7 NOVEMBRE 2021
di Corrado Gnerre
Non è da adesso, ma ormai da diversi decenni a questa parte, il sentir dire che il Cristianesimo sia unicamente un’ “esperienza” e che tutto sommato bisognerebbe soprassedere sulla verità e sulla sua conoscenza.
Parlare in questi termini non è assolutamente corretto. Il Cristianesimo non solo non è riducibile ad esperienza, ma è verità che produce e giudica l’esperienza. Non è l’esperienza che giudica la verità, bensì è la verità che giudica l’esperienza.
Facciamo un esempio molto semplice, se diciamo: siamo cristiani perché ci sentiamo felici di esserlo… come la mettiamo con il musulmano o con il testimone di Geova che potrebbe ovviamente rispondere: anch’io sono felice di essere quello che sono? Certamente è importante il riscontro dell’essere cristiano nella propria vita, ma non è determinante. Lo ripetiamo: è la verità che giudica l’esperienza, non il contrario.
Identificare Gesù con la felicità non è affatto sbagliato, anzi è verissimo; ma non basta. Cristo è la felicità perché è la Verità.
Si sa che oggi non è molto efficace un metodo ben strutturato come quello tomista che parte dalla centralità della verità, mentre può essere più persuasivo quello agostiniano che parte dalle esigenze esistenziali dell’uomo, ma ciò non vuol dire che, anche partendo dalle aspettative dell’uomo e dal suo bisogno di senso, non si debba poi completare l’annuncio facendo capire la priorità logica della Verità. Facciamo un esempio: l’ideale è vedere un film partendo dall’inizio; ma ciò non toglie che lo si può capire anche se si arriva al cinema a proiezione in corso; poi, una volta che lo si vede per intero aggiungendo la parte iniziale a cui si è mancati, la trama diviene comprensibile. Così per il Cristianesimo, si può anche approdare alla vita cristiana (e forse avviene per la maggioranza dei casi) attraverso circostanze esistenziali varie, ma poi si è sempre tenuti a rendere ragione della propria fede come dice san Pietro nella sua prima lettera (3,15): “(…) adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi.”.
Indubbiamente l’uomo di oggi non è quello del XIII secolo, è purtroppo un uomo completamente destrutturato che deve essere prima di tutto coinvolto attraverso i bisogni esistenziali; ma ciò non toglie –come abbiamo già detto- che una volta utilizzato questo approccio, gli si debba far capire che tutto inizia dalla Verità e tutto ha senso nella Verità.
Ma c’è un’altra cosa da aggiungere. Bisogna ben capire cosa significa “felicità”.
la felicità non è uno stato dell’animo che riconosce che tutto è positivo e che è capace di produrre sempre e comunque una condizione di consolazione e di gaudio. Se fosse questa la felicità, i santi avrebbero qualche problema in merito. Basterebbe pensare a tutte le prove che contrassegnano la loro vita: desolazioni, “notti”, tentazioni. La felicità in senso cristiano non è alternativa alla sofferenza ma alla disperazione. La felicità è la pace dell’anima che può e deve coniugarsi anche con l’esperienza delle prove più terribili. Ma per capire questo -e torniamo al punto iniziale- bisogna che l’esperienza cristiana sia sempre esito del riconoscimento di ciò che è vero.
Detto questo, dobbiamo porci un interrogativo. Come dobbiamo intendere la famosa espressione “vieni e vedi” (Giovanni 1,46)? Molti oggi dicono che più che fare catechesi, basterebbe “invitare” nelle proprie comunità a vivere l’’esperienza cristiana, come avrebbero fatto i primi cristiani.
Rispondiamo.
Prima di tutto va detto che ciò che facevano i primi cristiani andrebbe ben chiarito, perché ci sono molti luoghi comuni da sfatare. L’espressione “vieni e vedi” va bene, ma va correttamente intesa. Certamente il riscontro della vita cristiana sta nelle opere, le quali -lo sappiamo bene- concorrono alla salvezza dell’anima. Ebbene, in quella frase, utilizzata dall’apostolo Filippo e che si diffuse presso i primi cristiani, si voleva dire proprio questo: vieni a vedere quanto è diversa la vita dei cristiani rispetto a quella dei pagani; per esempio, quanto è diversa dal modo come trattano le donne, gli schiavi, i bambini… Prendiamo come esempio i bambini: nel mondo pagano era diffusissimo l’infanticidio, cosa che ovviamente fu subito rifiutata dai cristiani. Insomma, la frase “vieni e vedi”, lungi dal voler essere una negazione dell’importanza della verità, era piuttosto l’attestazione e la dimostrazione concreta dell’accoglienza della verità: la vita dei cristiani è diversa da quella falsa e violenta dei pagani, perché è diversa la verità in cui credono.
Insomma tutto muoveva e muove dalla Verità, quella con la “V” maiuscola… s’intende.
di Corrado Gnerre
Non è da adesso, ma ormai da diversi decenni a questa parte, il sentir dire che il Cristianesimo sia unicamente un’ “esperienza” e che tutto sommato bisognerebbe soprassedere sulla verità e sulla sua conoscenza.
Parlare in questi termini non è assolutamente corretto. Il Cristianesimo non solo non è riducibile ad esperienza, ma è verità che produce e giudica l’esperienza. Non è l’esperienza che giudica la verità, bensì è la verità che giudica l’esperienza.
Facciamo un esempio molto semplice, se diciamo: siamo cristiani perché ci sentiamo felici di esserlo… come la mettiamo con il musulmano o con il testimone di Geova che potrebbe ovviamente rispondere: anch’io sono felice di essere quello che sono? Certamente è importante il riscontro dell’essere cristiano nella propria vita, ma non è determinante. Lo ripetiamo: è la verità che giudica l’esperienza, non il contrario.
Identificare Gesù con la felicità non è affatto sbagliato, anzi è verissimo; ma non basta. Cristo è la felicità perché è la Verità.
Si sa che oggi non è molto efficace un metodo ben strutturato come quello tomista che parte dalla centralità della verità, mentre può essere più persuasivo quello agostiniano che parte dalle esigenze esistenziali dell’uomo, ma ciò non vuol dire che, anche partendo dalle aspettative dell’uomo e dal suo bisogno di senso, non si debba poi completare l’annuncio facendo capire la priorità logica della Verità. Facciamo un esempio: l’ideale è vedere un film partendo dall’inizio; ma ciò non toglie che lo si può capire anche se si arriva al cinema a proiezione in corso; poi, una volta che lo si vede per intero aggiungendo la parte iniziale a cui si è mancati, la trama diviene comprensibile. Così per il Cristianesimo, si può anche approdare alla vita cristiana (e forse avviene per la maggioranza dei casi) attraverso circostanze esistenziali varie, ma poi si è sempre tenuti a rendere ragione della propria fede come dice san Pietro nella sua prima lettera (3,15): “(…) adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi.”.
Indubbiamente l’uomo di oggi non è quello del XIII secolo, è purtroppo un uomo completamente destrutturato che deve essere prima di tutto coinvolto attraverso i bisogni esistenziali; ma ciò non toglie –come abbiamo già detto- che una volta utilizzato questo approccio, gli si debba far capire che tutto inizia dalla Verità e tutto ha senso nella Verità.
Ma c’è un’altra cosa da aggiungere. Bisogna ben capire cosa significa “felicità”.
la felicità non è uno stato dell’animo che riconosce che tutto è positivo e che è capace di produrre sempre e comunque una condizione di consolazione e di gaudio. Se fosse questa la felicità, i santi avrebbero qualche problema in merito. Basterebbe pensare a tutte le prove che contrassegnano la loro vita: desolazioni, “notti”, tentazioni. La felicità in senso cristiano non è alternativa alla sofferenza ma alla disperazione. La felicità è la pace dell’anima che può e deve coniugarsi anche con l’esperienza delle prove più terribili. Ma per capire questo -e torniamo al punto iniziale- bisogna che l’esperienza cristiana sia sempre esito del riconoscimento di ciò che è vero.
Detto questo, dobbiamo porci un interrogativo. Come dobbiamo intendere la famosa espressione “vieni e vedi” (Giovanni 1,46)? Molti oggi dicono che più che fare catechesi, basterebbe “invitare” nelle proprie comunità a vivere l’’esperienza cristiana, come avrebbero fatto i primi cristiani.
Rispondiamo.
Prima di tutto va detto che ciò che facevano i primi cristiani andrebbe ben chiarito, perché ci sono molti luoghi comuni da sfatare. L’espressione “vieni e vedi” va bene, ma va correttamente intesa. Certamente il riscontro della vita cristiana sta nelle opere, le quali -lo sappiamo bene- concorrono alla salvezza dell’anima. Ebbene, in quella frase, utilizzata dall’apostolo Filippo e che si diffuse presso i primi cristiani, si voleva dire proprio questo: vieni a vedere quanto è diversa la vita dei cristiani rispetto a quella dei pagani; per esempio, quanto è diversa dal modo come trattano le donne, gli schiavi, i bambini… Prendiamo come esempio i bambini: nel mondo pagano era diffusissimo l’infanticidio, cosa che ovviamente fu subito rifiutata dai cristiani. Insomma, la frase “vieni e vedi”, lungi dal voler essere una negazione dell’importanza della verità, era piuttosto l’attestazione e la dimostrazione concreta dell’accoglienza della verità: la vita dei cristiani è diversa da quella falsa e violenta dei pagani, perché è diversa la verità in cui credono.
Insomma tutto muoveva e muove dalla Verità, quella con la “V” maiuscola… s’intende.
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