giovedì 25 settembre 2014

La vittoria sul mondo







Mondo moderno e postmoderno 


di Giovanni Cavalcoli

Una delle prospettive della vita cristiana, come è noto, è quella di “vincere il mondo”(cf per es. 1 Gv 5,4-5). Ciò però suona strano e quasi inaccettabile per un cristiano di oggi abituato a una certa pastorale e conseguente impostazione di vita postconciliari, le quali invece insistono in modo quasi ossessivo sull’importanza, bontà ed amabilità del mondo, soprattutto il mondo moderno o, come si dice, la “modernità”. 

Non il Magistero dellaChiesa, che vien considerato attardato su posizioni superate, ma la modernità fornisce per l’oggi - secondo molti - l’interpretazione del Vangelo. Non è il Vangelo che regola la modernità, ma accade l’inverso. Dio ci parla e ci guida, dicono alcuni, non attraverso la morale rigida e astratta della Gerarchia, ma attraverso la Chiesa intesa come Popolo di Dio che esprime nella concretezza dell’oggi la presenza evolutiva e sempre in movimento di Dio nel mondo e nella storia. 

In questi ultimi anni, d’altra parte, si è fatto un gran parlare, negli ambienti della sociologia della religione e della cultura, di “postmoderno”, distinguendolo dal “moderno”, ma si potrebbe osservare subito che il moderno non sarebbe moderno se ci fosse qualcosa “dopo” di lui, ma sarebbe un passato, per cui la parola stessa “postmoderno” è balorda o non ha senso.Inoltre ciò mi dà l’impressione di una grande retorica e vuotaggine, nonché sembra frutto della mania di alcuni studiosi di apparire originali con l’invenzione di nuovi vocaboli e di distinzioni verbali, che in fin dei conti servono a ben poco, perché manca la chiarezza e la precisione delle idee.

La categoria del “postmoderno”, purtroppo insinuatasi anche nella cultura cattolica, appare dunque una costruzione ideologica artificiosa che confonde più che chiarire la situazione del mondo d’oggi, perché se si va a vedere che cosa questi analisti intendono per “postmoderno”, ci si accorge che è un termine posticcio e meramente convenzionale per designare autori e tendenze contemporanee, come per esempio il pensiero debole o il nichilismo o la caduta dei valori o gli sviluppi del pensiero di Heidegger, tutte cose che non sono altro che la conseguenza del cosiddetto “moderno”, col quale s’intende comunemente da tempo la filosofia nata da Cartesio o il cristianesimo avviato da Lutero.

Così alcuni credono che il riempirsi la bocca del termine “postmoderno” sia dar segno di aggiornamento e di possedere una fine cultura relativa la mondo d’oggi. In realtà, io ritengo che per parlare del mondo d’oggi basti benissimo la categoria del “moderno”, anche perché, se andate a vedere che cosa intendono gli Autori che fanno uso della parola “postmoderno”, tra “moderno” e “postmoderno” non troverete delle differenze tali da giustificare simile distinzione terminologica, oltre a tutto così infelice, almeno ai fini del tema che ci siamo proposto - la questione del rapporto del cristiano col mondo -, tema che non pretende di entrare nel campo di approfondite analisi tra autore e autore, che interessano invece di più lo storico e il sociologo della cultura, per non dire il cronista. 

La distinzione fra moderno e postmoderno è dettata da quella mentalità nominalistica e storicistica così diffusa oggi, la quale in mutamenti accidentali e meramente materiali o quantitativi vede chissà quali cambiamenti epocali o sostanziali, mentre perde di vista il permanere di certi fattori di fondo, sempre di carattere storico, ma più legati alla vita dello spirito, che in realtà sono quelli che bisognerebbe maggiormente individuare e tener presenti soprattutto in rapporto al nostro tema. 

Tali fattori, tali trends furono a suo tempo con sapienza esposti dal Concilio, soprattutto nella grande costituzione pastorale Gaudium et Spes, documento che, sebbene ormai datato, ci presenta alcuni fenomeni del mondo moderno che dobbiamo ancora tenere presenti. Semmai si può dire che ciò che vien chiamato “postmoderno” sono alcuni fenomeni che si sono aggiunti a quelli presentati dal Concilio o che mutano in qualche modo il quadro storico che esso ci offre. Ma non posso condividere la distanza esagerata che i postmodernisti pongono tra il moderno e il postmoderno. Per questo, nel suo insieme, il cosiddetto “postmoderno” non è altro che un moderno aggiornato, che semmai potremmo chiamare col termine più appropriato di “contemporaneo”. Ma questi termini improntati al tempo dicono in se stessi ben poco e per avere idee chiare circa il mondo d’oggi sarebbe molto meglio far riferimento agli autori e alle tendenze precise che essi hanno avviato o che sono di attualità.


Modernità e modernismo 

La categoria basilare da usare resta sempre pertanto quella della “modernità”, così come la vediamo usata dagli studiosi più avvertiti e dallo stesso Magistero della Chiesa. Lasciamo perdere il “postmoderno”, un’idea tutto sommato inutile e confusa, bene che vada. Modernità e modernismo: queste sono invece le categorie significative, veramente pastorali, attorno alle quali deve girare la discussione circa il rapporto che il cristiano deve avere oggi col mondo alla luce del Concilio Vaticano II. 

Se proprio vogliamo contrapporre una categoria temporale al moderno riferita all’oggi più attuale, possiamo benissimo andare al vocabolo più significativo e tradizionale, quale quello di “modernissimo”, che accentua la modernità senza arrivare ad assurde modernità posteriori alla modernità. Invece, una categoria utile e significativa, anche se va usata con prudenza, e che si accosta a quella del moderno, è quella di “modernismo”, termine che richiama chiaramente il fenomeno ben noto dei tempi di S. Pio X, anche se con certe differenze, per le quali alcuni preferiscono parlare di “neomodernismo”. 

Per questo, ritengo che occorra, con saggezza, far più uso del termine “modernismo”, perché, inteso bene, è molto illuminante e occorre invece sottrarlo a certi ambienti lefebvriani i quali, se da una parte individuano autentici aspetti attuali di modernismo, come per esempio la teologia di Rahner, dall’altra usano il termine a sproposito, quando accusano di “modernismo” le dottrine conciliari o il Magistero postconciliare della Chiesa. 

È bene inoltre distinguere “modernismo” da “progressismo”. Il primo infatti è un’eresia, ancor oggi esistente benchè in forme diverse, il secondo non dev’essere ricondotto al modernismo, come fanno i lefebvriani, perché esprime una tendenza teologica, morale e culturale del tutto legittima che emerse in modo speciale durante il lavori del Concilio e che non esprime altro che una speciale attenzione al progresso. 


L’impostazione del Concilio Vaticano II 

Lo stesso Concilio Vaticano II si potrebbe chiamare “progressista”, dove il termine non designa altro che l’interesse per un avanzamento nella conoscenza della parola di Dio, e una volontà di riforma, correzione, miglioramento e rinnovamento nei costumi. 

Un grande maestro che dà prova in questo campo di equilibrio e fedeltà alla Chiesa, vorrei dire di sano progressismo, è Maritain, che nel suo famoso libro Le paysan de la Garonne del 1966, se da una parte denunciava l’impressionante rinascita di modernismo sin dall’immediato periodo postconciliare, dall’altra già parlava, proprio per designare il nuovo modernismo, dell’“inginocchiarsi davanti al mondo”, come fraintendimento dell’apertura al mondo moderno promossa dal Concilio Vaticano II e ricordava la duplice valenza del termine “mondo” nel Nuovo Testamento: mondo come creazione di Dio, in sé buono anche se corrotto dal peccato, ma da salvare, tanto che “Dio ha tanto amato il mondo, da dare il proprio Figlio, affinchè chi crede in lui non muoia ma si salvi ed abbia la vita eterna”. 

E poi mondo come mondo dell’odio, del peccato e della morte, dove Satana è il principe. Questo mondo, come ci insegna S. Giovanni, non va amato, ma odiato, non va accolto ma respinto e combattuto, non va cercato ma fuggito, anche se certo si tratta di odiare il peccato, pur amando il peccatore (“amore del nemico”). 

Credere che il Concilio veda il mondo solo sotto una luce positiva è uno dei quei fraintendimenti esegetici ereticali del Concilio, dei quali parlava di recente Mons. Gerhard Müller, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Errore pericolosissimo che rende schiavi del mondo e zimbelli di Satana, anche se si è vescovi o dottori in teologia. 


Errori circa il rapporto col mondo 

Senza dimenticare l’aspetto positivo del mondo – in tal modo esso può e deve essere salvato – è molto importante oggi dissipare la falsa interpretazione del Concilio che vede il mondo come valore assoluto col quale soltanto dialogare, un modo soltanto da seguire, da imitare, da obbedire e da amare. Non più “fughe dal mondo”, si dice, ma “essere immersi nel mondo”. 

Molti sono oggi gli errori che riguardano il rapporto del cristiano e della Chiesa col mondo moderno. Alcuni teologi della liberazione, come Edward Schillebeeckx, Gustavo Gutierrez e Albert Nolan, tutti purtroppo Domenicani, rifiutano la teoria dei “due mondi”, sostengono cioè che non esiste un mondo futuro al di là di quello presente, dopo la morte, ma il mondo futuro del quale parla il Vangelo è semplicemente il futuro di questo mondo liberato dall’ingiustizia, dalla violenza, dalle disuguaglianze, dalle offese al creato (questione ecologica) e dalla sofferenza, un mondo libero e fraterno, dove alla morte non segue una vita posteriore, ma tutta la salvezza è solo su questa terra creata da Dio, per cui la morte va accettata serenamente senza drammi come fatto naturale e normale. L’importante è vivere bene qui da buon cristiano come modello di umanità. 

Per questi Autori il cristianesimo “libera dalla morte” non nel senso di una futura risurrezione fisica[1], ma senso morale della liberazione dal peccato, dall’egoismo, dall’individualismo, dalla malvagità dall’oppressione dell’uomo sull’uomo. 

Il cristiano non deve combattere contro vaghe e astratte forze psicospirituali (la “carne”, il “peccato”) o contro il “diavolo”, essere mitologico e semplice simbolo del male e dell’ingiustizia, ma contro forze storico-politiche ben precise, che ostacolano la liberazione dei poveri e degli oppressi e il progresso dell’umanità. 

Quindi la felicità che ci dà il cristianesimo riguarda solo questo mondo, che è l’unico; non ce ne sono altri. La risurrezione non è un fatto fisico che avverrà nel futuro temporale dopo la morte, ma è il simbolo della liberazione cristiana nel presente. L’escatologia non riguarda l’al di là ma l’al di qua.
L’etica cristiana non è un’etica sovramondana indirizzata ad un mondo trascendente, ma è l’etica umana e naturale condotta attuata in forza della grazia nella vita della Chiesa. La Chiesa non ha nemici da vincere, essa non deve affatto “vincere il mondo”, perché il mondo non costituisce per lei un pericolo o un nemico, ma un partner col quale deve essere sempre in dialogo e in contatto, giacchè tutti si salvano, quale che sia la religione alla quale appartengano, compresi gli atei, e in fin dei conti la Chiesa non è un qualcosa di gerarchizzato, superiore al mondo, ma è il mondo salvato da Cristo. I sacramenti non sono segni di una vita ultramondana, ma i simboli e i fattori di una buona e sana vita in questo mondo, che è l’unico mondo. Il sacerdozio non viene da Cristo ma dalla base popolare della Chiesa, per cui tutti, uomini e donne, eterosessuali e omosessuali, possono essere sacerdoti - meglio dire: ministri, presidenti e pastori - e possono celebrare i sacramenti, messa compresa. 

Questa esagerata e falsa valutazione del mondo in certe correnti del postconcilio è andata tanto avanti, che del mondo si è fatto un idolo, un assoluto, il mondo è diventato Dio stesso[2]. Anzi si è elaborata una cristologia che identifica Cristo col mondo, la cosiddetta “cristologia cosmica”, come per esempio quella di Teilhard de Chardin, per la quale Cristo non trascende il mondo, ma né è il suo vertice – il “punto Omega”. 

Si tratta in fondo di una forma di materialismo che pone la materia come animata da un’energia o forza divina, per la quale essa si “autotrascende” evolutivamente nel tempo – qui si giustifica l’evoluzionismo darwiniano – fino a raggiungere il mondo dello spirito trasformandosi in spirito, per cui il suo vertice supremo è Dio. 

Ma Dio stesso, in questa visione, non è puro spirito, ma sintesi di spirito e materia, sicchè alla fine il divino non scende dall’alto – dal “cielo” – verso il basso – la “terra”, ma viceversa appunto perché il divino è in basso, nella materia, il divino sale dal basso verso l’alto. La terra è più importante del cielo. 

Sembra così riapparire quella visione eretica medioevale di Davide de Dinant, il quale concepì Dio come la “materia prima” cadendo sotto la severissima condanna di S. Tommaso d’Aquino, che notò sdegnato - cosa che gli capita assai di rado - come Davide “stultissime dixit quod materiam primam esse Deum”. 

Altri identificano il mondo con la Chiesa, in quanto l’uomo - secondo loro - sarebbe originariamente e per essenza in grazia e figlio di Dio, per cui negano il peccato originale e le sue conseguenze. La grazia non è liberazione dal peccato, ma un costituivo dell’uomo, per cui tutti sono sempre e necessariamente in grazia. Cristo non ha “espiato” o “riparato” per noi, ma semplicemente costituisce l’orizzonte supremo e divino dell’autotrascendenza umana. La storia umana quindi coincide con la storia della salvezza e l’esser uomo coincide con l’esser figlio di Dio. L’uomo, ogni uomo, anche l’ateo, non può non tendere verso Dio. Per questo tutti si salvano. È questa la posizione di Rahner. 

Altri, di tendenza ancor più spinta panteista di ispirazione severiniana, come per esempio un certo teologo sedicente tomista, fondandosi sull’identificazione hegeliana del pensiero con l’essere e del razionale col reale, sostengono che l’io, il mondo, la Chiesa, Cristo e Dio sono la stessa cosa. “Tutto è uno a tutto è in tutto”. Una visione che ricorda anche quella di Giordano Bruno. 


Come si vince il mondo 

Invece, se guardiamo bene il Vangelo, noteremo, come sempre si è notato, che il mondo è tentatore e seduttore, pieno d’insidie e pericoli, è una forza ostile e prepotente, decisa a dominare o a distruggere la Chiesa e a perdere le anime. È rappresentato dal “Drago rosso” dell’Apocalisse. Occorre individuare quei pericoli e quelle insidie, occorre reagire con coraggio, combattere e vincere. 

Non si deve necessariamente pensare a una guerra fisica o militare, benchè non sia esclusa, ma si tratta di una guerra contro il peccato, la menzogna, l’ingiustizia, la sofferenza, la morte. Il mondo non è solo fuori di noi, ma anche in noi. Da qui la necessità anche di vincere se stessi, ossia i propri cattivi impulsi e passioni. E qui la lotta s’identifica con quella che l’ascetica tradizionale chiama lotta contro la “carne”. Si tratta di lottare anche contro il demonio. 

Il mondo come forza ostile non è solo fuori della Chiesa, ma anche dentro. In tal modo il cristiano è chiamato a seguire il destino di Cristo: “Venne fra i suoi ma i suoi non l’hanno accolto”. Le forze moderniste sono un esempio eminente di questo mondo ostile che combatte la Chiesa dall’interno.
Che significa “vincere il mondo”? Significa “conservarsi puri da questo mondo”, come si esprime S. Giacomo, non lasciarsi contaminare, non lasciarsi spaventare o sedurre. Il mondo può uccidere il corpo, ma l’anima non perde la vita col peccato mortale se non perché lo vuole. In tal modo essa è vinta dal mondo. 

La vittoria sul mondo è effetto soprattutto della Croce di Cristo, il quale strappa l’uomo al dominio di Satana ottenendo dal Padre il perdono dei peccati e riconciliando l’uomo con Dio. Satana quindi perde la sua forza aggressiva, seduttrice e tentatrice, per cui l’uomo, in possesso della forza divina della grazia di Cristo, riesca domare facilmente le forze del male in attesa della piena liberazione riservata al premio celeste. L’uomo quindi vince il mondo unendosi alla croce salvifica del Signore. 


La Chiesa e il mondo 

Cristo è certo venuto non per condannare il mondo ma per salvarlo. Egli offre a tutti la salvezza. Tutti possono salvarsi, ma poi di fatto non tutti si salvano. C’è un mondo che accoglie Cristo e la Chiesa e c’è un mondo che li rifiuta. 

La Chiesa celeste è fatta solo di santi. La Chiesa della terra è un misto si santi e peccatori. Il mondo invece non è santo se non perché santificato dalla Chiesa. Alla Chiesa spetta consacrare la profanità del mondo. Ma il mondo di per sé è ambivalente, come il libero arbitrio dell’uomo: può scegliere il bene come il male. Per questo il mondo si divide tra il paradiso e l’inferno. Non esiste una Chiesa infernale, mentre esiste un mondo infernale. 

Per questo c’è un mondo che si oppone alla Chiesa e vuole distruggerla o asservirla. Il secolarismo ispirato alla massoneria è un modo subdolo e fascinoso di ridurre la Chiesa a una società filantropica meramente umana e terrena, per poterla meglio dominare e sfruttare[3]. 

Contro questo mondo la Chiesa deve combattere e difendersi per non lasciarsi opprimere, anche se essa ha ricevuto da Cristo la promessa che portae inferi non praevalebunt. Tuttavia, se la Chiesa nel suo insieme non può esser vinta dalle potenze del male, le singole anime e singole Chiese possono anche cedere, com’è dimostrato dalla storia. Solo la Chiesa Romana è assolutamente indistruttibile avendo come Vescovo il Vicario di Cristo. 

C’è invece un mondo che accoglie la Chiesa e viene da essa santificato. Avvengono allora un dialogo, una collaborazione e un aiuto reciproci. Pensiamo per esempio al regime dei concordati tra Chiesa e Stato. La Gaudium et Spes insiste molto su ciò dando in qualche modo l’impressione che Chiesa e mondo stiano quasi alla pari. 

Se tuttavia leggiamo attentamente questo stupendo documento del Concilio, vedremo che esso ribadisce la superiorità della Chiesa sul mondo e sulla società civile organizzata dallo Stato. È la Chiesa che guida il mondo a Dio, benchè Dio sia già presente nel mondo. La Chiesa terrena, dal canto suo, non appartiene al mondo, ma non può non essere nel mondo, anche nei suoi membri più ritirati, come i monaci e gli eremiti, i quali viceversa sono in realtà più che mai nel cuore della Chiesa, come diceva S. Teresa di Gesù Bambino e quindi nel cuore del mondo, anche se invisibilmente. Dunque lotta durissima della Chiesa col mondo dell’ingiustizia, del peccato e della morte, ma anche incontro e scambio stupendi e salvifici per tutti gli uomini di buona volontà.





NOTE: 

[1] Le stesse “apparizioni” di Cristo risorto non vanno intese come fatti fisici e sensibili, ma nel senso metaforico e simbolico di Cristo che è vivo presso il Padre.
[2] Come del resto abbiamo già in Hegel, non per nulla oggi molto influente nella teologia cattolica.
[3] Vedi i ripetuti tentativi della massoneria di intromettersi nelle finanze dello IOR.








La voce di don Camillo    25.9.14



Nessun commento:

Posta un commento