mercoledì 26 settembre 2012

Sulla ermeneutica della continuità










di Francesco Arzillo

La burrasca ecclesiale connessa ai conflitti fra tradizionalisti e progressisti non accenna a placarsi ed anzi appare accentuata, dato che le posizioni papali sfuggono – e non potrebbe essere altrimenti – a questo tipo di contrapposizione. Se i progressisti non gradiscono il motu proprio "Summorum Pontificum", i tradizionalisti rimangono perplessi per l’iniziativa di Assisi, e così via.

Spiace dover constatare che la questione dell’ermeneutica della continuità resti assoggettata a una sostanziale incomprensione, nonostante si tratti di un’indicazione magisteriale autorevole e vincolante per i cattolici, oltre che fondata sull’evidente presupposto della continuità nel tempo della vita del corpo ecclesiale, con la connessa assistenza dello Spirito Santo ai pastori.

La dialettica ecclesiale tende ad assumere forme e metodi più politici che teologici, finendo col riprodurre all’interno della Chiesa la dialettica destra-sinistra propria della modernità politica.
Molto si è detto e scritto – e giustamente – contro chi si ostina a vedere nel Concilio Vaticano II il nuovo inizio che metterebbe fine al periodo caratterizzato dalla “forma costantiniana” della Chiesa.
Bisogna tuttavia censurare anche il tradizionalismo che legge la ricchissima eredità della teologia classica con mentalità più cartesiana che aristotelica, confondendo aprioristicamente i mutamenti delle formule con i mutamenti di dottrina, o trattando i concetti teologici come se fossero idee chiare e distinte, con un approccio razionalistico e per nulla affine a quello della grande scolastica medievale, per non dire dei Padri della Chiesa.

Come venirne fuori?
In primo luogo cercando di assumere un abito di umiltà, anche intellettuale, che dovrebbe essere proprio – pur nei diversi ruoli – di ogni fedele cattolico, teologi compresi.
Le dottrine infallibili o comunque irreformabili non possono essere discusse. Ma un particolare ossequio è dovuto anche al magistero ordinario. Infatti il par. 752 del codice di diritto canonico dispone: “Non proprio un assenso di fede, ma un religioso ossequio dell’intelletto e della volontà deve essere prestato alla dottrina, che sia il Sommo Pontefice sia il Collegio dei Vescovi enunciano circa la fede e i costumi, esercitando il magistero autentico, anche se non intendono proclamarla con atto definitivo; i fedeli perciò procurino di evitare quello che con essa non concorda”.

Non è quindi possibile sbarazzarsi del consolidato insegnamento sulla libertà religiosa o sull’ecumenismo dicendo che non si tratta di dottrine infallibili: anche qualora non le si ritenga tali, esse vanno seguite lo stesso.
Neppure ci si può lamentare del fatto che gli ultimi pontefici abbiano fatto della retta attuazione del Vaticano II un punto di riferimento del loro ministero (e cosa altro avrebbero dovuto fare?).
L’ermeneutica della continuità andrebbe verificata e praticata con esercizi concreti, i quali – se rettamente condotti – dimostrerebbero che essa è sempre possibile.

Per semplificare, poniamo che io abbia una classica asserzione dogmatica A e una dottrina conciliare B, la quale sia passibile di due interpretazioni: B1, ossia un’interpretazione compatibile con A; e B2, ossia un’interpretazione non compatibile con A (ambivalenza, questa, non rara a motivo del linguaggio “pastorale” adoperato dall’ultimo Concilio e da una parte del magistero recente).
L’ermeneutica della continuità mi richiede allora di scegliere l’interpretazione B1. Non si tratta però di un’imposizione volontaristica e positivistica. Al contrario, essa presuppone sia il principio logico di non contraddizione, sia la non irrazionalità del dato rivelato, sia i principi teologici ed ecclesiologici tipici del cattolicesimo, che mirano alla salvaguardia dell’unità-continuità della Chiesa nel tempo.
Ad esempio, se io leggo il testo del Vaticano II in cui si dice che “con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo” ("Gaudium et Spes" 22) dovrò interpretarlo in modo compatibile con i concili cristologici antichi, valorizzando le implicazioni della locuzione “in certo modo”.
Quindi, nessun “pan-cristismo” antropocentrico al quale osannare, o contro il quale levare grida scandalizzate. Più semplicemente, e più cattolicamente, una maggiore e sempre più penetrante intelligenza del dato rivelato.

Si potrebbe replicare: ma se io vedo una contraddizione che mi impedisce di prestare l’assenso?
A questo proposito potrebbe soccorrere il detto di Ignazio di Loyola, secondo il quale “per essere certi in tutto, dobbiamo sempre tenere questo criterio: quello che io vedo bianco lo credo nero, se lo stabilisce la Chiesa gerarchica. Infatti noi crediamo che lo Spirito che ci governa e che guida le nostre anime alla salvezza è lo stesso in Cristo nostro Signore, lo sposo, e nella Chiesa sua sposa; poiché la nostra santa madre Chiesa è guidata e governata dallo stesso Spirito e Signore nostro che diede i dieci comandamenti”.
L’ossequio dell'intelletto, che deriva dall’accettazione di questa posizione, non rimane senza frutto, perché purifica la volontà e predispone la ragione a una più attenta considerazione della questione e consente, in ultima analisi, di diradare i motivi di perplessità che sembravano invincibili ed erano in realtà dettati da pregiudizi.


A tal fine è di aiuto la lettura di teologi che applicano questo tipo di ermeneutica, come ad esempio il cardinale Leo Scheffczyk (1920-2005), o il padre Jean-Hervé Nicolas, o il padre Giovanni Cavalcoli.
Ne uscirebbe rafforzata la coscienza ecclesiale e la volontà di operare – cattolicamente – "cum Petro et sub Petro", nella straordinaria vicenda della comunicazione del messaggio cristiano ai nostri contemporanei, figli di Dio e fratelli in umanità.






http://www.formazioneteologica.it/sulla-ermeneutica-continuita-159.html


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