Pope Francis Exchanges Christmas Greetings With The Roman Curia

L’autore è frate francescano dell’Immacolata, è docente di teologia dogmatica e ha diretto dal 2006 la rivista teologica “Fides Catholica”.

di Padre Serafino Maria Lanzetta


Il libro del card. Kasper che ha "fatto tanto bene" a papa Francesco (Angelus del 17 marzo 2013).
Il libro del card. Kasper che ha “fatto tanto bene” a papa Francesco (Angelus del 17 marzo 2013).

È da salutare con grande interesse lo sforzo teologico del cardinale Walter Kasper di rimettere il tema della misericordia di Dio non solo al centro della predicazione e della pastorale della Chiesa, ma soprattutto al centro della riflessione teologica. Nel suo recente libro sulla misericordia, apparso in tedesco nel 2012 e poi tradotto in italiano per i tipi della Queriniana (Giornale di Teologia 361) nel 2013, Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo – Chiave della vita, il cardinale tedesco, per lunghi anni presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani, parte da un’amara constatazione: la misericordia, la quale occupa un posto centrale nella Bibbia, è difatti caduta completamente in oblio nella teologia sistematica, trattata solo in modo accessorio. O non occupa un posto centrale nei manuali di teologia sistematica fino alle soglie degli anni 1960, o addirittura manca del tutto in quelli recenti. Se vi compare, occupa un posto del tutto marginale. Nonostante che il pontificato di Giovanni Paolo II avesse dato un grande impulso alla riscoperta della misericordia, come tema teologico e spirituale, grazie soprattutto alla santa polacca Faustina Kowalska, e che Benedetto XVI ne avesse fatto, in un certo modo, la sua direttrice, con la prima enciclica sull’amore, Deus caritas est, il tema rimane ancora nascosto nel suo potenziale sviluppo per la teologia e quindi per la vita cristiana. Il nostro cardinale, dunque, in questo suo testo, di cui ci occuperemo (5a ed. it. del 2014), raccoglie questa sollecitazione, e presenta a livello sistematico il tema della misericordia di Dio.

Una giustizia che si ritrae nella misericordia?


La misericordia è una medicina indispensabile, è l’ingrediente che purtroppo manca, ma che a ben guardare rappresenta l’unica vera risposta agli ateismi e alle ideologie così perniciose del XX secolo. Come annunciare di nuovo un Dio, di cui, dopo Auschwitz, faremmo solo meglio a tacerne l’esistenza? Storicamente, a giudizio di Kasper, suffragato da O.H. Pesch, “l’idea di un Dio castigatore e vendicativo ha gettato molti nell’angoscia a proposito della loro salvezza eterna. Il caso più noto e foriero di gravi conseguenze per la storia della chiesa è il giovane Martin Lutero, che fu per lungo tempo tormentato dalla domanda: ‘Come posso trovare un Dio benigno’, finché egli un giorno riconobbe che, nel senso della Bibbia, la giustizia di Dio non è la sua giustizia punitiva, ma la sua giustizia giustificante e, quindi, la sua misericordia. Su di ciò, nel XVI secolo la Chiesa si divise” (p. 25), e così da quel momento, il rapporto giustizia e misericordia divenne una questione centrale della teologia occidentale.
Il nostro cardinale preferisce non entrare nel tema della giustificazione secondo Lutero, solo la loda (come farà poi anche alle pp. 121.137), anche se ci sarebbero molte cose da dire, una tra tutte: la misericordia giustificante è vista dal riformatore tedesco non come perdono ontologico, come integra riconciliazione dell’uomo con Dio, nella verità e nella giustizia, ma come un essere semplicemente rivestiti dei meriti di Cristo (non dell’uomo), quindi in un intrinseco rimanere peccatori seppur dichiarati giusti. Questa è misericordia di Dio? Dove l’uomo rimane inficiato non solo del vulnus della concupiscenza, ma dalla stessa sporcizia del peccato, pur essendo giusto? Giusti nei peccati? Su questo il card. Kasper si mostra benevolo sorvolando, riferendosi solo allo sforzo immane fatto da ambo le parti, quella cattolica e quella luterana, di trovare un consenso fondamentale sulla dottrina della giustificazione con la Dichiarazione ufficiale comune sulla dottrina della giustificazione, del 31 ottobre 1999, che vedeva attori la Federazione Luterana Mondiale e la Chiesa Cattolica, rappresentata dal Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani, presieduto dal nostro cardinale (cf. p. 26). A questa Dichiarazione, seguita alla Dichiarazione congiunta del 1997, era stato necessario premettere, nel 1998, una Risposta ufficiale cattolica (elaborata di comune intesa tra la CDF e il PCUC, ma firmata solo da quest’ultimo), rimanendovi comunque una visione protestante non conciliabile con quella cattolica, nel tentativo ecumenico di non considerare più le condanne di Trento come divisive per le chiese.
In ogni caso Kasper è cosciente, nel suo libro, di un assunto: dobbiamo tirar fuori la misericordia “dalla sua esistenza di cenerentola, in cui essa era caduta nella teologia tradizionale” (p. 26). Certamente misericordia non è una visione sdolcinata di Dio, di un Dio possibilista verso i desideri dell’uomo, accondiscendente, buonista, ma è una vera sfida, non solo teologica, ma anche sociale e politica se vogliamo. Dalla vera misericordia deriva un’immagine di Dio come risposta adeguata all’ideologia ancora in voga, tanto quella marxista quanto quella capitalista.
Il card. Kasper è ben attento nel denunciare tutti i rischi che si nascondono negli accenti quasi ossessivi alla misericordia, ma a volte contro la verità. Un mondo che ha rinunciato a Dio e alla ragione, non può che accontentarsi di buoni sentimenti. Scrive, ad esempio: “La misericordia senza la verità sarebbe priva di onestà; sarebbe semplice consolazione, in definitiva un chiacchierare a vuoto. Viceversa, però, la verità senza misericordia sarebbe fredda, scostante e pronta a ferire” (p. 241).
Fine primario del libro di Kasper sulla misericordia, comunque, rimane un ridare assetto sistematico alla grande assente nel dibattito e nella speculazione teologici, provocando una coscientizzazione più ampia. Il nostro autore offre, così, dopo aver esaminato attentamente il messaggio della misericordia nell’A.T. e nella predicazione di Gesù, importanti riflessioni per un quadro speculativo generale sulla misericordia. Vogliamo occuparci più a lungo proprio di questo, perché a giudizio di chi scrive, in questo quadro sistematico, si insinua qualcosa che potrebbe sconvolgere l’insieme: facilmente esagerando i tratti misericordiosi di Dio, quando non addirittura spingendoli molto a ribasso. Esaminiamo quest’opera per gradi.

Beati i poveri in spirito

La patetica caricatura di Gesù fatta anche da molti suoi ministri.
La patetica caricatura di Gesù fatta anche da molti suoi ministri.


C’è una novità quasi radicale di Cristo rispetto al messaggio dell’A.T., commenta Kasper, consistente nel fatto che Gesù, “predica la misericordia definitiva per tutti. No solo a pochi giusti, ma a tutti egli dischiude la via di accesso a Dio… Dio ha messo definitivamente a tacere la propria ira e ha fatto spazio al suo amore e alla sua misericordia” (p. 103). Questa drastica separazione con l’Antica Alleanza, dove sembra, così dicendo, che non ci sia posto per la compassione e l’amore, non appare ben supportata. Basti pensare ai Salmi che lodano l’amore misericordioso del Padre per noi (cf. Sal 117, oltre a quelli che cita anche il nostro autore, convinto che dall’Esodo fino ai Salmi Dio è misericordioso e pietoso, cf. p. 93). La misericordia, in fondo, deriva dallo stesso atto creativo di Dio, che suscita in Lui approvazione e gioia (cf Gen 1,4.10.12.18). Dio non disprezza ciò che ha fatto, non rinnega l’opera delle sue mani.
Ma ciò che preme sottolineare al cardinale, nell’accento misericordioso del N.T., è piuttosto questo passaggio, in verità molto oscuro: “Suoi destinatari (di Gesù) erano in modo particolare i peccatori; essi sono i poveri in spirito” (p. 103). E questo, sembrerebbe, per il fatto che Gesù è amico dei pubblicani e dei peccatori (cf. p. 104). I peccatori sono i poveri in spirito? Quindi, chi commette i peccati è beato perché ha perso qualcosa nello spirito? Si vede a quali conclusioni potrebbe portare una tale considerazione, quando non a veri errori, che difatti sono già noti in tante predicazioni e infatuazioni misericordiose. La povertà di spirito non è una mancanza materiale di qualcosa (della grazia di Dio?), ma è una condizione interiore, un atteggiamento dell’intelligenza e del cuore, semplici, penitenti e umili, che si pongono davanti a Dio, senza mezzi umani, in ascolto della sua Parola (cf. Mt 5,3 alla luce del Sal 69,33ss.).
Su questo punto, invece, ha le idee molto chiare un importante teologo protestante, Heinz Zahrnt, il quale dice così, commentando il ministero pubblico del Signore: “I peccatori non sono scusati e la malattia non viene idealizzata. Gesù è un amico dei peccatori, non il loro compagno… Certamente il ritorno del peccatore rimane indispensabile, ma non è la condizione, è piuttosto la conseguenza del dono grazioso di Dio” (Jesus aus Nazareth. Ein Leben, Monaco 1987, p. 109). I poveri di spirito sono coloro che si convertono, non i peccatori che rimangono tali.

La misericordia specchio della Trinità?


Kasper rifiuta la visione metafisica classica e fa sua invece la critica di Kant, ben espressa poi in quel “Che cosa possiamo sperare?”. Cioè, la nostra intelligenza è limitata, non può superare il campo del visibile e dell’esperienza umana. Ciò che va oltre non è dato di conoscere, ma è relegato alla speranza, la quale rappresenta un mero postulato (cf. pp. 190-191). Questo anche per Kasper. Infatti, scrive: “Non è possibile superare la critica di Kant ai tentativi di una teodicea; tutti questi tentativi vanno considerati come falliti” (p. 191). Ma ci si pone, almeno qualche volta, il problema che una speranza come semplice presupposizione, ma infatti fondata sul dubbio, è già disperazione?
La teodicea, legata a una visione essenzialista di Dio, che, tra l’altro, escludeva dagli attributi dell’Essere divino la misericordia, riconducendoli invece, solo ad attributi (forti) come l’onnipotenza, la giustizia, l’infinità, ecc., lascerebbe il posto, nella S. Scrittura, a una forma più esistenziale dell’”Ego sum qui sum” (Es 3,14): non Io sono l’Essere, ma Io sono sempre con voi e per voi (cf. p. 129). Però, se la metafisica ha escluso la misericordia tra gli attributi essenziali di Dio (cf. p. 23), perché essa ci è rivelata da Dio nella sua automanifestazione storica a partire dalla Sacra Scrittura – gli attributi metafisici di Dio riguardano ciò che la ragione può cogliere come universale e senza necessità di una rivelazione soprannaturale –, Kasper in realtà si ingegna a voler collocare proprio la misericordia nella stessa essenza di Dio, come proprietà fondamentale di Dio; di più, al dire del nostro, come “specchio della Trinità” (p. 140). Questo, infatti, gli consente di dover guardare ormai e per sempre alla giustizia dalla misericordia: “Se la misericordia è la proprietà fondamentale di Dio, allora essa non può essere un’attenuazione della giustizia, ma bisogna piuttosto concepire la giustizia di Dio partendo dalla sua misericordia. La misericordia è allora la giustizia specifica di Dio” (p. 137).
È qui percepibile lo sforzo ecumenico del nostro autore, in un discorso in cui la visione di Lutero sembra costituire lo sfondo grazioso, ma, in ogni caso, ciò che stride è il tentativo di assorbire la giustizia nella misericordia. In teologia la misericordia è qualificabile come dono, una grazia, non un’esigenza, come invece lo è la giustizia, anche se naturalmente contempla anche l’aristotelica epicheia. La misericordia perfeziona e compie la giustizia ma non l’annulla; la presuppone, altrimenti non avrebbe in sé ragion d’essere. E questo anche perché le proprietà o attributi divini, a livello razionale, sono deducibili da ciò che la ragione è capace di esprimere su Dio. S. Tommaso dice: “La misericordia va attribuita a Dio in modo principalissimo (maxime attribuenda); non per quanto ha di sentimento o passione, ma per gli effetti (che produce)” (S. Th., I, q. 21, a. 3).
Anche se Kant dice di no, la ragione rimane comunque aperta alla realtà come tale, alle cose che sono in quanto sono, alle cose che esistono. Se Dio esiste (come lo sa questo Kasper? Solo dalla fede? Dalla speranza?) la ragione è aperta a tutto l’essere; la ragione è aperta a tutto l’essere perché Dio esiste. Ma questi discorsi possono apparire troppo fissisti, passati di moda.
Al nostro cardinale preme però dimostrare, con S. Luca (6,36), in un modo che sinceramente ci sfugge, che “la misericordia è la perfezione dell’essenza di Dio. Dio non condanna, ma perdona, dà e dona in una misura buona, sollecita, vagliata e sovrabbondante” (p. 105). Se allora la misericordia appartiene all’essenza stessa di Dio, perfezionandola (sic! In realtà, cosa può perfezionare Dio se non Dio stesso? Ad ogni modo bisogna decidersi se fare uso o meno della metafisica), allora, “nella misericordia non viene certo realizzata l’essenza trinitaria di Dio, questa però diventa concretamente realtà per noi e in noi” (p. 144). Kasper riprende la tesi dell’autoritrazione di Dio nella sua kenosi umana, non nel senso protestante di rinuncia alla sua divinità: per Lutero Dio nella sua kenosi è “raumgebend”, cioè colui che fa spazio all’autodecisione dell’altro, piuttosto nel senso della sua rivelazione. Dio, infinito in sé, si ritrae per fare spazio all’altro; al Figlio e mediante Lui allo Spirito Santo. In Dio, questa ritrazione, nella sua stessa infinità, è kenosi, è autospogliamento di sé, presupposto poi, perché, Dio infinito, possa fare spazio alla creazione. L’autoritrazione trinitaria conosce il momento del suo sublime rivelarsi nell’incarnazione e nella Croce di Gesù Cristo, rivelazione della sua onnipotenza nell’amore. Così Kasper (cf. p. 144).
Ci chiediamo: se Dio si ritrae per fare spazio all’altro, sia esso una persona divina o il creato, chi sarà l’altro? Dio stesso che si ritrae fino a perdersi nell’altro? L’uomo è l’autospogliamento di Dio? L’umanità di Gesù è l’autospogliamento rivelativo di Dio? Non c’è il rischio che Dio rimanga poi solo il Dio di Gesù Cristo, nella kenosi rivelativa di Dio? E che Gesù Cristo non sia più Dio ma solo la ritrazione del Padre? Domande che crescono e che ci colgono sorpresi. Ma che ci mettono davanti al rischio concreto dell’abbandono della metafisica.

Come possiamo non disperare


Kasper nella sua analisi cerca una via mediana tra la posizione di von Balthasar, da cui vuole distaccarsi, e la dottrina della Chiesa, ma alla fine non ci riesce.
Kasper nella sua analisi cerca una via mediana tra la posizione di von Balthasar, da cui vuole distaccarsi, e la dottrina della Chiesa, ma alla fine non ci riesce.


Un altro capitolo teologico importante nell’analisi di Kasper è quello riguardante la misericordia in relazione al discorso escatologico. Ancora una volta Kasper, ora suffragato da Hans Urs von Balthasar, si richiede, con la critica della ragion pura di Kant: “Che cosa possiamo sperare?”, domanda che riassume, a suo giudizio, “tutte le domande umane” (p. 158). Come per la ragione filosofica anche per l’intellectus fidei però si pone subito un problema: non tanto cosa ma come possiamo sperare? Qual è il modo teologale corretto di esercitare la speranza? Sembra che, come per la metafisica, anche in ambito escatologico l’analisi di Kasper presenti un vulnus.
Nella S. Scrittura scopriamo due diverse serie di affermazioni che per Kasper, come già prima per von Balthasar nel suo Sperare per tutti (or. ted. 1986, tr. it. 1989) appaiono inconciliabili. Per von Balthasar difatti rimangono inconciliabili, e cioè, in sintesi: da un lato la dichiarazione incontrovertibile che Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini (1Tm 2,3) e dall’altro, comprensivo di più luoghi scritturistici, il giudizio universale, in cui alcuni andranno alla perdizione eterna e altri alla salvezza eterna (Mt 25,31-46).
A giudizio di Kasper, le affermazioni salvifiche universalistiche sono di speranza per tutti, ma non riguardano la salvezza effettiva di tutti e singoli gli uomini, mentre le affermazioni che parlano di giudizio e dell’effettiva dannazione non intendono dire di nessun uomo che si sia dannato. Questo dà modo al cardinale tedesco di dedurre quanto segue: “Di nessun essere umano concreto ci è stata rivelata la dannazione eterna e la chiesa non ha mai insegnato in modo dogmaticamente vincolante a proposito di nessuno che egli sia caduto nella dannazione eterna” (p. 166). Neppure di Giuda si potrebbe dire ciò con sicurezza. Qui però sembra che si confonda il magistero dogmatico, che insegna senza alcun dubbio l’esistenza dell’inferno e l’effettiva perdizione di chi muore in stato di peccato mortale (si veda, come sintesi di numerosi interventi, il CCC ai nn. 1033-1035), con una sorta di dichiarazione infallibile che quel tale si è dannato. La Chiesa, come ben sappiamo, non fa “canonizzazioni” per chi si danna, ma insegna infallibilmente, sulla base del chiaro insegnamento del Signore, che l’inferno esiste e che non è vuoto.
Per Kasper però, e questo è il vero problema della sua analisi, “non possiamo né interpretare le affermazioni storico-salvifiche universali, piene di speranza, nel senso della dottrina dell’apocatastasi, come conoscenza di fatto dell’effettiva salvezza di tutti i singoli, né dedurre dalla minaccia del giudizio e dalla reale possibilità dell’inferno l’effettiva dannazione eterna di singoli essere umani o addirittura della maggioranza degli uomini” (p. 167). E questa è la posizione di Kasper: “Possiamo sperare nella salvezza di tutti, ma di fatto non possiamo sapere se tutti si salveranno” (p. 169). Questo è l’approdo, difatti, del criticismo kantiano. Non si può sperare, contro la fede, la salvezza di tutti. Come non c’è una speranza contro o senza la ragione, analogamente, non c’è speranza teologale contro o senza la fede. Non si può sperare contro le parole chiarissime del Signore: “… e questi se andranno alla perdizione eterna e i giusti alla vita eterna” (Mt 25,46), come se fossero mere esortazioni a fare i buoni.
Kasper nella sua analisi cerca una via mediana tra la posizione di von Balthasar, da cui vuole distaccarsi, e la dottrina della Chiesa, ma alla fine non ci riesce.
Von Balthasar aveva sostenuto che “non si sa se tutti si salveranno, ma si “può” sperare che nessuno si perderà” (Sperare per tutti, p. 13). Alla fine, il teologo di Basilea, rispondendo ai suoi critici in modo acceso, dirà che non solo si può, ma addirittura si deve sperare che nessuno si perderà. Chi pensasse che oltre a se stesso anche solo un altro potesse perdersi eternamente non amerebbe più senza riserve (Breve discorso sull’inferno, or. ted. 1987, tr. it. 1988, p. 57). A conforto della sua idea originaria, più possibilista ma non ancora esclusivista, von Balthasar amava riferirsi a una “nuvola di testimoni”, di mistici, che avrebbero condiviso la sua tesi.
In realtà, fu dimostrato nello stesso anno 1986 dalla rivista tedesca “Theologisches”, che nessuno dei mistici indicati da von Balthasar sostiene la sua visione di un “inferno vuoto”, con la sola eccezione di Adrienne von Speyr. Tutti i santi e mistici confermano la visione della dottrina della Chiesa: ci sono dei dannati all’inferno, non ultimo il messaggio della Madonna a Fatima. Qualora ci fosse qualche apparente discrepanza tra le visioni dei mistici circa le realtà ultime – Balthasar ad esempio amava riferirsi alla misericordia della piccola Teresa, più che alla teologia mistica della grande Teresa – la cosa va risolta guardando all’insieme dei santi e non a casi isolati e nell’ottica del Magistero della Chiesa.
Kasper, per rafforzare la sua tesi, cita anch’egli numerose testimonianze di diversi santi, specialmente donne. Ma li cita normalmente secondo von Balthasar. In definitiva, il vero problema di von Balthasar fu la sua dipendenza in toto da Origene, come gli rimproverò Werner Löser: il teologo di Basilea volle svolgere la sua intera opera “nello spirito di Origene”; a differenza di questi, però, non postulò anche la salvezza del diavolo, ma solo quella degli uomini.

Un Dio che soffre per misericordia?


Infine, vorremo soffermarci su un altro aspetto sistematico con cui il card. Kasper lumeggia la misericordia di Dio in se stesso. Ora l’accento è posto sulla sofferenza di Dio e si può subito capire che anche qui la questione diventa molto delicata: da un lato è in agguato il cosiddetto patripassianismo, vecchio errore che ammetteva la sofferenza del Padre nella passione del Figlio e dall’altro una sorta di apatia di Dio, ragion per cui molti si sono allontanati da un Dio che sembra non avere un cuore, un Dio freddo calcolatore che rimane muto dinanzi al mistero del dolore e della sofferenza innocente.
Dio non è apatico, dice Kasper. “Secondo la testimonianza della Bibbia Dio ha un cuore per noi uomini, soffre con noi, gioisce con noi e si affligge per noi e con noi” (p. 183). La Bibbia non conosce un Dio che troneggia in modo insensibile. Venendo al N. T., è lampante l’esempio del Cristo, di colui che assunse per noi la forma di servo umiliando se stesso (cf. Fil 2,6ss.). Un Dio in croce, vero scandalo per il mondo nella stoltezza dei pensieri umani. Il tentativo di Kasper qui è di unire l’insegnamento della Bibbia, cioè di un Dio che soffre per amore con quello della teologia classica e metafisica, secondo cui Dio non può soffrire in se stesso, ciò che sarebbe chiaramente un divenire e perciò una solenne imperfezione.
A giudizio di Kasper, però, “per la Bibbia… la con-sofferenza di Dio non è espressione della sua imperfezione, della sua debolezza e della sua impotenza, ma è espressione della sua onnipotenza… Egli non può quindi essere passivamente e contro la sua volontà colpito dal dolore, però nella sua misericordia si lascia sovranamente e liberamente colpire dal dolore” (pp. 184-185). Dio nella sua misericordia è libero di soffrire e soffre per noi. Così, conclude Kasper, “oggi molti teologi della tradizione cattolica, ortodossa e protestante parlano della possibilità che Dio ha di soffrire e di con-soffrire con noi” (p. 185).
È molto importante spiegare che Dio può soffrire, anzi che si è fatto uomo proprio per poter soffrire per noi e con noi. Perciò non è insensibile o apatico. Ma in che modo però parliamo di Dio quando gli attribuiamo la sofferenza? Quale estensione ha il concetto “Dio” in Kasper e negli altri teologi che sostengono, evidentemente senza distinguere, la “sofferenza di Dio” dal Dio in quanto tale? Sembra, a ragion veduta, che Kasper, per appurare la sofferenza misericordiosa di Dio, utilizzi il concetto “Dio” in modo universale, o se vogliamo, in relazione alla Trinità, in modo piuttosto modale. Bisogna chiedersi: Dio soffre in quanto Dio, in quanto Padre, Figlio e Spirito Santo, o non invece in quanto Figlio e soltanto nella sua natura umana? La sofferenza, in verità, è di Cristo e circoscritta alla sua natura umana. La possiamo attribuire anche alla natura divina del Figlio – in questo senso Dio soffre, Dio muore, Dio è in Croce, ecc. – in virtù della “communicatio idiomatum”, comunicazione che non sposta la sofferenza da Cristo a Dio e quindi alla Trinità, ma attribuisce la sofferenza della natura umana del “Christus patiens” alla sua natura divina, nature ipostatizzate dalla persona divina del Verbo e quindi, in ogni caso, delimitata alla seconda persona divina della SS. Trinità. Dio non soffre come Dio ma come uomo in Cristo. L’operazione logicamente scorretta è attribuire in modo improprio ciò che è di Cristo al Dio trino e uno. Certamente vale ciò che dice s. Bernardo di Chiaravalle, che Dio è “impassibilis” ma non “incompassibilis”, capace cioè di compatire ma non di patire, ma non è corretto affiancare questa citazione, con quella di S. Agostino in “Enarrationes in Psalmos” 87,3: il Signore assunse la debolezza umana e la morte non per la miseria della sua condizione ma per la volontà della sua compassione, a quella di Origene in “Homilia in Ezechielem” VI,8, secondo cui Dio “prius passus est, deinde descendit. Quae est ista, quam pro nobis passus est, passio? Caritas est passio” (cf. p. 186). Qui Origene non è accettabile: è contro il dogma della Chiesa ammettere una sofferenza in Dio, addirittura prima della sua incarnazione e trasformare la Carità, che è Amore purissimo e semplicissimo, in sofferenza. Se anche Dio soffre nella sua eternità, chi potrà mai liberarci dalla sofferenza, una volta per sempre? E se Dio soffre, ma per amore, chi darà un senso al mio amore, che è essenzialmente richiesta di non più soffrire?
Ne va da sé che per Kasper l’unica vera risposta al male, alle tragedie, alle catastrofi naturali è la speranza, e cioè l’esercizio della misericordia. La ragione non può dirci di più e neanche la fede (cf. pp. 187-199).
Ci si consenta, a questo punto, anche qualche perplessità nel pensare all’impianto della misericordia che soggiacerebbe al “Vangelo della famiglia”, tema introduttivo e linea guida per i lavori del prossimo Sinodo sulla famiglia.
Qual è difatti la misericordia che dovrebbe fungere ormai da ponte tra “la dottrina della Chiesa sul matrimonio e le convinzioni vissute di molti cristiani”? Forse che i divorziati risposati, che desidererebbero fare la comunione, sono i poveri in spirito, ai quali non resta altro se non la speranza come esercizio della misericordia?
I santi, in verità, ci insegnano ad essere molto cauti con la misericordia di Dio, a non prenderla sottogamba, né a misconoscerla, chiudendosi in un desiderio di giustizia ad ogni costo. L’apostolo della Germania, S. Pietro Canisio, S.J., dice a tal proposito: “Con la misericordia di Dio vogliamo sempre comportarci in modo da essere conformi alla sua giustizia. Gli uomini ciechi si lasciano sedurre da una confidenza vanitosa nella misericordia di Nostro Signore” (Lettera alla sorella Wandelina van Triest, nata Kanis, Colonia, 23 marzo 1543).



© www.chiesa (18 settembre 2014)