Il 22 novembre del 1981, papa Giovanni Paolo II promulgò l’enciclica Familiaris Consortio.
Al punto 84, riprendendo una sua omelia per la chiusura del VI Sinodo dei vescovi, del 25 ottobre 1980, il Papa scrive a proposito dei “divorziati risposati”: “La Chiesa ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia. (…). La riconciliazione nel sacramento della penitenza – che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico – può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l’uomo e la donna, per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo della separazione, ‘assumano l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi’.”
A distanza di 35 anni anche questo insegnamento è stato messo in discussione. L’Amoris Laetitia a riguardo costituisce una rottura con tale insegnamento che è difficile negare. La singolarità delle situazioni la scruta solo Dio; ma tale singolarità non può essere lasciata ad una discrezionalità ‘de jure’; altrimenti non solo ogni confessore può fare come gli pare, ma anche ogni fedele.
Ormai, nella morale, siamo in piena deriva rahneriana e post-kantiana. L’atto morale andrebbe valutato nella sua dimensione esistenziale e chi lo dovesse valutare dovrebbe far proprie categorie trascendentali che permettano una valutazione non dell’oggettività dell’atto, bensì dell’atto così come appare al peccatore e al confessore.
Ripetiamo: per le attenuanti ci pensa Dio, che scruta infallibilmente in “foro interno”; ma al confessore spetta il dovere di valutare secondo l’oggettività degli atti.
A distanza di 35 anni anche questo insegnamento è stato messo in discussione. L’Amoris Laetitia a riguardo costituisce una rottura con tale insegnamento che è difficile negare. La singolarità delle situazioni la scruta solo Dio; ma tale singolarità non può essere lasciata ad una discrezionalità ‘de jure’; altrimenti non solo ogni confessore può fare come gli pare, ma anche ogni fedele.
Ormai, nella morale, siamo in piena deriva rahneriana e post-kantiana. L’atto morale andrebbe valutato nella sua dimensione esistenziale e chi lo dovesse valutare dovrebbe far proprie categorie trascendentali che permettano una valutazione non dell’oggettività dell’atto, bensì dell’atto così come appare al peccatore e al confessore.
Ripetiamo: per le attenuanti ci pensa Dio, che scruta infallibilmente in “foro interno”; ma al confessore spetta il dovere di valutare secondo l’oggettività degli atti.
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