Riproponiamo il brano conclusivo dell’articolo che Alfredo Mantovano, attuale Sottosegretario alla Presidenza dal Consiglio e allora Vicepresidente del Centro Studi Livatino, aveva scritto nel 2017 per il IX Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân dal titolo “Europa: la fine delle illusioni”. Il titolo del brano che pubblichiamo è uguale a quello originale dell’articolo. Rilanciamo le autorevoli riflessioni di Alfredo Mantovano dato l’attuale dibattito sul Manifesto di Ventotene, opportunamente suscitato dal Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. L’Osservatorio era già intervenuto ieri con un articolo di Fabio Trevisan.
IL FUTURO DELL’EUROPA. TRA MANIFESTO DI VENTOTENE E DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA
Di Alfredo Mantovano, 21 Mar 2025
Su questi, come sui temi collegati, chi all’interno della Chiesa ha la vocazione del laico si trova a metà strada fra i principi della Dottrina sociale cristiana, da studiare nella consapevolezza che tuttavia non forniscono le soluzioni di dettaglio, e la realtà che sollecita a declinare quei principi in concreto e con responsabilità. Il Magistero sociale è ricchissimo di riflessioni sull’Europa; sarebbe utile riportarne una antologia, se pure essenziale, ma andrebbe molto oltre i limiti di questo intervento.
Sarebbe utile soprattutto per fare chiarezza sui presupposti di principio e strutturali dell’Unione Europea; capita invero con una certa frequenza – è accaduto pure nel marzo 2017, in occasione del 60° anniversario dei Trattati -, di prestare ossequio genericamente a presunti Padri fondatori dell’Europa di oggi, senza aver cura di distinguere chi ha realmente proposto e curato la redazione e l’approvazione dei Trattati del 1957 e chi ne viene identificato come uno degli ispiratori, o addirittura, in linea con precise impostazioni ideologiche, l’ispiratore.
E’ trascorso poco più di un anno – era il 22 agosto 2016 – da quando, poche settimane dopo il voto della Brexit, al fine di mostrare un intento comune nel fronteggiare i fattori di crisi in Europa, in primis i viaggi dei migranti nel Mediterraneo, Angela Merkel, Francois Hollande e Matteo Renzi si sono recati insieme all’isola di Ventotene, al largo di Napoli, e hanno reso omaggio alla tomba di Altiero Spinelli, autore con Ernesto Rossi e con Eugenio Colorni del Manifesto di Ventotene. I tre intellettuali e uomini politici, confinati nell’isola per la loro opposizione al fascismo, avevano redatto nel 1941 il documento che nell’occasione dell’incontro fra i tre capi di governo è stato confermato come simbolo dell’Europa unita. Nella visita dell’agosto 2016, richiamato il Manifesto da Renzi, Spinelli è stato indicato da Hollande come uomo grazie al quale «è nata questa idea, la capacità di garantire la pace tra i popoli»; da Capo dello Stato, il presidente emerito Giorgio Napolitano si era recato nell’isola e aveva più volte indicato il Manifesto come fondamento di una Unione sempre più stretta.
Non dubito che Napolitano, Hollande e Renzi ben conoscano il contenuto del Manifesto. Sarebbe piuttosto interessante verificare quanto taluni passaggi di esso siano realmente noti ai più, per constatare come i problemi strutturali dell’Europa di oggi costituiscano eco di quel documento, e come l’auspicio di frequente formulato da sponde autorevoli di tornare allo “spirito” di esso ne allontana soluzione. Posto che «un’Europa libera e unita è premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna, di cui l’era totalitaria (al momento della sua redazione ancora in corso) rappresenta un arresto», Spinelli, Rossi e Colorni, guardando in prospettiva, affermano nel modo più chiaro che:
«la rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista»;
«la proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio» (in ciò distinguendosi dalla “statalizzazione generale dell’economia” propria del regime comunista sovietico);
«nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente. La pietosa impotenza dei democratici nelle rivoluzioni russa, tedesca, spagnola, sono tre dei più recenti esempi»;
«il popolo ha sì alcuni bisogni fondamentali da soddisfare, ma non sa con precisione cosa volere e cosa fare. Mille campane suonano alle sue orecchie, con i suoi milioni di teste non riesce a raccapezzarsi, e si disgrega in una quantità di tendenze in lotta fra loro»;
«nel momento in cui occorre la massima decisione e audacia, i democratici si sentono smarriti non avendo dietro uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultare di passioni. (…) La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria»;
«il partito rivoluzionario non può essere dilettantisticamente improvvisato (…). (…) dalla schiera sempre crescente dei suoi simpatizzanti deve attingere e reclutare nell’organizzazione del partito solo coloro che abbiano fatto della rivoluzione europea lo scopo principale della loro vita (…)»;
«durante la crisi rivoluzionaria spetta a questo partito organizzare e dirigere le forze progressiste, utilizzando tutti quegli organi popolari che si formano spontaneamente come crogioli ardenti in cui vanno a mischiarsi le forze rivoluzionarie, non per emettere plebisciti, ma in attesa di essere guidate»;
parlando sempre del ruolo del partito rivoluzionario nella costruzione del nuovo Stato europeo, il Manifesto conclude che «esso (il partito) attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto non da una preventiva consacrazione da parte della ancora inesistente volontà popolare, ma nella sua coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna; dà in tal modo le prime direttive del nuovo ordine, la prima disciplina sociale alle nuove masse. Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato e attorno a esso la nuova democrazia».
Non si può non condividere quanto osserva Ricolfi[1] a proposito della «natura giacobina, e decisamente antidemocratica, di un simile progetto politico», e della circostanza che se una critica va rivolta alle elité europee «non è di aver tradito il Manifesto, ma semmai di averne recepito l’idea basilare, ovvero che il sogno degli Stati Uniti d’Europa si potesse realizzare solo dall’alto».
L’alternativa a istituzioni europee costituitesi, allargatesi e consolidatesi in coerenza col Manifesto di Ventotene non è il ripudio dell’Europa e il ritorno alla dimensione esclusiva degli Stati nazionali, ma lo sforzo culturale e politico di riportare l’Unione degli Stati europei all’identità del continente. E’ sufficiente tornare al già menzionato Discorso di Papa Francesco ai Capi di Stato e di governo dell’Unione europea del 24 marzo 2017, per ricordare anzitutto le fondamenta. Citando S. Giovanni Paolo II, l’attuale Pontefice ricorda che:«l’anima dell’Europa rimane unita, perché, oltre alle sue origini comuni, vive gli identici valori cristiani e umani, come quelli della dignità della persona umana, del profondo sentimento della giustizia e della libertà, della laboriosità, dello spirito di iniziativa, dell’amore alla famiglia, del rispetto della vita, della tolleranza, del desiderio di cooperazione e di pace, che sono note che la caratterizzano’. Nel nostro mondo multiculturale tali valori continueranno a trovare piena cittadinanza se sapranno mantenere il loro nesso vitale con la radice che li ha generati. Nella fecondità di tale nesso sta la possibilità di edificare società autenticamente laiche, scevre da contrapposizioni ideologiche, nelle quali trovano ugualmente posto l’oriundo e l’autoctono, il credente e il non credente»;
Papa Francesco, facendo riferimento non già a Ventotene, bensì ai firmatari dei Trattati del 1957, e guardando in prospettiva, ha indicati «i pilastri sui quali essi hanno inteso edificare la Comunità economica europea e che ho già ricordati: la centralità dell’uomo, una solidarietà fattiva, l’apertura al mondo, il perseguimento della pace e dello sviluppo, l’apertura al futuro. A chi governa compete discernere le strade della speranza (…). L’Europa ritrova speranza quando l’uomo è il centro e il cuore delle sue istituzioni. Ritengo che ciò implichi l’ascolto attento e fiducioso delle istanze che provengono tanto dai singoli, quanto dalla società e dai popoli che compongono l’Unione»;
quanto al rispetto della volontà dei popoli, il Pontefice aggiunge che «Purtroppo, si ha spesso la sensazione che sia in atto uno “scollamento affettivo” fra i cittadini e le Istituzioni europee, sovente percepite lontane e non attente alle diverse sensibilità che costituiscono l’Unione. Affermare la centralità dell’uomo significa anche ritrovare lo spirito di famiglia, in cui ciascuno contribuisce liberamente secondo le proprie capacità e doti alla casa comune. È opportuno tenere presente che l’Europa è una famiglia di popoli e – come in ogni buona famiglia – ci sono suscettibilità differenti, ma tutti possono crescere nella misura in cui si è uniti. Oggi l’Unione Europea ha bisogno di riscoprire il senso di essere anzitutto “comunità” di persone e di popoli consapevole che “il tutto è più della parte, ed è anche più della loro semplice somma” e dunque che “bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti”».
Ventotene vs. Magistero sociale della Chiesa sull’Europa ha varie declinazioni: non solo quanto al rispetto dell’identità e della volontà dei popoli che compongono l’Europa;
non solo quanto a consapevolezza di una storia e di un destino comune;
ma anche – soprattutto – quanto alla prospettiva di speranza o di desolazione.
L’Europa ci appare nella sostanza sempre più spesso una terra desolata: certamente sul piano spirituale e culturale, talora anche sul piano materiale. La terra desolata è il titolo di una delle opere più belle di Thomas Stearn Eliot; in essa, quasi all’inizio, si incrocia questo verso: «l’albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo. L’arida pietra nessun suono d’acque». L’Europa – per esplicito riconoscimento dei vertici delle istituzioni UE -, dà l’idea di un albero morto, e come il fico del Vangelo non riesce a rendersi utile, «non dà riparo». Per chi da Esopo in poi è stato educato a fare con ragione l’apologia della formica, lo stridere del grillo dà ancora più fastidio del canto della cicala. Ma la vita c’è ancora, e l’acqua – grazie a Dio – dalle nostre parti continua a scorrere. Quei pochi chicchi di grano che chi indossa la parte della formica riesce a portare sulle proprie spalle possono essere i semi di alberi vivi che riprendono a crescere nella terra desolata dello scenario culturale e politico europeo. Con l’aiuto di Dio serviranno a qualcosa.
[1] L. Ricolfi, Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi, Longanesi, Milano 2027°, p. 224.
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