sabato 21 agosto 2021

Guareschi e la “parabola” delle mele

 




Nell’ultima opera di Guareschi la contestazione colpisce il “mondo piccolo” a suon di neolingua e ideologia che non si arrestano neanche di fronte al Cristo dell’altar maggiore. Ma dichiarare guerra al passato in vista dei frutti che verranno può riservare amari raccolti.



di Stefano Chiappalone (07-08-2021)

È forse il meno conosciuto ma certamente il più profetico, l’ultimo libro di Giovannino Guareschi (1908-1968) che morì appena in tempo per correggere le bozze di Don Camillo e i giovani d’oggi (Rizzoli, Milano 1969) e per cogliere i segni della dilagante contestazione politica ed ecclesiale. La vittima più illustre dello Zeitgeist – che farà tabula rasa di quel “mondo piccolo” esteso dalle pagine di Guareschi fino alle chiese e alle Case del Popolo di tutta Italia – è il Cristo dell’altare maggiore, “reo” (con la “complicità” dell’intero altar maggiore e dei riti connessi) di non essere più considerato al passo con i tempi. Non certo per volontà di don Camillo, che, anzi, ne è addolorato, bensì di don Chichì, una sorta di commissario politico in clergyman inviato a proibire come se fosse dannoso tutto ciò che fino a quel momento era considerato sacro e grande, e a piegare il corpulento parroco della Bassa alla nuova parola d’ordine: “aggiornamento”. Don Camillo trasloca con tutto il Cristo e l’altare nella cappella del Filotti, mentre la chiesa parrocchiale si va svuotando sotto l’“illuminata” guida di don Chichì.

«Parecchia gente disertò la Messa e don Camillo, incontrato il Pinetti, gli domandò perché mai non si facesse più vedere in chiesa. “Io” rispose l’altro “ho lavorato onestamente tutta la vita per avere quello che ho e non mi va di venire in chiesa per sentirmi insultare da don Chichì”» (p. 57). Il Pinetti era solo uno dei tanti stufi di sentir predicare slogan quali: «“[…] Il ricco è un ladro ed è quindi esatto dire che la proprietà è un furto. La Chiesa di Cristo è la Chiesa dei poveri perché solo dei poveri è il Regno dei Cieli”. “La povertà è una disgrazia, non un merito” replicò don Camillo […]» (ibidem).


Nonostante lo sbandierato “dialogo”, infatti, don Chichì lancia continue frecciate su chiunque non rientri nella sua personale concezione di “ultimi”, fino a rasentare il ridicolo: in paese ci sono persone concrete, non le categorie sociologiche cui presume di portare Cristo (come se don Camillo non lo avesse fatto), salvo tirare un sospiro di sollievo di fronte alla presenza, almeno, di “ragazze-madri”: «“Porterò Cristo a queste povere disgraziate!”. Entrò la vecchia Desolina con la posta. “Può incominciare subito il suo lavoro”, disse don Camillo al pretino. “La Desolina è proprio una di quelle povere disgraziate alle quali lei intende portare Cristo”. “Disgraziato sarà lui!”, disse la Desolina indicando con un cenno don Chichì. “In quanto a Cristo, so dove trovarlo senza bisogno di questo prete a mezzo servizio”» (p. 69). Mezzo servizio, perché l’altra metà è a disposizione del mainstream: per don Chichì, sempre pronto a scagliarsi contro il passato, il futuro è indubitabilmente carico di promesse, anche se viaggia a bordo dei carri armati sovietici.

A don Camillo, intento a preparare una Messa in suffragio dei morti d’Ungheria, obietta: «Non ha visto che tutta la stampa, giornali e riviste, pur ricordando le tragiche giornate di Budapest, ha giustamente posto l’accento non sulla repressione ma sull’Ungheria rinata?» (p. 153). Non certo come quel “fissato” del cardinale József Mindszenty (1892-1975): «“Perché questa smania di martirio? Non avrebbe potuto trovare anche lui un modus vivendi con l’autorità del suo paese?”. “Bisogna compatirlo”, rispose don Camillo. “È stato portato fuori strada da quell’altro tizio che s’è fatto inchiodare sulla croce. I soliti estremismi”» (p. 158-159).

In un gioco di apparenti contraddizioni don Chichì urla con livore le sue parole d’ordine improntate al dialogo e alla coesistenza, mentre don Camillo si scazzotta pacificamente con Peppone, che in fondo parla la sua stessa lingua – e non la “neolingua” di don Chichì. La differenza tra i due mondi e i due linguaggi emerge soprattutto in un botta e risposta, che da solo vale l’intero libro. Il “dialogante” don Chichì invita a «[…] rinnovare l’equipaggio: liberarsi senza pietà dei cattivi marinai e puntare la prua verso l’altra sponda. È là che la nave troverà le nuove forze per ringiovanire l’equipaggio» (p. 58). Alle declamate magnifiche sorti e progressive, don Camillo oppone il consueto buon senso: «La mia chiesa non è la grande nave che dice lei, ma una povera piccola barca: però ha sempre navigato dall’una all’altra sponda. Ora è lei che la guida e io la lascio fare perché così mi è stato ordinato: però la consiglio di non sbilanciarsi. Lei allontana molti uomini del vecchio equipaggio per imbarcarne dei nuovi sull’altra sponda: badi che non le succeda di perdere i vecchi senza trovare i nuovi. Ricorda la storia di quei fraticelli che fecero pipì sulle mele piccole e brutte perché erano sicuri che ne sarebbero arrivate di grosse, bellissime e poi queste non arrivarono e i poveretti dovettero mangiare le piccole e brutte?» (p. 59).

Don Chichì replica beffardo che «Le storielle dei frati hanno fatto il loro tempo!» (ibidem), ma da allora, a fronte di decenni di disprezzo verso i «vecchi equipaggi» e le «mele piccole e brutte», non sembra si siano avuti dei grandi raccolti. Infatti, quella dei frati e delle mele più che una «storiella» è una parabola, bisognosa di orecchie per intendere…

Fonte: Alleanza Cattolica



Nessun commento:

Posta un commento