Nota redazionale. Questo articolo approfondisce il tema trattato dall’autore nell’ultimo Editoriale del Venerdì dell’Osservatorio: VEDILO QUI
Silvio Brachetta, 23 agosto 2021
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Quanto la libertà, in san Bonaventura, sia legata al precetto lo si può capire anche con un semplice esempio. Devo scegliere se andare in vacanza a Torino o a Roma. La scelta è libera da coazione esterna, cioè libera da costrizione. Scelgo di andare a Torino. Qua devo fare ulteriori scelte libere: posso andare a piedi, in auto, in treno o in aereo. Scelgo il treno. Ma, una volta scelta Torino e il treno, sembra interdetta anche la libertà dalla coazione. Il treno ha uno (e un solo) percorso, ha orari stabiliti a priori, ha dei costi fissi di percorrenza. Non solo, ma la scelta del treno esclude altre scelte: non posso andare a Torino in treno e anche in aereo, ma devo obbligatoriamente seguire una via geografica e temporale definitiva.
Eppure, nonostante gli obblighi, mi dirò libero se – e solo se – raggiungerò Torino, perché questa è la scelta della mia volontà. Viceversa, se non raggiungerò Torino per un qualche intoppo, dirò che qualcosa ha impedito la libertà del mio volere. Se sono sano di mente, non dirò mai che gli obblighi del viaggio, delle leggi della fisica o della semplice logica, sono stati d’impedimento alla mia libertà.
La libertà, inoltre, non significa cambiare idea senza sosta o decidere di andare in località diverse nello stesso periodo di tempo. Non ha senso, né legame alcuno con la libertà, decidere di trascorrere le vacanze a Roma e a Torino nella medesima settimana, come è fuori dalla libertà essere paralizzati nell’indecisione sistematica tra Roma e Torino. Si finirebbe col morire di fame, come l’asino di Buridano.
Necessità delle catene
Da qui si comprende l’insegnamento di san Bonaventura: «E, dunque, vi è una duplice necessità: la coazione e l’immutabilità. La necessità di coazione ripugna alla libertà d’arbitrio, mentre la vera necessità è l’immutabilità. Per questo l’arbitrio si dice libero non perché si possa volere in modo che si voglia anche l’opposto al volere, ma perché tutto quello che si vuole tende al suo stesso dominio, perché così vuole qualcosa che voglia volere. E perciò, nell’atto di volizione, [l’arbitrio] muove e domina se stesso. Pertanto, si dice libero [arbitrio], sebbene ordinato immutabile a quello [all’atto di volizione]»[1].
Bene interpreta Francesco Corvino le parole di Bonaventura: «[…] essere liberi non significa volere e disvolere momento per momento, ma significa avere la capacità e la forza di realizzare fino in fondo ciò che si è deciso liberamente»[2]. Bonaventura, insomma, circa la libertà, distingue due necessità: di coazione e d’immutabilità. La coazione (la costrizione) è l’incatenamento, senza consenso, della libera volontà da parte di un’altra persona. L’immutabilità, al contrario, è la volontà che incatena se stessa nella scelta, affinché – dopo la scelta – si realizzi il volere libero della volontà.
La stessa immutabilità del volere lo si ritrova in Dio. Le leggi fisiche e naturali, ad esempio, sono immutabili non perché Dio non sia libero, ma proprio in quanto libero, per realizzare ciò che vuole, secondo ragione. Nella stessa natura, quindi, risplende Dio, tanto nella ragione, quanto nella volontà. La ragione eterna di Dio è evidente nell’aspetto matematico e logico delle leggi fisiche, mentre la sua libera volontà si esprime pienamente nell’immutabilità delle medesime leggi. Questo, tra l’altro, è un argomento anche a favore della realtà personale di Dio. Ovvero, il fatto che il Creatore sia un Dio personale (e tri-personale per rivelazione) lo si può desumere pure dalla semplice osservazione delle leggi naturali, logiche e immutabili.
La scure e il martello
In Bonaventura volontà e ragione non possono sussistere separate. Se la volontà fosse l’unica potenza dell’anima, sarebbe cieca; e se lo fosse la ragione, l’uomo sarebbe paralizzato nella scelta, rendendo la ragione inoperativa. Bonaventura afferma che ragione e volontà non sono accidenti o essenze separate dall’essenza dell’anima, ma sono potenze – assolutamente omogenee tra loro – le quali «non si differenziano dall’essenza dell’anima»[3]. Esse, cioè, costituiscono con l’anima un’unica essenza.
Ragione e volontà sono omogenee al punto da non poter ammettere una loro differenza sostanziale. Bonaventura offre un esempio molto singolare: «[…] un carpentiere possiede strumenti diversi per compiere operazioni diverse, come la scure per tagliare ed il martello per battere, nondimeno può servirsi della stessa scure sia dalla parte della lama per tagliare sia dalla parte opposta alla lama per sostituire il martello»[4]. Ragione e volontà, dunque, sono come due operazioni dello stesso utensile; due strumenti del medesimo dispositivo – l’anima. In termini aristotelici, si può affermare che ragione e volontà si «sussumono per riduzione [reductio]» sotto l’essenza dell’anima[5]. Di conseguenza, il «libero arbitrio» è «la sintesi di ragione e volontà»[6].
Libertà nella scelta del bene e schiavitù nella scelta del male
La scelta, però, non è mai neutra: ha sempre a che fare con la scelta tra beni o con la scelta tra un bene e un male. Leone XIII, in particolare, pone in relazione la libertà con l’ambito morale. Nell’enciclica Libertas[7], il papa definisce la libertà come «la facoltà di scegliere i mezzi idonei allo scopo che ci si è proposti», laddove idonee sono le cose buone e inidonee le cattive. Lo scopo è il bene, naturale e soprannaturale. E, tuttavia, l’uomo, al contrario delle bestie, può comprendere che il bene soprannaturale è necessario, mentre i beni particolari e mondani non lo sono affatto. Leone XIII, anzi, afferma che i beni mondani sono «contingenti», mentre l’unica necessità è nelle «immutabili e necessarie ragioni del vero e del bene».
A decidere, in ogni caso, del vero e del bene non è certo la volontà, ma ogni scelta volontaria «è sempre preceduta dal giudizio sulla verità dei beni e sul bene da anteporre agli altri». E, dunque, «nessun filosofo dubita che l’atto di giudicare appartenga alla ragione e non alla volontà». Non ha senso alcuno un desiderio che non sia sottomesso alla ragione, anche perché la volontà cieca potrebbe incappare in un male e ottenere il contrario di quanto intendeva realizzare.
L’errore di molti è la separazione, in ambito morale, della verità dalla volontà. Non comprendono che, per via di un principio di logica elementare, separando la volontà dalla verità (afferrata dalla ragione), si ottengono risultati diversi da quelli voluti dal medesimo volere e, pertanto, non si è liberi, ma schiavi di una scelta errata. La scelta, infatti, è errata quando ci si aspetta un bene e ne viene un male.
L’uomo, inoltre, dopo la caduta adamitica (peccato originale) solo a fatica e con una guida esterna (legge umana e divina) può raggiungere la verità e – di conseguenza – approdare ad una scelta omogenea al proprio volere. La scelta, pertanto, si dice omogenea al proprio volere – e dunque libera – solo se è guidata dalla retta ragione. Ma la ragione dev’essere «retta» in modo effettivo, non solo come intenzione: proprio a motivo della ferita causata dal peccato originale, è molto difficile, se non impossibile, che la ragione sia «retta» senza l’ausilio della grazia. Senza la legge, senza la grazia, senza «idonei e saldi presidi» – scrive Leone XIII – che indirizzano i desideri verso il bene voluto, il libero arbitrio non porta alla libertà, ma alla schiavitù. E, siccome il peccato è la scelta di un male, «chiunque commette il peccato è schiavo del peccato» (Gv 8, 34).
Tutto questo è detto a proposito tanto del bene naturale, quanto del bene morale – tanto del bene privato, quanto del bene comune. Il precetto divino della legge, in questo quadro, non è mai di ostacolo alla libertà, anche se soggetto a coazione transitoria (educazione dei giovani, leggi legittime dello stato), poiché conduce alla liberazione dell’uomo, ovvero lo incatena al desiderio immutabile della sua stessa volontà.
Silvio Brachetta
[1] «Cum enim duplex sit necessitas, videlicet coactionis et immutabilitatis, necessitas coactionis repugnat libertati arbitrii, necessitas vero immutabilitatis non, pro eo quod arbitrium dicitur liberum, non quia sic velit hoc ut possit velle eius oppositum, sed quia omne quod vult appetit ad sui ipsium imperium, quia sic vult aliquid ut velit se velle illud; et ideo in actu volendi se ipsum movet et sibi dominatur, et pro tanto dicitur liberum, quamvis immutabiliter ordinetur ad illud.», Bonaventura da Bagnoregio, II Sent., d. 25, p. 1, a. un., q. 2 concl.
[2] Francesco Corvino, Bonaventura da Bagnoregio, francescano e pensatore, Città Nuova, 2006, p. 288.
[3] Cfr. Corvino, Bonaventura da Bagnoregio, cit., pp. 274-275.
[4] Bonaventura da Bagnoregio, II Sent., d. 24, p. 1, a. 2, q. 1 concl.
[5] Ivi.
[6] Corvino, Bonaventura da Bagnoregio, cit., p. 283.
[7] Leone XIII, Lettera enciclica Libertas, 20/06/1888. Tutti i virgolettati successivi sono relativi a quest’opera.
Quanto la libertà, in san Bonaventura, sia legata al precetto lo si può capire anche con un semplice esempio. Devo scegliere se andare in vacanza a Torino o a Roma. La scelta è libera da coazione esterna, cioè libera da costrizione. Scelgo di andare a Torino. Qua devo fare ulteriori scelte libere: posso andare a piedi, in auto, in treno o in aereo. Scelgo il treno. Ma, una volta scelta Torino e il treno, sembra interdetta anche la libertà dalla coazione. Il treno ha uno (e un solo) percorso, ha orari stabiliti a priori, ha dei costi fissi di percorrenza. Non solo, ma la scelta del treno esclude altre scelte: non posso andare a Torino in treno e anche in aereo, ma devo obbligatoriamente seguire una via geografica e temporale definitiva.
Eppure, nonostante gli obblighi, mi dirò libero se – e solo se – raggiungerò Torino, perché questa è la scelta della mia volontà. Viceversa, se non raggiungerò Torino per un qualche intoppo, dirò che qualcosa ha impedito la libertà del mio volere. Se sono sano di mente, non dirò mai che gli obblighi del viaggio, delle leggi della fisica o della semplice logica, sono stati d’impedimento alla mia libertà.
La libertà, inoltre, non significa cambiare idea senza sosta o decidere di andare in località diverse nello stesso periodo di tempo. Non ha senso, né legame alcuno con la libertà, decidere di trascorrere le vacanze a Roma e a Torino nella medesima settimana, come è fuori dalla libertà essere paralizzati nell’indecisione sistematica tra Roma e Torino. Si finirebbe col morire di fame, come l’asino di Buridano.
Necessità delle catene
Da qui si comprende l’insegnamento di san Bonaventura: «E, dunque, vi è una duplice necessità: la coazione e l’immutabilità. La necessità di coazione ripugna alla libertà d’arbitrio, mentre la vera necessità è l’immutabilità. Per questo l’arbitrio si dice libero non perché si possa volere in modo che si voglia anche l’opposto al volere, ma perché tutto quello che si vuole tende al suo stesso dominio, perché così vuole qualcosa che voglia volere. E perciò, nell’atto di volizione, [l’arbitrio] muove e domina se stesso. Pertanto, si dice libero [arbitrio], sebbene ordinato immutabile a quello [all’atto di volizione]»[1].
Bene interpreta Francesco Corvino le parole di Bonaventura: «[…] essere liberi non significa volere e disvolere momento per momento, ma significa avere la capacità e la forza di realizzare fino in fondo ciò che si è deciso liberamente»[2]. Bonaventura, insomma, circa la libertà, distingue due necessità: di coazione e d’immutabilità. La coazione (la costrizione) è l’incatenamento, senza consenso, della libera volontà da parte di un’altra persona. L’immutabilità, al contrario, è la volontà che incatena se stessa nella scelta, affinché – dopo la scelta – si realizzi il volere libero della volontà.
La stessa immutabilità del volere lo si ritrova in Dio. Le leggi fisiche e naturali, ad esempio, sono immutabili non perché Dio non sia libero, ma proprio in quanto libero, per realizzare ciò che vuole, secondo ragione. Nella stessa natura, quindi, risplende Dio, tanto nella ragione, quanto nella volontà. La ragione eterna di Dio è evidente nell’aspetto matematico e logico delle leggi fisiche, mentre la sua libera volontà si esprime pienamente nell’immutabilità delle medesime leggi. Questo, tra l’altro, è un argomento anche a favore della realtà personale di Dio. Ovvero, il fatto che il Creatore sia un Dio personale (e tri-personale per rivelazione) lo si può desumere pure dalla semplice osservazione delle leggi naturali, logiche e immutabili.
La scure e il martello
In Bonaventura volontà e ragione non possono sussistere separate. Se la volontà fosse l’unica potenza dell’anima, sarebbe cieca; e se lo fosse la ragione, l’uomo sarebbe paralizzato nella scelta, rendendo la ragione inoperativa. Bonaventura afferma che ragione e volontà non sono accidenti o essenze separate dall’essenza dell’anima, ma sono potenze – assolutamente omogenee tra loro – le quali «non si differenziano dall’essenza dell’anima»[3]. Esse, cioè, costituiscono con l’anima un’unica essenza.
Ragione e volontà sono omogenee al punto da non poter ammettere una loro differenza sostanziale. Bonaventura offre un esempio molto singolare: «[…] un carpentiere possiede strumenti diversi per compiere operazioni diverse, come la scure per tagliare ed il martello per battere, nondimeno può servirsi della stessa scure sia dalla parte della lama per tagliare sia dalla parte opposta alla lama per sostituire il martello»[4]. Ragione e volontà, dunque, sono come due operazioni dello stesso utensile; due strumenti del medesimo dispositivo – l’anima. In termini aristotelici, si può affermare che ragione e volontà si «sussumono per riduzione [reductio]» sotto l’essenza dell’anima[5]. Di conseguenza, il «libero arbitrio» è «la sintesi di ragione e volontà»[6].
Libertà nella scelta del bene e schiavitù nella scelta del male
La scelta, però, non è mai neutra: ha sempre a che fare con la scelta tra beni o con la scelta tra un bene e un male. Leone XIII, in particolare, pone in relazione la libertà con l’ambito morale. Nell’enciclica Libertas[7], il papa definisce la libertà come «la facoltà di scegliere i mezzi idonei allo scopo che ci si è proposti», laddove idonee sono le cose buone e inidonee le cattive. Lo scopo è il bene, naturale e soprannaturale. E, tuttavia, l’uomo, al contrario delle bestie, può comprendere che il bene soprannaturale è necessario, mentre i beni particolari e mondani non lo sono affatto. Leone XIII, anzi, afferma che i beni mondani sono «contingenti», mentre l’unica necessità è nelle «immutabili e necessarie ragioni del vero e del bene».
A decidere, in ogni caso, del vero e del bene non è certo la volontà, ma ogni scelta volontaria «è sempre preceduta dal giudizio sulla verità dei beni e sul bene da anteporre agli altri». E, dunque, «nessun filosofo dubita che l’atto di giudicare appartenga alla ragione e non alla volontà». Non ha senso alcuno un desiderio che non sia sottomesso alla ragione, anche perché la volontà cieca potrebbe incappare in un male e ottenere il contrario di quanto intendeva realizzare.
L’errore di molti è la separazione, in ambito morale, della verità dalla volontà. Non comprendono che, per via di un principio di logica elementare, separando la volontà dalla verità (afferrata dalla ragione), si ottengono risultati diversi da quelli voluti dal medesimo volere e, pertanto, non si è liberi, ma schiavi di una scelta errata. La scelta, infatti, è errata quando ci si aspetta un bene e ne viene un male.
L’uomo, inoltre, dopo la caduta adamitica (peccato originale) solo a fatica e con una guida esterna (legge umana e divina) può raggiungere la verità e – di conseguenza – approdare ad una scelta omogenea al proprio volere. La scelta, pertanto, si dice omogenea al proprio volere – e dunque libera – solo se è guidata dalla retta ragione. Ma la ragione dev’essere «retta» in modo effettivo, non solo come intenzione: proprio a motivo della ferita causata dal peccato originale, è molto difficile, se non impossibile, che la ragione sia «retta» senza l’ausilio della grazia. Senza la legge, senza la grazia, senza «idonei e saldi presidi» – scrive Leone XIII – che indirizzano i desideri verso il bene voluto, il libero arbitrio non porta alla libertà, ma alla schiavitù. E, siccome il peccato è la scelta di un male, «chiunque commette il peccato è schiavo del peccato» (Gv 8, 34).
Tutto questo è detto a proposito tanto del bene naturale, quanto del bene morale – tanto del bene privato, quanto del bene comune. Il precetto divino della legge, in questo quadro, non è mai di ostacolo alla libertà, anche se soggetto a coazione transitoria (educazione dei giovani, leggi legittime dello stato), poiché conduce alla liberazione dell’uomo, ovvero lo incatena al desiderio immutabile della sua stessa volontà.
Silvio Brachetta
[1] «Cum enim duplex sit necessitas, videlicet coactionis et immutabilitatis, necessitas coactionis repugnat libertati arbitrii, necessitas vero immutabilitatis non, pro eo quod arbitrium dicitur liberum, non quia sic velit hoc ut possit velle eius oppositum, sed quia omne quod vult appetit ad sui ipsium imperium, quia sic vult aliquid ut velit se velle illud; et ideo in actu volendi se ipsum movet et sibi dominatur, et pro tanto dicitur liberum, quamvis immutabiliter ordinetur ad illud.», Bonaventura da Bagnoregio, II Sent., d. 25, p. 1, a. un., q. 2 concl.
[2] Francesco Corvino, Bonaventura da Bagnoregio, francescano e pensatore, Città Nuova, 2006, p. 288.
[3] Cfr. Corvino, Bonaventura da Bagnoregio, cit., pp. 274-275.
[4] Bonaventura da Bagnoregio, II Sent., d. 24, p. 1, a. 2, q. 1 concl.
[5] Ivi.
[6] Corvino, Bonaventura da Bagnoregio, cit., p. 283.
[7] Leone XIII, Lettera enciclica Libertas, 20/06/1888. Tutti i virgolettati successivi sono relativi a quest’opera.
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