Diversamente da quanto scritto dai media, il Comitato regionale delle Marche non ha dato il via libera al suicidio assistito di “Mario”, tetraplegico di 43 anni. Ma valutare l’intollerabilità della sofferenza spetta, secondo la Corte costituzionale, al paziente. L’esito per Mario, con accanto i soliti Radicali, sembra quindi scontato: la morte. Eppure, il suo caso testimonia che c’è una resistenza culturale al suicidio assistito tra i sanitari. Ma la Consulta ha fatto una fuga in avanti.
Tommaso Scandroglio, 24-11-2021
Forse per la prima volta in Italia una persona morirà tramite la pratica del suicidio assistito. Si tratta di Mario, nome di fantasia, marchigiano di 43 anni, tetraplegico a seguito di un incidente stradale avvenuto una decina di anni fa. Avevamo già trattato della vicenda di Mario nei mesi scorsi (clicca qui e qui). Rimandiamo a quegli articoli per un approfondimento. Però, prima di parlare degli sviluppi della storia di Mario, ricordiamo per sommi capi come si presenta l’attuale quadro giuridico sul tema eutanasia in Italia.
Da molti anni, il paziente che vuole morire può farlo rinunciando a sottoporsi a terapie salvavita, questo grazie a plurime sentenze dei giudici. In secondo luogo, abbiamo la legge 219/17 che depenalizza in parte l’omicidio del consenziente quando viene commesso tramite due modalità: interruzione di terapia salvavita (compresi i presidi vitali quali nutrizione e idratazione assistita) e sedazione profonda continuata. La legge 219 avrà nel prossimo anno quasi certamente una implementazione: infatti, forse in primavera, saremo chiamati ad esprimerci sul quesito referendario proposto dai Radicali volto ad abrogare in parte l’art. 579 Cp che sanziona l’omicidio del consenziente. In breve, i Radicali vogliono espandere ancor di più le modalità per praticare l’omicidio del consenziente rispetto alle due modalità previste dalla legge 219: ad esempio tramite l’iniezione letale. Infine giace sul tavolo del Parlamento un disegno di legge volto alla legalizzazione del suicidio assistito (ne abbiamo parlato qui). Tale iniziativa nasce dai ripetuti inviti della Corte costituzionale a legiferare in materia.
E parlando di aiuto al suicidio torniamo a parlare di Mario il quale, tramite l’associazione radicale Luca Coscioni, chiese all’Area Vasta dell'Asur (Azienda Sanitaria Unica Regionale delle Marche) di morire tramite suicidio assistito. L’Asur negò il consenso, ma i Radicali si recarono dal giudice e questi, ovviamente, diede loro ragione: che l’Asur verifichi i requisiti di accesso al suicidio assistito, indicati dalla Corte costituzionale, per mezzo del parere di un Comitato etico.
I criteri previsti dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 242 del 2019 (clicca qui per un approfondimento) sono i seguenti: richiesta proveniente da persona capace di intendere e volere, richiesta libera da condizionamenti, “persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili”. La Consulta, come accennato, aveva chiesto al Parlamento di legiferare in materia, ma nel frattempo chi soddisfa le condizioni di cui sopra può accedere all’eutanasia in una struttura ospedaliera tramite suicidio assistito.
Questi requisiti sono presenti a detta del Comitato etico? Il problema sta in un requisito - quello che riguarda le sofferenze intollerabili - o meglio: nella verifica dell’esistenza di tale requisito. Il Comitato, in merito a tale condizione, parla di “elemento soggettivo di difficile interpretazione”, di difficoltà nel “rilevare lo stato di non ulteriore sopportabilità di una sofferenza psichica”, e di “indisponibilità del soggetto ad accedere ad una terapia antidolorifica integrativa”. Un paio di rilievi. Il primo: l’intollerabilità della sofferenza da chi deve essere valutata? Secondo la Consulta dal paziente stesso. Sta a lui e non al Comitato giudicare se una sofferenza è intollerabile e non deve certo fornire prova di ciò. Il Comitato deve solo accertarsi che il paziente ritenga tale sofferenza intollerabile, ma non può sindacare il suo giudizio. In secondo luogo, è vero che la Consulta ha incoraggiato molto, nella sua sentenza, a battere la strada delle cure palliative, ma queste rimangono facoltative e non certo obbligatorie. Essendo terapie possono legittimamente essere rifiutate dal paziente stesso. Detto tutto ciò, rimane il fatto che il Comitato non ha dato via libera al suicidio assistito.
Nonostante questo, i Radicali vanno per la loro strada. Come precisa Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni: “Manca ora la definizione del processo di somministrazione del farmaco eutanasico”. L’avvocato Filomena Gallo, co-difensore di Mario e segretario dell’Associazione Luca Coscioni, aggiunge: “Forniremo, in collaborazione con un esperto, il dettaglio delle modalità di autosomministrazione del farmaco idoneo per Mario, in base alle sue condizioni”. Un mero passaggio tecnico, dunque.
L’esito di questa vicenda appare scontato: la morte del povero Mario. Se abbiamo una Corte costituzionale che dice sì all’aiuto al suicidio e se abbiamo un disegno di legge sul suicidio assistito che per indicazione della stessa Corte deve essere approvato, non vorrete credere che chi voglia morire con l’aiuto di terzi non possa farlo? Interessante invece indagare le possibili motivazioni culturali che hanno spinto il Comitato etico a non firmare l’esecuzione del paziente e l’Asur, per due volte, a resistere agli assalti dell’Associazione Luca Coscioni, tanto è vero che per due volte l’Asur è stata diffidata. Ciò potrebbe voler dire che esiste una certa resistenza culturale all’eutanasia. E il caso dell’Azienda sanitaria marchigiana potrebbe essere paradigmatico di un sentire diffuso tra amministratori della salute pubblica, medici e infermieri (ma non tra cittadini visto il successo della campagna referendaria dei Radicali). Se così fosse - ma è solo un’intuizione non suffragata da ricerche sociologiche - la Corte costituzionale non avrebbe registrato e validato un assenso sociale sull’eutanasia tra gli operatori sanitari, bensì avrebbe cantato una nota stonata fuori dal coro. Una fuga in avanti che però creerà cultura, che permetterà di diffondere la cattiva pratica dell’aiuto al suicidio nelle corsie di ospedale e poi fuori di esse.
Le sentenze, al pari delle leggi, educano o diseducano un popolo, hanno la capacità, insieme ovviamente ad altri fattori, di orientare la coscienza collettiva, di ordinare, anzi comandare un nuovo sentire. E più delle sentenze e delle leggi è la pratica stessa che fa cultura: quindi dopo il primo caso di Mario più facilmente ne seguiranno altri, in ossequio al famoso principio del piano inclinato.
Da molti anni, il paziente che vuole morire può farlo rinunciando a sottoporsi a terapie salvavita, questo grazie a plurime sentenze dei giudici. In secondo luogo, abbiamo la legge 219/17 che depenalizza in parte l’omicidio del consenziente quando viene commesso tramite due modalità: interruzione di terapia salvavita (compresi i presidi vitali quali nutrizione e idratazione assistita) e sedazione profonda continuata. La legge 219 avrà nel prossimo anno quasi certamente una implementazione: infatti, forse in primavera, saremo chiamati ad esprimerci sul quesito referendario proposto dai Radicali volto ad abrogare in parte l’art. 579 Cp che sanziona l’omicidio del consenziente. In breve, i Radicali vogliono espandere ancor di più le modalità per praticare l’omicidio del consenziente rispetto alle due modalità previste dalla legge 219: ad esempio tramite l’iniezione letale. Infine giace sul tavolo del Parlamento un disegno di legge volto alla legalizzazione del suicidio assistito (ne abbiamo parlato qui). Tale iniziativa nasce dai ripetuti inviti della Corte costituzionale a legiferare in materia.
E parlando di aiuto al suicidio torniamo a parlare di Mario il quale, tramite l’associazione radicale Luca Coscioni, chiese all’Area Vasta dell'Asur (Azienda Sanitaria Unica Regionale delle Marche) di morire tramite suicidio assistito. L’Asur negò il consenso, ma i Radicali si recarono dal giudice e questi, ovviamente, diede loro ragione: che l’Asur verifichi i requisiti di accesso al suicidio assistito, indicati dalla Corte costituzionale, per mezzo del parere di un Comitato etico.
I criteri previsti dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 242 del 2019 (clicca qui per un approfondimento) sono i seguenti: richiesta proveniente da persona capace di intendere e volere, richiesta libera da condizionamenti, “persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili”. La Consulta, come accennato, aveva chiesto al Parlamento di legiferare in materia, ma nel frattempo chi soddisfa le condizioni di cui sopra può accedere all’eutanasia in una struttura ospedaliera tramite suicidio assistito.
Questi requisiti sono presenti a detta del Comitato etico? Il problema sta in un requisito - quello che riguarda le sofferenze intollerabili - o meglio: nella verifica dell’esistenza di tale requisito. Il Comitato, in merito a tale condizione, parla di “elemento soggettivo di difficile interpretazione”, di difficoltà nel “rilevare lo stato di non ulteriore sopportabilità di una sofferenza psichica”, e di “indisponibilità del soggetto ad accedere ad una terapia antidolorifica integrativa”. Un paio di rilievi. Il primo: l’intollerabilità della sofferenza da chi deve essere valutata? Secondo la Consulta dal paziente stesso. Sta a lui e non al Comitato giudicare se una sofferenza è intollerabile e non deve certo fornire prova di ciò. Il Comitato deve solo accertarsi che il paziente ritenga tale sofferenza intollerabile, ma non può sindacare il suo giudizio. In secondo luogo, è vero che la Consulta ha incoraggiato molto, nella sua sentenza, a battere la strada delle cure palliative, ma queste rimangono facoltative e non certo obbligatorie. Essendo terapie possono legittimamente essere rifiutate dal paziente stesso. Detto tutto ciò, rimane il fatto che il Comitato non ha dato via libera al suicidio assistito.
Nonostante questo, i Radicali vanno per la loro strada. Come precisa Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni: “Manca ora la definizione del processo di somministrazione del farmaco eutanasico”. L’avvocato Filomena Gallo, co-difensore di Mario e segretario dell’Associazione Luca Coscioni, aggiunge: “Forniremo, in collaborazione con un esperto, il dettaglio delle modalità di autosomministrazione del farmaco idoneo per Mario, in base alle sue condizioni”. Un mero passaggio tecnico, dunque.
L’esito di questa vicenda appare scontato: la morte del povero Mario. Se abbiamo una Corte costituzionale che dice sì all’aiuto al suicidio e se abbiamo un disegno di legge sul suicidio assistito che per indicazione della stessa Corte deve essere approvato, non vorrete credere che chi voglia morire con l’aiuto di terzi non possa farlo? Interessante invece indagare le possibili motivazioni culturali che hanno spinto il Comitato etico a non firmare l’esecuzione del paziente e l’Asur, per due volte, a resistere agli assalti dell’Associazione Luca Coscioni, tanto è vero che per due volte l’Asur è stata diffidata. Ciò potrebbe voler dire che esiste una certa resistenza culturale all’eutanasia. E il caso dell’Azienda sanitaria marchigiana potrebbe essere paradigmatico di un sentire diffuso tra amministratori della salute pubblica, medici e infermieri (ma non tra cittadini visto il successo della campagna referendaria dei Radicali). Se così fosse - ma è solo un’intuizione non suffragata da ricerche sociologiche - la Corte costituzionale non avrebbe registrato e validato un assenso sociale sull’eutanasia tra gli operatori sanitari, bensì avrebbe cantato una nota stonata fuori dal coro. Una fuga in avanti che però creerà cultura, che permetterà di diffondere la cattiva pratica dell’aiuto al suicidio nelle corsie di ospedale e poi fuori di esse.
Le sentenze, al pari delle leggi, educano o diseducano un popolo, hanno la capacità, insieme ovviamente ad altri fattori, di orientare la coscienza collettiva, di ordinare, anzi comandare un nuovo sentire. E più delle sentenze e delle leggi è la pratica stessa che fa cultura: quindi dopo il primo caso di Mario più facilmente ne seguiranno altri, in ossequio al famoso principio del piano inclinato.
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