aperto il problema, limitandosi a stabilire che il numero venga fissato "nei singoli casi"...» (9).

Bugnini riporta di seguito il n. 4 del Ritus servandus e in nota aggiunge:

«È stata la soluzione che ha permesso di concelebrare a centinaia di sacerdoti e di vescovi, in occasione di congressi, sinodi e conferenze. Poco per volta il problema scomparve, tanto che non se ne parla più nelle norme definitive, entrate nel Messale» (10).

Se, in effetti, nell'Ordinamento generale del Messale Romano non viene fatto cenno al numero dei concelebranti, vi si trovano tuttavia delle precise indicazioni che possono apportare dei chiarimenti alla questione. Al n. 207 si legge:

«In presbiterio si preparino le sedi e i sussidi per i sacerdoti concelebranti»(11).

Se la norma prevede che le sedi dei concelebranti debbano essere in presbiterio, sono dunque le dimensioni del presbiterio stesso a stabilire il numero massimo di concelebranti: quanti il presbiterio ne può contenere. Al n. 215, si legge inoltre:

«Dopo che il celebrante principale ha recitato le orazioni sulle offerte, i concelebranti si avvicinano all'altare disponendosi attorno ad esso, in modo pero da non intralciare lo svolgimento dei riti, da permettere ai fedeli di vedere bene l'azione sacra e al diacono di avvicinarsi facilmente all'altare per svolgere il suo ministero» (12).

Secondo l'Ordinamento generale va da sé che i concelebranti avvicinandosi all'altare possano disporsi intorno ad esso (ad altare accedunt et circa illud consistunt) secondo il criterio e la norma stabilita dal Ritus servandus sopra riportato.
L'evoluzione appare dunque chiara: si è passati dalla volontà di papa Paolo VI di limitare il numero dei concelebranti a 20 o 25, ai 50 della prima redazione del Ritus servandus, per poi giungere alla redazione finale dello stesso Ritus servandus, il quale non fissa un numero massimo ma indica il criterio di fondo: la prossimità dei concelebranti all'altare, «i concelebranti possano stare intorno all'altare (concelebrantes circum altare stare possint)» (13), criterio che è stato in seguito ripreso dall'Ordinamento generale del Messale Romano.

Questi sono i dati della normativa liturgica oggi in vigore, e attestano che sebbene non sia stato stabilito un numero massimo di concelebranti si è tuttavia indicato un criterio chiaro e preciso: che i concelebranti possano stare attorno all'altare.
Occorre ora proseguire la riflessione domandandosi la ragione per la quale la riforma liturgica ha deciso di non fissare un numero massimo di concelebranti, eliminando la norma che aveva inizialmente stabilito nelle prime redazioni del Ritus servandus. Come già annotato, A. Bugnini osserva che «fuori Roma si insisteva perché il numero non fosse limitato» (14), aggiungendo che la soluzione finale «ha permesso di concelebrare a centinaia di sacerdoti e di vescovi, in occasione di congressi, sinodi e conferenze» (15). Sembra esserci dunque stata una certa pressione per non limitare il numero dei concelebranti, una limitazione che non avrebbe in effetti permesso le grandi concelebrazioni specie «in occasione di congressi, sinodi e conferenze».

Se si fosse fissato un numero massimo di concelebranti (sia esso 20 o 25 secondo l'indicazione di Paolo VI, oppure 50 come indicato nella penultima redazione del Ritus servandus) non sarebbe stato raggiunto uno dei principali scopi della riforma e dell'estensione del rito della concelebrazione voluta dal Concilio e attuata dalla riforma liturgica. In effetti, una delle principali ragioni della riforma del nostro rito fu quella di risolvere l'impasse creato dalla pratica delle cosiddette «messe private», rispetto alla visione comunitaria dell'eucaristia indicata dal movimento liturgico, prima, e fatta propria dal Concilio, in seguito. Durante i lavori del Concilio e successivamente della riforma liturgica, la riflessione circa il rito della concelebrazione fu condizionata dalla volontà di garantire ai presbiteri la possibilità di celebrare quotidianamente l'eucaristia senza dover celebrare privatim, soprattutto in circostanze particolari come i ritiri spirituali per
presbiteri, i congressi, i santuari, ma anche le comunità sacerdotali stabili come i monasteri, i conventi, le case religiose e i seminari. Circostanze e situazioni nelle quali, fino a quel momento, si assisteva a un susseguirsi di «messe private».

Durante i lavori del Concilio e della riforma liturgica, gli esperti erano pienamente coscienti dell'utilizzo funzionale della concelebrazione eucaristica. Essi sapevano di utilizzare la concelebrazione anche per raggiungere uno scopo che questo antico rito, per sua stessa natura, non ha mai avuto. Ha osservato a questo riguardo A. Franquesa, il quale lavorò in prima persona alla riforma del rito in qualità di segretario del Coetus concelebrationis:

«Una concelebrazione quotidiana dove i presbiteri concelebrano senza il vescovo, concelebrazione che potremmo definire "privata", in sostituzione delle "messe private", non trova affatto conferma nella tradizione» (16).

Detto questo, è tuttavia necessario riconoscere che l'utilizzo funzionale della concelebrazione era all'epoca l'unico modo per risolvere l'impasse teologico e pastorale creato dalla prassi delle «messe private», e per assicurare ai presbiteri la celebrazione quotidiana di una eucaristia che non erano chiamati a presiedere, sia in circostanze ordinarie (monasteri e conventi) sia straordinarie (ritiri o congressi) nelle quali decine o centinaia di presbiteri si trovavano insieme. Limitare il numero dei concelebranti avrebbe costretto a perpetuare la pratica delle «messe private» specie nei conventi e nei monasteri, e di conseguenza non si sarebbe raggiunto uno dei principali scopi per il quale la concelebrazione venne riformata ed estesa.

La ragione per la quale la normativa liturgica non ha stabilito un numero massimo di concelebranti, ma ha semplicemente indicato il criterio di prossimità all'altare, ha fatto sì che nella prassi attuale si accordi generalmente poca attenzione al numero dei concelebranti, alla loro posizione e alla loro materiale vicinanza all'altare.
Un esempio, certamente estremo ma sintomatico dell'attuale sensibilità, è stato offerto dall'eucaristia presieduta da papa Benedetto XVI in occasione della Giornata mondiale della gioventù tenuta a Colonia nell'agosto 2005. Secondo le cifre gentilmente comunicatemi dall'allora maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, mons. P. Marini, quasi 15 mila presbiteri concelebrarono quell'eucaristia. La loro distanza dall’altare papale era di circa 150 metri. Inoltre, essendo situati ai piedi della collina sulla quale era collocato l’altare papale, ai presbiteri concelebranti era impedita la visione dell'altare, similmente dall'altare non era possibile vedere i concelebranti.

Questo è indubbiamente un caso straordinario ed estremo, ma al tempo stesso rappresenta un caso sintomatico dell'attuale rapporto tra presbiteri e concelebrazione eucaristica. Da situazioni eccezionali come questa e quelle invece più ordinarie e quotidiane, si deduce che concelebrare è diventato un diritto di ogni presbitero, una sorta di obbligo morale legato al ministero presbiterale. Come già si osservava, dalla prassi liturgica attuale si deduce che per un presbitero non esista una via di uscita all'alternativa tra il presiedere l'eucaristia o il concelebrarla: tertium non datur.

I presbiteri che più di altri sono posti d'innanzi all'alternativa tra presiedere L'eucaristia o concelebrarla sono quelli appartenenti alle comunità religiose e ai monasteri dove nella stragrande maggioranza dei casi oggi la concelebrazione è un rito quotidiano, così che ogni celebrazione eucaristica è una concelebrazione eucaristica. Per il dibattito teologico in corso, la frequenza quotidiana della concelebrazione è un dato che, più di ogni altro, richiede un'attenta analisi e un'approfondita riflessione. Rilevare la frequenza quotidiana della concelebrazione nelle comunità religiose, significa in primo luogo osservare che dall'estensione della concelebrazione voluta dalla riforma liturgica del Vaticano II a oggi, la stragrande maggioranza delle comunità religiose e monastiche non conoscono altre forme di celebrazione eucaristica al di fuori della concelebrazione. Questo rappresenta un novum che la storia della liturgia non ha mai conosciuto né in Oriente né in Occidente.

Ma la questione più stringente è quale immagine del mistero della Chiesa danno quelle quotidiane celebrazioni eucaristiche nelle quali il numero dei concelebranti supera di gran lunga quello dei fedeli presenti. Se non i casi purtroppo non rari nei quali l'assemblea eucaristica è composta solo ed esclusivamente dai presbiteri concelebranti e da nessun fedele laico. Queste assemblee non sembrano rispettare la táxis tês ekklesías, ovvero l'ordine dell'assemblea liturgica cristiana che le fonti canonico-liturgiche antiche richiamano con particolare l'assemblea liturgica è la più alta manifestazione del mistero della Chiesa.

A questo riguardo, nell'Istruzione per l'applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei canoni delle Chiese orientali, emanata nel 1996 dalla Congregazione per le Chiese orientali, si trova un secondo e decisivo criterio circa il numero dei concelebranti, da porre accanto al criterio della prossimità all'altare indicato dal Ritus servandus e dall'Ordinamento generale del Messale Romano sopra evocati. Al n. 57 dell'Istruzione titolato: La concelebrazione, dopo aver raccomandato, sulla scia di Sacrosanctum concilium n. 57, la concelebrazione insieme al vescovo oppure un altro sacerdote, quale manifestazione dell'unità del sacerdozio e del sacrificio e dell’unità di tutta la Chiesa, si precisa tuttavia che vi possono essere situazioni nelle quali concelebrare è sconsigliato:

«Vi possono essere ragioni che sconsigliano però la concelebrazione, in particolare quando il numero dei concelebranti sia sproporzionato rispetto a quello dei laici presenti. La concelebrazione liturgica, in quanto "icona" della Chiesa, deve rispecchiare la natura di comunità gerarchicamente articolata, comprendente non solo i ministri sacri ma tutto il gregge di coloro che, sotto la loro guida, vivono in Cristo. Si abbia cura che i concelebranti non siano in quantità tale da prendere posto nella navata dove stanno i fedeli, e quindi al di fuori del santuario in modo tale da impedire lo svolgimento dignitoso del rito» (17).


(continua)



1) Cf. G. BOSELLl, Les débat sur La concélébration après Vatican II, in "La Maison-Dieu” 224 (4/2004) 29-59.
2) SINODO DEI VESCOVI. XI ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA, Eucaristia vita e missione della Chiesa. Elenco finale delle proposizioni, in «Il Regno-documenti» 978 (19/2005) 546-554, p. 552.
3) BENEDETIO XVI, Sacramentum caritatis, LEV, Città del Vaticano 2007, pp. 95-96.
4) F. ARINZE -A.M. RANJITH, Le grandi celebrazioni: una riflessione in corso, in «Nocitiae» 493-494 (2007) 535-542, p. 539.
5) Ibid., p. 540.
6) Ivi.
7) Ibid., p. 541.
8) «Numerus concelebrantium, singulis in casibus, definiatur ratione habita tam ecclesiae quam altaris in quo fit concelebratio, ita ut concelebrantes circum altare stare possint, etsi omnes mensam altaris immediate non tangunt», Ritus servandus in concelebratione Missae et Ritus Communionis sub utraque specie, LEV, Città del Vaticano 1965, p. 14 (nostra trad.).
9) A. BUGNINI, La riforma liturgica (1948-1975), CLV-Ed. Liturgiche, Roma 1997, p. 137.
10) Ibid., nota 8.
11) Ordinamento generale del Messale Romano, LEV, Città del Vaticano 2004, n. 207, p. 62.
12) Ibid., n. 215, p. 63.
13) Ritus servandus, cit., n. 4.
14) BUGNINI, La riforma liturgica, cit., p. 137.
15) Ibid., nota 8.
16) A. FRANQUESA, La concelebration a los 16 aῆos de su restauración, in P. JOUNEL - R. KACZYNSKI - G. PASQUALETTI (edd.), Liturgia opera divina e umana.
Studi sulla riforma liturgica offerti ad A. Bugnini, CLV-Ed. Liturgiche, Roma 1982, pp. 291-306, p. 298.

Il nuovo altare rivolto al popolo nelle chiese antiche: ambiguità, contraddizioni e forzature nella prassi e nella normativa.









di don Alfredo M. Morselli


Recentemente il Card. Kurt Koch[i], nel corso di una conferenza svolta presso la facoltà teologica dell’università di Friburgo[ii], ha ribadito che “Non si dia per scontato che l’attuale odierna prassi liturgica si fondi sui testi conciliari: così, per esempio, nessun accenno da cui si deduca che il prete, nell’Eucarestia, debba rivolgersi verso i partecipanti alla celebrazione”[iii].
Il Card. Joseph Ratzinger aveva scritto, in proposito, nel 2003:

Per coloro che abitualmente frequentano la chiesa i due effetti più evidenti della riforma liturgica del Concilio Vaticano Secondo sembrano essere la scomparsa del latino e l'altare orientato verso il popolo. Chi ha letto i testi al riguardo si renderà conto con stupore che, in realtà, i decreti del Concilio non prevedono nulla di tutto questo.
Non vi è nulla nel testo conciliare sull'orientamento dell'altare verso il popolo; quel punto è stato sollevato solo nelle istruzioni postconciliari. La direttiva più importante si ritrova al paragrafo 262 della Institutio Generalis Missalis Romani, l'Introduzione Generale al nuovo Messale Romano pubblicata nel 1969, e afferma: «L'altare maggiore sia costruito staccato dalla parete, per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo (versus populum)».
Le Istruzioni Generali per il Messale, pubblicate nel 2002, mantenevano senza modifiche questa formulazione, tranne per l'aggiunta della clausola subordinata «la qual cosa è desiderabile ovunque sia possibile». In molti ambienti questo venne interpretato come un irrigidimento del testo del 1969, a indicare come fosse un obbligo generale erigere altari di fronte al popolo “ovunque sia possibile”. Tale interpretazione venne tuttavia respinta il 25 settembre 2000 dalla Congregazione per il Culto Divino, che dichiarò come la parola "expedit” (“è desiderabile”) non comportasse un obbligo, ma fosse un semplice suggerimento. La Congregazione afferma che si deve distinguere l'orientamento fisico dall'orientamento spirituale. Anche se un sacerdote celebra versus populum, deve sempre essere orientato versus Deum per Iesum Christum (verso Dio attraverso Gesù Cristo). Riti, simboli e parole non possono mai esaurire l'intima realtà del mistero della salvezza, ed è per questo motivo che la ammonisce contro le posizioni unilaterali e rigide in questo dibattito.
Si tratta di un chiarimento importante. Mette in luce quanto vi è di relativo nelle forme simboliche esterne della liturgia, e resiste al fanatismo che, purtroppo, non è stato estraneo alle controversie degli ultimi quarant'anni[iv].

L’idea generalizzata secondo la quale c’è «un obbligo generale erigere altari di fronte al popolo “ovunque sia possibile”» ha fatto si che in quasi tutte le antiche chiese e cattedrali venisse costruito un nuovo altare maggiore senza rimuovere l’antico.
Ci chiediamo se ciò in realtà è coerente con la nuova normativa post-conciliare, o non sia piuttosto una forzatura, dovuta alle errate convinzioni che un nuovo altare rivolto al popolo sia obbligatorio e che questo non sia altro che l’indicazione del Vaticano II.


I – La prassi in contrasto con la normativa.


Vediamo cosa prescrive esattamente la normativa vigente:

Nelle chiese già costruite, quando il vecchio altare è collocato in modo da rendere difficile la partecipazione del popolo e non può essere rimosso senza danneggiare il valore artistico, si costruisca un altro altare fisso, realizzato con arte e debitamente dedicato. Soltanto sopra questo altare si compiano le sacre celebrazioni. Il vecchio altare non venga ornato con particolare cura per non sottrarre l'attenzione dei fedeli dal nuovo altare[v].

La prassi abituale è in contrasto con la normativa perché questa prevede la possibilità di un secondo altare fisso soltanto in un caso particolare, ben definito (quando la partecipazione del popolo è resa difficile), mentre in pratica un nuovo altare è stato collocato in quasi tutte le chiese antiche.
La gravità di questa generalizzazione sta tutta nel suo presupposto implicito: con la celebrazione verso l’abside la partecipazione attiva sarebbe sempre resa difficile.
E qui notiamo un duplice errore: in primo luogo si dimentica che partecipazione attiva nella liturgia è la partecipazione al Sacrificio di Cristo.
Scriveva il Card. Joseph Ratzinger nel 1999:

Il concilio Vaticano II ci ha proposto come pensiero guida della celebrazione liturgica l'espressione participatio actuosa, partecipazione attiva di tutti all’Opus Dei, al culto divino. […] In che cosa consiste, però, questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più spesso possibile. La parola «partecipazione» rinvia, però, a un'azione principale, a cui tutti devono avere parte. Se, dunque, si vuole scoprire di quale agire si tratta, si deve prima di tutto accertare quale sia questa «actio» centrale, a cui devono avere parte tutti i membri della comunità[vi].

E qual è l’azione della liturgia ?

La vera azione della liturgia, a cui noi tutti dobbiamo avere parte, è azione di Dio stesso[vii].

Il Card. Joseph Ratzinger non ha certo detto, nelle sue pur profonde considerazioni, delle novità assolute. Questi stessi concetti erano già stati espressi da Pio XII, nel discorso Vous Nous avez demandé:

La liturgia della Messa ha come scopo di esprimere sensibilmente la grandezza del mistero che vi si compie, e gli sforzi attuali tendono a farvi partecipare i fedeli nel modo più attivo ed intelligente possibile. Benché questo intento sia giustificato, v'è pericolo di provocare una diminuzione della riverenza, se vien distolta l'attenzione dall'azione principale, per rivolgerla alla magnificenza di altre cerimonie.
Qual è quest'azione principale del sacrificio eucaristico? Noi ne abbiamo parlato espressamente nell'Allocuzione del 2 novembre 1954. Noi riferivamo in primo luogo l'insegnamento del Concilio di Trento: «In divino hoc sacrificio, quod in Missa peragitur, idem ille Christus continetur et incruente immolatur, qui in ara crucis semel se ipsum cruente obtulit... Una enim eademque est hostia, idem nunc offerens sacerdotum ministerio, qui se ipsum tunc in cruce obtulit, sola offerendi ratione diversa (Conc. Trid., Sess. XXII, cap. 2)» [viii].

Commentiamo ora questo brano:
Giusti tutti gli sforzi che tendono a fare partecipare i fedeli nel modo più attivo ed intelligente... Ma… attenzione! – dice il Papa – , non si perda ciò che è principale, cioè la partecipazione all’Azione di Cristo!
Da un lato rimpiangiamo un po’ i pericoli di 50 anni fa: essere distolti dal cuore dell’azione liturgica dalla magnificenza delle cerimonie; oggi i pericoli sono i tanti ben peggiori abusi, accomunati da un comune denominatore: l’azione dell’assemblea viene a prevalere sull’azione di Cristo, sulla sua Immolazione Sacramentale, sul suo offrirsi: è a questa offerta che dobbiamo più che attivamente partecipare.
L’azione esterna, il fare, l’agire, non sono un valore assoluto, ma lo sono in tanto quanto ci permettono di unirci al Santo Sacrificio, tanto quanto ci permettono di essere quella gocciolina di acqua che il Sacerdote mette nel vino: questo gesto esprime come tutta la nostra vita viene sussunta nello stesso Sacrifico di Cristo, quel Sacrificio che realmente si riattualizza sull’Altare.

Se dunque la partecipazione liturgica è soprattutto l’unione al Sacrifico di Cristo, come è possibile che l’altare rivolto all’abside la renda difficoltosa? E come è possibile che per tanti secoli la Chiesa abbia creato difficoltà ai suoi figli in ciò che ha di più sacro? Eppure questo è il presupposto oggettivo della prassi generalizzata.

Vediamo ora il II errore: concediamo all’espressione partecipazione un significato meno tecnico, volendo indicare con essa semplicemente l’attenzione esteriore al rito, la partecipazione ai canti, il coinvolgimento nella gestualità: anche in questo caso, presupporre che, con l’altare rivolto verso l’abside, venga universalmente resa difficile la partecipazione del popolo (condizione necessaria – ricordiamo – per poter collocare un secondo altare fisso) è sempre una forzatura.
Scriveva a questo riguardo il Card. Giacomo Lercaro, in un documento ufficiale del Consilium ad exequendam Consitutionem de Sacra Liturgia:

In primo luogo, per una liturgia viva e partecipata non è necessario che l’altare sia rivolto al popolo. Tutta la liturgia della parola, nella messa, si celebra alle sedi o all’ambone, e dunque di fronte al popolo; per la liturgia eucaristica, le installazioni di microfoni, ormai comuni, aiutano sufficientemente alla partecipazione.
Inoltre bisogna tener conto della situazione architettonica e artistica la quale, in molti casi, è del resto protetta da severe leggi civili[ix].


II – Altre forzature e incongruenze

Un secondo altare a tutti i costi rivolto al popolo, assunto nella prassi come principio della liturgia riformata, mal si concilia con altri aspetti del rinnovamento liturgico e con altre norme. Almeno in due casi troviamo di fronte a delle vere e proprie acrobazie giuridiche.

1° principio disatteso: l’altare deve essere unico

Le norme in questo senso parlano chiaro; ecco un paio di esempi:

L'unico altare, presso il quale si riunisce come in un sol corpo l'assemblea dei fedeli, è segno dell'unico nostro Salvatore Gesù Cristo e dell'unica Eucarestia della Chiesa[x].

Nelle nuove chiese si costruisca un solo altare che significhi alla comunità dei fedeli l'unico Cristo e l'unica Eucaristia della Chiesa[xi].

Il noto liturgista, P. Matias Augé, per ribadire quanto – secondo lui – siano inopportuni gli altari laterali in una chiesa, evoca tutto il pathos di Sant’Ignazio d’Antiochia:

Accorrete tutti come all’unico tempio di Dio, intorno all’unico altare che è l’unico Gesù Cristo che procedendo dall’unico Padre è ritornato a lui unito” (Ai Magnesii VII,1)[xii].

Ma se l’unicità dell’altare impedisce che si possa celebrare rivolti al popolo, allora ecco che un secondo altare diventa lecito. Che fare in questi casi: toglier le tovaglie e non adornare l’altare maggiore precedente. Una sorta di sbattezzo dell’altare.

Nel caso in cui l'altare preesistente venisse conservato, si eviti di coprire la sua mensa con la tovaglia e lo si adorni molto sobriamente, in modo da lasciare nella dovuta evidenza la mensa dell'unico altare per la celebrazione[xiii]

Ma, chiediamoci, è forse la tovaglia che rende un altare tale? Capolavori d’arte, adornati per secoli con tanta cura, con ricami, con fiori, con ceri, con tovaglie, ora lasciati nudi come non sono mai stati pensati da chi li ha fatti… e tutto perché l’altare deve essere unico, anche quando sono due.


2° principio disatteso: l’altare deve essere fisso

Conviene che in ogni chiesa ci sia l'altare fisso, che significa più chiaramente e permanentemente Gesù Cristo, pietra viva (Cf. 1Pt 2,4; Ef 2,20); negli altri luoghi, destinati alle celebrazioni sacre, l'altare può essere mobile.
L'altare si dice fisso se è costruito in modo da aderire al pavimento e non poter quindi venir rimosso; si dice invece mobile se lo si può trasportare[xiv].

Quando però non si può celebrare rivolti al popolo, allora anche questo principio è derogato: si faccia l’altare mobile, che però deve essere definitivo.

L’altare fisso della celebrazione sia unico e rivolto al popolo. Nel caso di difficili soluzioni artistiche per l’adattamento di particolari chiese e presbitèri, si studi, sempre d’intesa con le competenti Commissioni diocesane, l’opportunità di un altare «mobile» appositamente progettato e definitivo[xv].

Qualora non sia possibile erigere un nuovo altare fisso, si studi comunque la realizzazione di un altare definitivo, anche se non fisso (cioè amovibile)[xvi].

Cosa vuol dire altare definitivo e mobile: che sia trasportabile ma che si sempre quello? Oppure che non sia murato definitivamente? Oppure che sia trasportabile, ma lasciato sempre al suo posto?
Questa indicazione sa tanto di escamotage, per collocare in ogni caso un altare rivolto al popolo, anche quando c’è già un altare maggiore e quando la Sovrintendenza ai beni artistici non permette la costruzione di un nuovo altare fisso.


III – Last but not least…

Con la promulgazione della lettera motu proprio data «Summorum Pontificum» (2007) e della istruzione «Universae Ecclesiae» (2011), avendo le S. Messe celebrate nella forma ordinaria ed extra-ordinaria pari dignità, non si può pensare di progettare o di riadattare gli edifici sacri come se l’antico rito non esistesse più.
Ogni chiesa deve prevedere la possibilità che in essa si possa celebrare – decorosamente e rispettando esattamente le rubriche – anche secondo l’antica forma del rito romano. Cosa che potrebbe non essere possibile se il presbiterio fosse ingombrato dal nuovo altare, o se sullo stesso altare non si potesse celebrare versus absidem, o se a quello mancassero i requisiti prescritti, quali gradini, candelieri, crocifisso, predella, opportune tovaglie etc.


Conclusioni.

In base a quanto detto, l’idea dell’altare a tutti i costi rivolto al popolo, ritenuta generalmente – a torto – un principio conciliare per eccellenza, ha fatto sì che molte antiche chiese venissero adeguate indebitamente con un secondo altare fisso. Stando alla lettera della normativa, si tratta di un abuso: abuso pericoloso perché fa intendere che il modo di celebrare per tanti secoli abbia reso difficile la partecipazione del popolo alla liturgia.

Se il Concilio non ha mai parlato di celebrazione verso il popolo, l’idea che l’altare a tutti i costi debba essere ad esso rivolto, e il conseguente riadattamento forzoso degli antichi edifici di culto, non sarà forse uno dei tristi effetti di ciò che Mons. Guido Pozzo, segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, ha chiamato ideologia para-conciliare?

se il Santo Padre parla di due interpretazioni o chiavi di lettura divergenti, una della discontinuità o rottura con la Tradizione cattolica, e una del rinnovamento nella continuità, ciò significa che la questione cruciale o il punto veramente determinante all’origine del travaglio, del disorientamento e della confusione che hanno caratterizzato e ancora caratterizzano in parte i nostri tempi non è il Concilio Vaticano II come tale, non è l’insegnamento oggettivo contenuto nei suoi Documenti, ma è l’interpretazione di tale insegnamento. […]

Sta ciò che possiamo chiamare l’ideologia conciliare, o più esattamente para-conciliare, che si è impadronita del Concilio fin dal principio, sovrapponendosi a esso. Con questa espressione, non si intende qualcosa che riguarda i testi del Concilio, né tanto meno l’intenzione dei soggetti, ma il quadro di interpretazione globale in cui il Concilio fu collocato e che agì come una specie di condizionamento interiore nella lettura successiva dei fatti e dei documenti. Il Concilio non è affatto l’ideologia paraconciliare, ma nella storia della vicenda ecclesiale e dei mezzi di comunicazione di massa ha operato in larga parte la mistificazione del Concilio, cioè appunto l’ideologia paraconciliare[xvii].

Alla chiesa docente la risposta; a chi scrive, membro della chiesa discente, la possibilità di porre rispettosamente la domanda.



_____________________
[i] Attualmente presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani e della Commissione per le Relazioni Religiose con gli Ebrei.
[ii] http://www.oecumene.radiovaticana.org/ted/Articolo.asp?c=558608, visitato l’8 febbraio 2012.
[iii] “Allerdings lasse sich nicht alles, was heute liturgische Praxis sei, durch Konzilstexte begründen. So sei beispielsweise nirgends die Rede davon, dass der Priester die Eucharistie den Gottesdienstteilnehmern zugewandt leite”.
[iv] J. Ratzinger, prefazione a U. M. Lang, Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica, Siena: Cantagalli, 2006, p. 7.
[v] Ordinamento Generale del Messale Romano, 2010, § 303.
[vi] Joseph Ratzinger, Introduzione alla Spirito della Liturgia, Cinisello Balsamo: San Paolo, 2001, p.167.
[vii] Ibidem, p. 169.
[viii] Discorso ai partecipanti al 1° Congresso internazionale di Liturgia Pastorale”, del 22 settembre 1956: la traduzione è presa da: Insegnamenti Pontifici, vol VIII, Roma: Pia Società San Paolo, 1959/2, pp. 354-374, passim.
[ix] Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, Lettre circulaire aux Présidents des Conférences Episcopales L’heureux dévelopment pour indiquer quelques problèmes qui ont été soulevés, 25 janvier 1966 : Notitiae 2 (1966), 157-161; EV 2, 610.
[x] Dedicazione della chiesa e dell’altare, Premesse, § 158.
[xi] Ordinamento Generale del Messale Romano, 2010, § 303.
[xii] http://liturgia-opus-trinitatis.over-blog.it/article-gli-altari-laterali-69559200.html
[xiii] Nota pastorale della Commissione Episcopale per la Liturgia - CEI L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica, § 17. Molto più decoroso quanto prescrive l’ordinamento generale al § 303: “Il vecchio altare non venga ornato con particolare cura per non sottrarre l'attenzione dei fedeli dal nuovo altare”
[xiv] Ordinamento Generale del Messale Romano, 2010, § 298.
[xv] Principi e norme per l'uso del Messale Romano Precisazioni della Conferenza Episcopale Italiana, § 14.
[xvi] L’adeguamento delle chiese… § 17.
[xvii] Aspetti della ecclesiologia cattolica nella recezione del Concilio Vaticano II, conferenza di Mons. Guido Pozzo, Segretario della Pontificia Commissione "Ecclesia Dei", fatta ai sacerdoti europei della Fraternità San Pietro il 2 luglio 2010 a Wigratzbad; cf. http://www.fssp.org/it/pozzo2010.htm, visitato l’8 febbraio 2012.


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