lunedì 2 dicembre 2019

Il peccato di idolatria nella tradizione espressa con l'architettura



IGNARI AL GRAN FALÒ DEL VITELLO D’ORO
19 novembre 2019


Un diavolo, scacciato, esce inviperito dalla bocca del vitello d’oro, mentre Mosè si appresta a distruggere l’idolo: è la fine cruenta di un episodio di idolatria pieno di significati. E noi… ci siamo anche noi – ci sei tu, ci sono io – in questo capitello, tra i più noti di Vézelay.

E’ sceso appena dalla montagna sacra, Mosè. Porta le tavole su cui, dopo lunghi giorni solo sul monte, ha visto il Signore incidere, nel turbine, i dieci comandamenti, “tavole di pietra, scritte dal dito di Dio”. Ma già la voce di Yahve, subito dopo il dono della legge, lo aveva messo in allarme:


…il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”».

Il “vitello di metallo fuso” – per realizzarlo gli Israeliti avevano consegnato tutti i loro gioielli d’oro – è il segno dell’impazienza del popolo, che pure aveva visto le grandi cose operate a suo favore dal Dio di Mosè: è bastato che il Patriarca si trattenesse sulla montagna poco più del previsto, e il popolo sentì il bisogno di un nuovo punto di riferimento, di un idolo, di una nuova personificazione di quello stesso Dio che pure li aveva guidati nell’esodo dalla schiavitù del Faraone. Il vitello d’oro, poi, è il segno dalla debolezza del popolo: come sempre fanno gli uomini, gli Israeliti erano pronti a sostituire a quel Dio potente, ma complicato e imprevedibile, un dio più semplice, bello il giusto, prezioso quanto serve, ma fermo come una statua, e soprattutto come una statua silenzioso.





Il capitello del vitello d’oro

Ed ecco, allora, Mosè scagliarsi contro il popolo e prima ancora contro il simulacro dorato, che distrugge gettandolo in un gran falò, fino a farne cenere:


Quando si fu avvicinato all’accampamento, vide il vitello e le danze. Allora l’ira di Mosè si accese: egli scagliò dalle mani le tavole, spezzandole ai piedi della montagna. Poi afferrò il vitello che avevano fatto, lo bruciò nel fuoco, lo frantumò fino a ridurlo in polvere, ne sparse la polvere nell’acqua e la fece bere agli Israeliti.

Mosè è implacabile, tanto che poi, distrutto l’idolo, chiederà ai leviti fedeli di passare a fil di spada coloro che, del popolo, non avranno ammesso e rinnegato l’errore. Ma prima si accanisce per ridurre al nulla quel vitello d’oro: lo scultore di Vézelay ritrae l’attimo in cui, di fronte a Mosè furioso, il diavolo che aveva ispirato l’idolatria esce dal simulacro e se ne fugge con la chioma irsuta e un ghigno spaventoso. Ma noi sappiamo che il Patriarca non si contenterà e, come abbiamo sentito raccontare nel Libro dell’Esodo, vorrà che nulla resti di quel toro luccicante, e lo farà bruciare e sciogliere. Di più: per ribadire che mai un oggetto deve sostituirsi alla voce viva del Signore, prima ancora di accanirsi sulla statua, distruggerà le stesse tavole della legge. Anche queste, infatti, sarebbero un muto simulacro, come spiega il rabbino Gianfranco Di Segni, se il popolo pensasse di sostituirle alla voce di Yahve, come un comodo decalogo di formalità: “In conclusione: non c’è niente di sacro al mondo a cui si debba prestare culto e sottomettersi. Solo Dio è santo, nella Sua ragion d’essere, e a Lui soltanto sono dovuti omaggio e culto”.



Lo sguardo dell’Israelita che porta l’offerta

E noi? Noi siamo quelli che arrivano tardi. L’artista di Vézelay ha rappresentato, nel capitello del vitello d’oro, anche ciascuno di noi, ritraendoci nelle sembianze della quarta figura. Siamo infatti come quell’Israelita che si presenta, fuori tempo e fuori luogo, col suo montone sulle spalle, per un altro sacrificio. Siamo quelli che non capiscono le cose quando accadono, quelli che si accomodano alla consuetudine, quelli che si adeguano alle abitudini della massa – meglio se piene di conformismo e vuote di coraggio -. Noi siamo quelli che arrivano tardi, e neanche si accorgono che il Signore grida, per bocca di Mosè, contro la nostra infedeltà, e pretende vendetta… Arriviamo con la nostra offerta, e al massimo riusciamo a guardarci intorno, e a chiederci che cos’è il trambusto che vediamo, quando tutto sembrava filare liscio, e anzi ci pareva che ci si stesse divertendo.

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La navata di Vézelay

I capitelli della basilica di Vézelay datano alla metà del XII secolo. Contando quelli nel nartece e quelli nella lunga navata, sono più di cento, e sono opere di grande qualità evocativa, dal tratto insieme moderno e rustico, dalla sinuosità del disegno, dal vigore quasi delirante. I temi rappresentati sono i più vari: si va dalle scene di derivazione classica ai soggetti mostruosi, dalle vicende bibliche ai rilievi decorativi: Before Chartres ha già raccontato un altro tra i più suggestivi, quello dedicato a Lamech e all’uccisione di Caino.

Per il loro numero, per il “disordine” della loro narrazione, e per la loro collocazione ad altezze differenti nella basilica, i capitelli di Vézelay, pur essendo celebrati e conosciuti, rischiano di sfuggire all’attenzione dei visitatori, o comunque di non essere gustati come meriterebbero; nella grande basilica, poi, il meraviglioso portale collocato nel nartece attrae a sé gran parte delle attenzioni… così che a Vézelay, non c’è dubbio, occorre tornare più volte. Come fa, ovviamente, Before Chartres.













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